Sardegna. Il tempo non aspetta tempo ( V). Dialogo tra un Autonomista, un Federalista e un Sovranista [di Pietro Soddu]

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Pubblichiamo l’ultima parte di  Il tempo dei Sardi di Pietrino Soddu. L’esponente politico, che è stato Presidente della Regione e Parlamentare, si misura con la scrittura poetica e, attraverso questa, traccia un epos. Si tratta della storia della Sardegna ab antiquo filtrata attraverso un punto di vista di chi è stato protagonista e  testimone delle vicende dell’isola dagli anni Cinquanta. Il suo sguardo tematizza una vicenda che dall’antichità arriva ad oggi nella convinzione che soltanto una diversa narrazione può restituire alla contemporaneità un senso  per procedere e per oltrepassare un presente affatto confuso. L’opera fu presentata nell’iniziativa “Sardeide: dalla sarditudine alla Sardegna. Una narrazione da riscrivere” dall’Associazione Lamas il 12 luglio 2013 nella chiesa di San Giovanni a Pattada. A quell’incontro dialogarono di Sardegna con Pietrino Soddu storici, filosofi, amministratori, sindacalisti, un pubblico numeroso e senza barriere anagrafiche. Quel dibattito lo vorremo aprire ad un pubblico più vasto. Soprattutto in questo momento è utile chiedersi e riflettere sui temi relativi ai quesiti “Chi siamo” e “Cosa saremo”. La prima parte con il titolo Il tempo è stata pubblicata lunedì 30 dicembre 2013. La seconda parte con il titolo Passaggi è stata pubblicata lunedì 6 gennaio 2014. La terza parte Il tempo dei Sardi: Non più e non ancora è stata pubblicata il Sardegna. Il tempo non aspetta tempo. Dialogo tra un Autonomista, un Federalista e un Sovranista I Parte è stata pubblicata lunedì 3 febbraio (Maria Antonietta Mongiu).

 

La nuova questione sarda II PARTE Dialogo tra un federalista, un sovranista, un autonomista.

1ª voce federalista:

 

II PARTE

3ª voce: autonomista

Vi ringrazio per aver accettato di farmi parlare dopo aver sentito le vostre posizioni. Vorrei partire dalla condizione attuale, cioè dallo Statuto di autonomia che voi e molti altri  considerate superato. Non nego che oggi l’autonomia sia in grande sofferenza, ma non è dimostrato che sia conveniente abbandonare l’attuale Statuto senza avere la certezza di che cosa verrà dopo. Rinunciare senza alcuna garanzia alla nostra specialità è come fare un salto nel buio. Il clima politico generale non è incoraggiante. Anzi, tutto fa pensare che la nostra causa non sia facilmente sostenibile presso un’opinione pubblica gravemente turbata dalla crisi generale e fortemente preoccupata per il futuro. Meglio andarci piano e tenere stretto quello che abbiamo.

1ª voce: federalista

Ma la specialità che tu invochi in gran parte è scomparsa da tempo, tanto che alcuni sostengono che da condizione di privilegio è diventata una condizione di svantaggio. Basta guardare al sistema nel suo complesso. Tutte le istituzioni politiche della Sardegna, Consiglio, Giunta e Amministrazione regionale, Province, Comuni, Unioni dei Comuni, l’intero universo istituzionale compresi i partiti, le associazioni sindacali, le imprese, le istituzioni culturali e in genere tutte le agenzie che operano nel sociale non godono buona salute. Non riescono ad intercettare il cambiamento, la loro azione non influisce come dovrebbe sugli orientamenti complessivi della società.

Molti dicono che questo dipende dall’incapacità dei partiti, dal fatto che essi hanno espropriato le istituzioni impedendo loro di diventare indipendenti e di acquisire autorevolezza. Ma altri, forse più giustamente, affermano che partiti e istituzioni sono strettamente collegati, sono nati insieme, insieme hanno dato senso alla politica e insieme hanno gestito il governo. Se le cose vanno male la colpa, se di colpa si può parlare, è certo dei partiti, ma anche della inadeguatezza delle  istituzioni.

