Il Vaso di Pandora scoperchiato dalla crisi della Lira turca [di Nicola Ortu]
La crisi diplomatica fra Stati Uniti e Turchia rischia di minare equilibri regionali ed europei. Pure da sotto l’ombrellone non può non essere saltato agli occhi il recente e repentino crollo della valuta nazionale turca, la Lira, nei confronti del dollaro statunitense e delle maggiori valute mondiali. Dietro il terremoto finanziario degli ultimi giorni, però, si nascondono motivazioni ben più profonde della mera speculazione, che potrebbero minare la stabilità delle relazioni turco-occidentali ed i relativi equilibri regionali ed europei. La crisi della valuta di Ankara è giunta alla ribalta delle cronache nella prima metà di agosto, quando i mercati sono entrati in fermento in seguito alle ripetute perdite di valore della Lira nei confronti del dollaro statunitense. Secondo il Financial Times, la Lira è ad oggi la valuta con il peggior rendimento al mondo: ha infatti perso oltre il 40% rispetto al suo valore di inizio anno. Ma la fragorosa caduta della valuta turca è soltanto una delle conseguenze che giungono dall’aggravarsi di latenti frizioni fra Ankara e Washington. Aldilà delle cause economiche del deprezzamento della Lira, fra cui si annoverano una gestione macroeconomica troppo votata all’indebitamento, e una crescente mancanza di indipendenza delle istituzioni finanziarie locali dal potere politico, la causa più accreditata è il pessimo stato delle relazioni con gli Stati Uniti, storico alleato di Ankara dal lontano 1952, quando la Turchia fu ammessa alla neonata Alleanza Atlantica (NATO). La disputa più recente concerne l’arresto in Turchia di un predicatore evangelista, Andrew Brunson, detenuto dall’ottobre scorso perché sospettato di legami con Fethullah Gülen. Secondo Ankara, Gülen sarebbe la mente dietro il fallito coup d’état del luglio 2016, al seguito del quale l’allora Primo Ministro ed ora Presidente Recep Tayyip Erdogan ha fortemente rafforzato i suoi poteri. Quest’ultimo, dopo aver indetto e vinto un referendum volto al rafforzamento dell’istituzione presidenziale, nel giugno di quest’anno ha vinto un nuovo mandato come Capo dello Stato turco, rafforzando così il suo disegno accentratore. Il braccio di ferro fra i due alleati NATO si sviluppa però lungo una linea di faglia più complessa: Ankara accusa Washington di non voler estradare Gülen, che dal 1999 vive in Pennsylvania in condizioni di esilio volontario, mentre Washington non vuole sentirsi impartire alcun diktat da parte di un “junior partner” come la Turchia. Ciononostante, una disputa legata ad un solo individuo risulta di importanza infinitesimale rispetto al rilievo strategico e geopolitico che detiene, per sua stessa posizione di cerniera fra Europa, Asia, e Medio Oriente, l’instabile alleato turco. Il caso Brunson si inserisce tuttavia in un contesto più ampio, nel quale non si può prescindere dal considerare la politica interna statunitense, che vede le elezioni di “mid-term” in rapido avvicinamento per il Presidente Donald Trump. Da queste ultime dipenderanno le sorti della seconda metà del suo mandato alla Casa Bianca. Una folta base dell’elettorato del Presidente è appunto la comunità degli evangelisti, che vedrebbero di cattivo occhio un passo indietro americano nella questione Brunson. Senza contare che il Tycoon newyorkese non può permettersi di scalfire la propria immagine di uomo forte, il cui stile “spregiudicato” di condurre politica sembra indirizzato in ogni sua mossa a rafforzare le proprie posizioni in una spasmodica corsa alla rielezione nel 2020. Le vedute di politica internazionale del Presidente americano si riflettono anch’esse sulle strategie adottate da Washington nel dossier turco. L’amministrazione Trump ha difatti invertito la rotta sulla liberalizzazione del commercio internazionale perseguita dagli USA fin dal Piano Marshall ed esasperata dall’amministrazione Obama tramite i cosiddetti “mega-regional trade deals”, puntando invece su un rafforzamento del dollaro e su una più “equa” ripartizione della bilancia commerciale, erodendo solide relazioni con partner storici quali la Germania di Angela Merkel ed appunto la Turchia. Sembra infatti che, andando contro una visione da tempo cementificata nel campo delle relazioni internazionali, il Presidente non si faccia scrupoli a sovrapporre interessi politici ad interessi economici, utilizzando questi ultimi, e lo strapotere americano sui mercati del commercio internazionale, come strumento di coercizione degli altri paesi. Con buona pace