Si individuino i responsabili dei disastri, se è possibile, ma la politica si occupi di governare [di Alessandro Mongili]

Ponte-Anni-80

Quando un’infrastruttura crolla, ci accorgiamo della sua importanza. Le infrastrutture si usano per spostarsi, per riscaldarsi, per illuminare, per comunicare, per controllare o per lavorare, senza neanche notarle.

Si danno per scontate, ma gran parte delle nostre attività quotidiane, senza di loro, sarebbero impossibili o impensabili. Sino a quando non crollano, non si guastano, non sono interrotte, o sostituite, appunto. In quel momento, diventano oggetto di attenzione, di cura estrema, o di scandalo.

Ma chi le cura, nei giorni ordinari, in cui sono invisibili? Possibile che ogni attenzione sia riposta unicamente sulla natura del progetto, o sulle responsabilità? Tutto sembra tribunale, tutto sembra colpa, ad ascoltare le voci che compaiono sullo spazio pubblico in questi giorni.

Nessuna infrastruttura può sopravvivere senza il lavoro di cura, manutenzione, riparazione, e talvolta di sostituzione. Un lavoro invisibile, affidato a persone considerate meno importanti di quanto non lo siano i progettisti, i grandi ingegneri, le archistar, o i politici che hanno sponsorizzato le opere. Tutto si dà per scontato, per quanto riguarda il lavoro di cura, che non fa notizia, e non è neanche facilmente notiziabile, in fondo. Ma è essenziale, come si è visto a Genova.

Il lavoro di cura è talmente poco valutato che il disastro di Genova ha dato adito a discussioni surreali o tribunalizie dirette, ancora una volta, verso alcuni grandi idoli del mondo contemporaneo. Il Progetto, l’Europa, l’Austerità, il Documento piddino o la Dichiarazione grillina, la proprietà pubblica o quella privata. Immediatamente, il disastro è collegato a una causa, a una sola causa, possibilmente la più frequentata nella retorica propagandistica di chi stabilisce che “la colpa” è di Benetton, o dei No Gronda, o del “Sistema”.

Nessuno che si sia chinato a cercare di capire la storia di questo manufatto e della sua articolazione in quel luogo, in quella città, in quella cultura organizzativa. L’invisibile ma portante lavoro di cura, l’articolazione di quell’opera, è scomparso. Eppure ogni buona politica dovrebbe ripartire da lì. Senza il lavoro continuo di cura, nessuna infrastruttura può reggere le contingenze, quali esse siano. Trattate come monumenti, sono invece elementi integranti delle attività di tutti i giorni, della vita di chi se ne occupa, di chi li usa, di chi li segue o li subisce.

La contrapposizione fra la mancanza di cura per il ponte crollato a Genova e la realizzazione di un nuovo intervento alla Gronda (una nuova infrastruttura) è illogica ma significativa di questo modo di pensare privo di attenzione per i modi di esistenza delle cose, e ossessionato da essenzialismi e colpevolezze.  Si tratta certo di due problemi correlati, ma diversi. Sembra elementare ma forse occorre chiarire che in un caso si tratta di costruire una nuova, e nel secondo, cioè del disastro di cui si parla, di fare manutenzione, riparazione, di sostituire o addirittura di demolire.

Luigi Bobbio, scomparso un anno fa, e che si occupò dei problemi generati dalla realizzazione di grandi opere in Italia, fra cui la Gronda, ci invitava a diffidare di chi, di fronte a questi problemi, dica che “non ci sono alternative”. Esse si possono invece trovare. In Italia, in assenza di norme che regolano i dibattiti pubblici o la progettazione partecipata nel settore delle grandi opere, tutto è lasciato al tifo, alle urla e al desiderio di annientamento dell’altro.

I responsabili dei disastri, se è possibile, si individuino, ma la politica si occupi di governare. E nel nostro caso ci troviamo di fronte a un problema che è insieme, inestricabilmente, politico e tecnico. È inutile e demagogico proporre soluzioni facili, poggiate solo su uno di questi due poli. È un paradosso, diceva Bobbio, in cui la competenza rincorre la decisione, e viceversa. Ma questo paradosso riguarda la realizzazione di un progetto.

Oggi, la nostra attenzione dovrebbe concentrarsi sulla cura dell’esistente, su come modificare la nostra sensibilità politica in modo da concentrarci maggiormente sulla cura dell’esistente, in modo efficace. Tutto il resto è un’operazione, spesso disonesta, di distrazione di massa.

*Sociologo. Dipartimento FISPPA Università degli Studi di Padova

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