Arrivati al punto dove siamo nessuno può stare a guardare. Ognuno deve fare la sua parte: se insieme è meglio, ma se non si riesce a raggiungere un accordo piuttosto che stare fermi conviene che ognuno cerchi di far valere le sue posizioni. Del resto in teoria ci sono molte istituzioni indipendenti dai partiti e alcune perfino estranee anche alla rappresentanza politica. Tra queste non c’è solo la Magistratura, ma anche le Authority, le istituzioni culturali, scientifiche, economiche, sociali, religiose. Non è vero che la crisi dipende solo dai partiti: dipende,  in generale, dalle carenze dell’intero sistema a tutti i livelli.

2ª voce: sovranista

Concordo in gran parte. Non tutto quello che accade è imputabile alla politica: anche se, diciamocelo, c’è troppa politica scadente e poca politica all’altezza delle attese. Quello che manca è soprattutto la presenza della società, cioè la coscienza e l’azione di un soggetto complesso ma unitario che come tale deve agire e prima ancora deve sentirsi responsabile. È questo il problema che io pongo quando auspico l’acquisizione e la conquista di una coscienza nazionale che ci porti fuori dalla crisi con istituzioni efficienti in grado di assolvere ai compiti che oggi sono necessari e che per me sono più ampi di quelli attribuiti alle istituzioni di una Autonomia sia pure speciale. Per questo insisto nel sostenere le tesi che tu chiami sovraniste e nel considerare le posizioni autonomiste, anche quelle più avanzate, assolutamente inadeguate a farci uscire dalla crisi attuale.

3ª voce: autonomista

Ho ascoltato attentamente i vostri ragionamenti sulla crisi e le proposte per superarla. Non contesto l’esigenza di procedere a riforme incisive del sistema per contenere gli effetti perversi del capitalismo finanziario e degli altri elementi negativi del mercato globale. Non sottovaluto la crisi del Welfare causata dall’insieme dei costi diventati insostenibili; non nego che la vecchia rete della solidarietà sia in crisi; non rifiuto che tutto questo sia sfuggito in qualche modo alla sfera della politica.

Quel che non mi è chiaro è il come le vostre proposte possano essere più efficaci dell’attuale sistema costituzionale. Non capisco come sarebbe possibile superare la crisi della solidarietà, della coesione nazionale, della lealtà fiscale, dell’aumento delle diseguaglianze nei diritti di cittadinanza attraverso la trasformazione della Repubblica delle autonomie in una Repubblica federale o in tanti Stati nazione quante sono le Regioni.

Non è chiaro come queste proposte possono risolvere i problemi nati dalla fine della società del lavoro e della politica fondata sulla solidarietà, nonché dalla crescente dipendenza della Sardegna dai fattori produttivi, culturali e ambientali imposti dal mercato.

In teoria, in astratto, mi sentirei di aderire senza grandi difficoltà alle tesi di un sovranismo federale non competitivo ma cooperativo, in grado cioè di difendere la solidarietà e l’equità interpersonali. Non mi sognerei neppure un attimo di opporre obiezioni all’esigenza di difendere la cittadinanza fondata sull’equalizzazione delle condizioni e delle capacità. Non discuto neppure l’urgenza di cambiare alcuni istituti previdenziali per evitare che tutto il Welfare appaia sotto vesti assistenzialiste piuttosto che come concreta attuazione dei diritti fondamentali, compresi quelli equitativi.

Ma prima ancora di cambiare gli interventi e il linguaggio occorrerebbe cambiare la base culturale: ma in un senso diverso dalla direzione dominante, cioè contrastando il processo di individualizzazione e rafforzando gli elementi di solidarietà comunitaria. Ma come una riforma costituzionale di tipo nazionalista o di tipo vagamente federale possa rispondere a queste esigenze mi rimane ancora oscuro.

1ª voce: federalista

La nostra può sembrare una dissertazione inutile. Ma dobbiamo continuare a discutere, perché una proposta va fatta. Quello che è certo è che il vecchio mondo è in crisi e che le istituzioni e i partiti sono largamente delegittimati e anzi che la delegittimazione sta investendo l’intero universo dei valori sui quali si è fondato lo Stato sociale.

Occorre una nuova legittimazione: non più classista, ma solidale, comunitarista e welfarista, che contrasti le diseguaglianze che il grande processo di individualizzazione in atto sta creando nella società occidentale e nella nostra in particolare. L’intero universo sociale sta diventando sempre più interconnesso, ma invece di essere più solidale è avviato verso un individualismo egoistico sostenuto da forze non sottoposte a controllo che cercano in tutti i modi di sottrarsi ai vincoli del vecchio welfare.

