Tra «popolo» ed «élite» il vero scontro è sulla conoscenza [di Antonella Soldo]

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il manifesto 20 luglio 2018. Che cos’è un popolo? Che cosa definisce un gruppo di persone come popolo? Che cosa esclude un individuo dal farne parte? In tempi ancora non sospetti si era fatto le stesse domande Giorgio Agamben, il quale aveva notato come in tutte le lingue europee moderne il termine «popolo» indichi sempre anche i poveri, i diseredati, gli esclusi. «Uno stesso termine nomina tanto il soggetto politico costitutivo quanto la classe che, di fatto se non di diritto, è esclusa dalla politica» (Mezzi senza fine, 1996).

Lo «scontro tra popolo ed élite» è il nuovo cavallo di battaglia di Matteo Salvini, seguito dai 5 stelle. Uno slogan rinfrescato, che riduce all’osso concetti già utilizzati. Nella sua semplicità è perfetto per l’avvio già dato alla campagna elettorale per le prossime elezioni europee. Ma lo scontro tra popolo ed élite, per come la mette Salvini, è finto.

Non esiste. È una menzogna che serve a ricoprire di una giustificazione quelli che sono atti del potere. È una manipolazione operata da alcune élite che si travestono da popolo per dare una legittimazione a idee e azioni antipopolari.

Azioni che, al contrario, mirano proprio a “ripulire” il concetto di Popolo come soggetto politico, a renderlo puro ed astratto: eliminando da esso, appunto, il popolo degli ultimi, degli esclusi, dei poverissimi. Per capirci: il tema su cui questo dispositivo è applicato con nonchalance è l’immigrazione. Il ragionamento ha dell’assurdo – chi più dei migranti, degli ultimi diseredati della terra sui barconi potrebbe dirsi «popolo»?

Cominciamo dai dati: i migliori risultati elettorali la Lega Nord di Salvini li fa nelle zone più produttive, nelle aree più ricche del paese. E tra le fasce più tutelate della popolazione. Tra i «vincenti della globalizzazione». Altro che popolo, altro che ultimi.

Quella riunita intorno alle idee di Salvini, il suo zoccolo duro, è una comunità coesa. Ma si può definire come un insieme di persone ai bordi della nostra società? Assolutamente no.È una comunità tenuta insieme da idee – legittime – di difesa e protezione dei propri interessi, quanto più vicini (prima gli Italiani/prima i padani/ prima i lombardi/prima i bresciani, ecc). A questo nucleo Salvini sta provando ad incollare un altro pezzo di società: persone davvero con disagio lavorativo o abitativo, disoccupati e sotto la soglia di povertà.

Ma come? Con delle proposte di risoluzione di problemi come l’occupazione, il debito pubblico, la povertà? Niente di tutto ciò. Ci sta provando con il più potente collante che esista: la paura. «La gente si allea nelle paure» diceva Elio Vittorini. E Salvini usa con così grande successo quella dello straniero, che non esita a provare quanto ancor più efficace nell’unire siano il disprezzo e l’odio nei confronti dei diversi, tanto più se poveri, affamati e disidratati, neri.

Ma tra quanti ti rispondono a questa chiamata, ancora una volta, non è il reddito e il disagio sociale a fare una differenza. Infatti, sarebbe l’ora di sfatare un altro mito: quello che per avere un’idea razionale e umana della gestione dei flussi migratori – e della politica in generale – bisogna essere per forza persone benestanti.

Accade più spesso il contrario: che i poveri capiscano meglio di chiunque i poveri, i disperati i disperati, i fragili i fragili. Per fare un esempio, sono poveri moltissimi giovani nel nostro paese. Che hanno laurea e magari esperienza all’estero, che sono disoccupati o che collezionano lavori precari. Eppure, credono nell’Europa e proprio non ce la fanno a vedere nell’immigrazione la causa di tutti i propri mali.

E qui c’è un altro tema che vale la pena approfondire. Che non è mai discusso con serietà, anche se è sempre evocato con dileggio: quello della cultura e della conoscenza. Quello di mettere le persone nella condizione di essere informate. «Come fai ad avere un’opinione se non sei informato? – scriveva Hannah Arendt – Se tutti ti mentono sempre, la conseguenza non è che nessuno crede più a nulla . E un popolo che non può più credere a nulla, non può neanche decidere.

È privato non solo della capacità di agire ma anche della capacità di pensare e giudicare. E con un popolo così ci puoi fare quello che vuoi». Si tratta di un tema così importante che potrebbe rappresentare il vero nodo della questione.

Forse, lo scontro vero in atto è proprio quello di una disomogenea distribuzione di conoscenza. Quello della possibilità di accesso alla verità dei fatti contro le menzogne. È questa la vera sfida da affrontare: quella di un paese con un elettorato in balìa di una narrazione inventata, di un incessante flusso di informazioni non verificate, diffuse con i più potenti mezzi di diffusione mai avuti prima nella storia, come i social network.

Per questo è un errore fatale quello dei personaggi di una sinistra à la Pif (al secolo Pierfrancesco Diliberto) che, andando all’inseguimento delle destre, eludono il problema della conoscenza ed esprimono tesi come: è facile essere di sinistra se sei ricco. Siamo anticamera delle «teorie del Rolex» di Giorgia Meloni &co.

In queste tesi il popolo è null’altro che «popolo bue», parte bassa, non solo povera ma anche ignorante. Destinata a ragionare votare pensare e parlare con la pancia. E invece non è la sola povertà economica, ma anche quella di conoscenza e informazione ad aprire una crepa drammatica e non più ignorabile nella nostra società.

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