del WTO. Ed ecco quindi che i già forti dazi sulle importazioni di acciaio ed alluminio che il Presidente Trump aveva imposto sulle esportazioni di Ankara hanno subito un ulteriore rialzo in seguito al deprezzamento della Lira turca. Infatti, Washington ha visto nella perdita di valore della valuta locale null’altro che un deprezzamento strategico volto ad “ingannare” la strategia di massima pressione portata avanti dall’amministrazione Trump. Questo ulteriore smacco alle leggi del commercio internazionale ha portato la Lira turca ad un ulteriore deprezzamento, sull’onda delle tensioni politiche con quello che, ad oggi, resta il principale alleato di Ankara nella regione, nonché nel mondo. Queste tensioni non sono soltanto una risposta massimalista dettata dal nuovo corso della politica americana, ma una risposta attesa ad ormai non più nascosti punti di faglia fra i due storici alleati. Esistono forti disaccordi sul futuro e sulla stabilizzazione della Siria nel post-conflitto civile, che attanaglia il Paese dal lontano 2011. Con l’ormai quasi definitiva sconfitta di Daesh, a cui hanno contribuito attivamente le folte minoranze curde nei territori occupati, supportate da Washington e dalla coalizione a guida “occidentale”, si riapre la mai sopita questione di uno stato unitario per il popolo curdo. I curdi presentano minoranze variopinte in un ventaglio di paesi confinanti che vanno dalla Turchia orientale, alla Siria, fino al nord dell’Iraq, l’Iran e l’Armenia. Un disegno di stato unitario, o comunque di maggiore autonomia, si scontra violentemente con le politiche di accentramento portate avanti dal governo di Ankara a seguito del colpo di stato del 2016. Senza contare che, a prescindere dai recenti sviluppi, la Turchia è da anni flagellata da azioni di tipo terroristico volte a supportare la causa dell’indipendenza curda, portate avanti dal Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). In questo contesto di incertezza che non si era forse mai registrato dalle tensioni sulla sorte di Cipro negli anni Settanta, il punto d’arrivo di questa tempesta diplomatica fra Ankara ed il suo maggiore alleato potrebbe essere un possibile riallineamento diplomatico su vasta scala. La Russia di Putin non ha mai nascosto simpatie per l’ormai nascente regime di Ankara. Le relazioni fra i due paesi, dopo aver sfiorato il conflitto armato a seguito dell’abbattimento di un caccia russo che aveva sconfinato nello spazio aereo turco dal nord della Siria, hanno visto un crescendo di relazioni economiche e politiche, al punto che la Turchia avrebbe comprato alcuni missili di fabbricazione russa, irritando ancor più le alte gerarchie della NATO e specialmente di Washington, essendo gli americani i principali partner strategici di Ankara. In tutto questo, non si può sottovalutare la percezione che la Turchia nutre del “mondo occidentale”. Con la dissoluzione dell’Impero Ottomano a seguito della sconfitta di quest’ultimo nel corso del primo conflitto mondiale, ed i Trattati di Sèvres, si è assistito ad un progressivo avvicinamento della neonata Repubblica di Turchia ai valori e sentimenti occidentali. Le riforme del pater patriae Mustafa Kemal negli anni Venti del XX secolo furono improntate ad una forte secolarizzazione dello Stato e ad un modello di sviluppo ampiamente conformato a quello dell’Europa occidentale. Questi sforzi sono sfociati nella volontà turca, nella seconda metà del XX secolo, di aderire alla nascente Comunità Europea, alla quale Ankara è ufficialmente candidata all’accesso dal 1999. Le inerenti difficoltà di integrare una nazione a maggioranza musulmana e con una popolazione di quasi ottanta milioni di abitanti hanno forse testato la pazienza del gigante turco, che ha visto un progressivo affievolimento del proprio impegno alle riforme strutturali necessarie per un eventuale ingresso nell’Unione. Forse è proprio questa crescente disillusione nei confronti degli alleati occidentali ad aver innescato le dinamiche di cui parliamo oggi. Il rifiuto del Presidente Erdogan di alzare i tassi di interesse e porre così un freno alla ormai galoppante – seppur non cronica – inflazione per paura di vedere la propria egemonia sul Paese anche solo lontanamente scalfita, si potrebbe quindi inserire in un più vasto processo di riallineamento della politica interna ed estera di Ankara, progressivamente più lontana dagli storici partner occidentali e dai loro diktat, e più vicina al sentiero che conduce alla strada di autonoma potenza regionale in un mondo sempre più multipolare. |