Bisogna contrastare questa tendenza e impedire che vengano abbandonate le basi ideali della Costituzione, i principi di equità, di giustizia e di eguaglianza. Bisogna predisporre regole più adatte ad affrontare gli influssi negativi della globalizzazione del nuovo capitalismo avido e oppressivo.

Ma per non vedere distrutto il sistema del welfare è necessario prima di tutto difendere le sue fondamenta. E poi ricostruirlo con tecniche e modalità diverse, ma sempre sulla base degli stessi ideali che non sono rinnegati neppure dalle forze che ne denunciano la degenerazione, l’obsolescenza, l’insostenibilità fiscale del sistema, l’eccessiva intrusione nella sfera individuale (che sacrificherebbero due degli elementi essenziali del liberalismo, quelli della libertà e del merito).

Sappiamo tutti, per dirla con Platone, che la politica è un farmaco: usato bene guarisce, usato male uccide. Ma ricordiamo anche, per rimanere alle citazioni classiche, un passo dell’Odissea, quello dell’isola dei Lotofagi, dove Ulisse recupera i compagni che si erano dimenticati di tornare sulle navi. Tutti oggi possiamo essere colpiti dalla “dimenticanza”, perché tutti ci nutriamo del loto contenuto negli alimenti della cultura consumistica post-moderna che ci inducono a dimenticare i nostri doveri di solidarietà interumana che, per quanto criticabili nella loro forma attuativa, debbono essere conservati nella sostanza.

Come il farmaco, la politica va assunta in giuste dosi, ma senza trascurare di porre un freno ai trafficanti del loto trasmesso attraverso i messaggi sempre più pervasivi dell’individualismo e del capitalismo post-moderno, fatti propri dalla cultura post-nazionale, post-solidale, post-lavorativa, post- religiosa e, per dirla con l’ultima definizione, post-umana. E questo si può fare soltanto con una nuova politica aggiornata nei suoi contenuti e non solo nelle modalità di espressione e nel funzionamento delle istituzioni.Sono convinto che a queste esigenze risponda più efficacemente un sistema federale.

2ª voce: sovranista

La discussione su questi temi non finirà mai.

Domande, risposte, obiezioni si rincorreranno all’infinito. Ogni parola è un universo simbolico che si presta a diverse interpretazioni. Stato, società, politica, economia, nazione, sovranità, sovranismo, federalismo, autonomia, globalizzazione, capitalismo, individualismo, localismo, beni comuni, cultura, dipendenza, sviluppo, giustizia, uguaglianza, cittadinanza, libertà, solidarietà, ecc.: tutte parole che possono essere usate sia per difendere scenari passati, sia per evocare scenari futuri, soluzioni pragmatiche e utopie. Perciò dobbiamo limitare il campo della nostra analisi a ciò che è più importante e più vicino alle nostre capacità decisionali: più semplicemente, a quello che possiamo fare, che non possiamo né dobbiamo delegare a nessuno.

Per me questo vuol dire che non dobbiamo aspettare che altri decidano per noi quale deve essere, tra quelli possibili, il modello di convivenza, la costruzione costituzionale e istituzionale più adatta per la nostra società dando naturalmente per scontato che non tutto è alla nostra portata e che la soluzione non dipende solo da noi. Quello che possiamo e dobbiamo fare è usare un diritto riconosciuto a tutti i popoli: il diritto all’autodeterminazione, che consiste nell’esercizio del potere di scelta tra le diverse soluzioni non eversive disponibili. Nel caso nostro si tratta di decidere tra rimanere dentro lo Stato italiano accontentandoci di una autonomia speciale o di uscirne per dar vita a uno Stato che coincida con il territorio e il popolo-nazione della Sardegna.

3ª voce: autonomista

Non sono affatto convinto che questo percorso sia così semplice,  a portata di mano. E soprattutto non sono convinto che la maggioranza dei sardi sia favorevole a distaccarsi dalla Repubblica italiana per dar vita ad uno Stato nazionale sardo. La tua posizione è carica di suggestione, ma povera di realismo. Tutto quello che conosciamo ci dice che creare un nuovo Stato nazionale non è affatto un’impresa semplice e pacifica. Anche la storia più recente dimostra che si tratta di passaggi carichi di violenza, sofferenza e dolore: non solo nel caso di separazione di unioni formate e consolidate da lungo tempo, ma persino nei passaggi più recenti e più attesi,  come quelli dalla condizione coloniale all’indipendenza.

Questo aspetto è stato esplorato soltanto superficialmente. Nessuno fino ad oggi ha avuto il coraggio di sondare l’opinione pubblica, forse sospettando che la maggioranza non sia favorevole alla rottura dell’unità nazionale non per ragioni giuridico-costituzionali, per altro molto difficili da superare, ma piuttosto per un ragionamento di opportunità e di convenienza generale che riguarda la cittadinanza, la solidarietà e lo sviluppo, ma anche la cultura, la storia e tutto ciò che concorre a costituire quell’entità complessa che chiamiamo patria: che resta in ombra, ma che riemerge con forza ogni volta che viene messa in discussione. Una cosa è dire che ci sono diverse espressioni di patria (il paese o la città natale, la Provincia e la Regione, oltre allo Stato),  altra cosa è mettere in discussione proprio la sopravvivenza della grande patria, la Patria italiana, che non può essere sostituita né da una patria sarda né da una patria europea. Italia significa ancora per quasi tutti i sardi una comunanza di civiltà, di cultura, di storia e di interessi, che per quanti sforzi si facciano non potrà mai essere sostituita dalle nuove patrie. Occorrerà un lungo periodo di convivenza europea per dimenticare i conflitti sanguinosi, i morti, le devastazioni, le lotte economiche dei vecchi nazionalismi che hanno tenuto il campo per tanto tempo, per sostituire una coscienza patriottica ricca di memorie, di miti unificanti, con un nazionalismo sardo senza memorie, senza miti fondanti, senza grandi narrazioni. Aggiungo queste considerazioni alle ragioni che ho esposto prima, e che rimangono le più importanti sul piano pratico della fattibilità e forse della convenienza. Le une e le altre mi portano a insistere sulla validità, per non dire sulla necessità, di difendere la conferma dell’autonomia speciale rinegoziandone con lo Stato natura, contenuti, forma, strumenti e limiti secondo le esigenze della società e tenendo conto delle mutate condizioni politiche generali a cominciare dal ruolo, dalle funzioni, dalle competenze e dai limiti derivanti dall’esistenza  dell’Unione europea e dall’influenza dei fattori della globalizzazione su una gran parte degli elementi che incidono sull’evoluzione dei rapporti sociali, della cultura, dell’economia e della condizione umana e sul loro governo. Mentre è del tutto evidente che l’attuale Statuto non è più in grado di corrispondere all’esigenza di salvaguardare gli interessi legittimi della Sardegna e dei sardi nel processo in corso, e che è altrettanto evidente che esso va modificato per consentire alle sue rappresentanze politiche e ai soggetti collettivi di partecipare direttamente o in concorso con altri alle decisioni che li riguardano sia a livello italiano che alivello europeo, non è invece altrettanto evidente che la soluzione migliore consista nell’abbandonare definitivamente e senza appello l’autonomia speciale per inseguire un’improbabile sovranità nazionale sarda, puntando sull’indipendenza nazionale e sullo Stato-nazione.

Da tutte queste considerazioni emerge chiaramente che un’accorta e intelligente riforma dello Statuto di autonomia speciale rimane la strada più semplice e anche la soluzione più idonea per i nostri problemi.

1ª voce: federalista

Capisco le tue osservazioni sulla difficoltà del percorso. Però nessuna delle tre soluzioni di cui parliamo è priva di difficoltà procedurali o di punti deboli. A cominciare da quella che preferisco io, cioè la trasformazione della Repubblica italiana da Repubblica delle autonomie in Repubblica federale. Chiunque capisce che una riforma di questa ampiezza non è una cosa semplice ma richiede attenta valutazione,grande impegno, grande determinazione ma anche grande prudenza, perché si tratta di operare su un quadrante molto ampio e complesso che richiede la partecipazione e il consenso dell’intera società nazionale e dei suoi organismi rappresentativi a tutti i livelli.

Da qualche parte però bisogna pur cominciare se non si vuole che alla crisi economica che travaglia il paese si aggiunga una crisi costituzionale dai contorni prevedibili che non possono non preoccupare quanti credono nei princìpi, nei valori oltre che nella storia, nella cultura e nel patrimonio complessivo e dall’idea di nazione e di patria italiane contenute nella Costituzione.

Mi sembra del tutto evidente che il richiamo appassionato che viene da molte parti a un più sentito patriottismo costituzionale non è più sufficiente a fermare la crisi. Le tensioni sono arrivate a un livello e a una diffusione tali da imporre una revisione profonda, anche se attenta e prudente, dell’assetto complessivo della Repubblica. Le risposte elaborate negli anni scorsi e tuttora in campo non si sono dimostrate adeguate. Bisognerà andare oltre, esplorare nuove strade, avere presente un quadro temporale e spaziale molto più ampio, guardare all’evoluzione dell’intero sistema socio-economico e culturale, che non può non avere riflessi sul sistema politico.

Tutto quello che si vede porta a pensare che il sistema debba evolvere in direzione del superamento dell’attuale contesto fondato sulla preminenza dello Stato nazionale di origine sette-ottocentesca, verso una forma di Stato più ampia, capace di unire le vecchie formazioni nazionali in federazioni dotate di una massa critica molto più forte, tale da competere nella nuova dimensione mondiale nella quale si svolgono le vicende più importanti della politica, dell’economia e della convivenza umana.

È anche opinione comune che a questo movimento verso una più ampia dimensione debba corrispondere un movimento verso il basso, cioè verso forme istituzionali e politiche di governo capaci di rappresentare e gestire gli interessi e i sentimenti delle nazioni e di territori più omogenei e più piccoli rispetto ai vecchi Stati nazionali. I due movimenti vanno coordinati e indirizzati a obiettivi complementari non solo di natura economica ma più larghi, estesi oltre che al campo politico a quello culturale, sociale, ambientale, e a tutti gli altri campi che costituiscono le identità storico-culturali le cui espressioni vanno tutelate e valorizzate come elementi essenziali della natura umana, della sfera individuale e di quella collettiva. Anche il problema sardo rientra a pieno titolo in questo più ampio contesto e sarebbe un grave errore isolarlo da tutti gli altri problemi.

2ª voce: sovranista

Tu continui a richiamare i temi generali, ma ancora non hai chiarito quale sia il percorso che unisce il grande al piccolo, il globale al locale. È giusto richiamare i princìpi e gli ideali fondamentali. Non sarò certo io a sottovalutare la libertà, la giustizia, l’emancipazione, l’inclusione, la democrazia, l’uguaglianza, la solidarietà, la sovranità popolare e così via. Non sarò io a sottovalutare i cambiamenti provocati dal capitalismo globale, da internet, dalla mobilità, dalla secolarizzazione mondiale delle diverse confessioni religiose, dalla progressiva scomparsa della divisione in classi sociali compatte, dalla diffusione di una cultura individualistica e consumistica e da tutti gli altri cambiamenti in corso nel mondo e in casa nostra.

Anzi, è proprio perché non sottovaluto tutto questo che mi sono convinto che la strada migliore per difendere i principi generali, i valori democratici e gli interessi popolari sia quella di affermare prima di tutto il diritto originario insopprimibile all’autodeterminazione, all’esercizio della sovranità popolare nella dimensione più naturale, quella di un popolo che occupa un territorio specifico ben delimitato nei suoi confini, nella sua storia, nei suoi valori. In tutti quei fattori, insomma, che concorrono a definire una nazione che chiede innanzi tutto un rispetto identitario, cioè il riconoscimento di una precisa, naturale, originaria soggettualità che non può confondersi con nessun altra.

Il problema che pongo io è costituito dall’esigenza di riconoscere innanzitutto che l’ambito in cui si esercita e si esprime la sovranità popolare dei sardi è la Sardegna. E questo richiede la presenza di un soggetto istituzionale capace di esprimere la sovranità individuale e quella del popolo sovrano. E questo non per contrastare o sfuggire alla globalizzazione, ma, al contrario, per starci dentro senza rinunciare alla nostra specifica identità di popolo-nazione, ai suoi caratteri costitutivi, storici, culturali, ambientali e politici in senso ampio.

3ª voce: autonomista

Le strade dell’autodeterminazione e quella della trasformazione della Repubblica delle autonomie in Repubblica federale sono entrambe difficili e non affatto scontate. Dal dire al fare le cose si complicano. Ci sono già molti dubbi e riserve prima ancora di cominciare.

Oltre ai dubbi e alle riserve sui principi giuridici, procedimentali, sulla fattibilità dei percorsi, vanno prese in seria considerazione le preoccupazioni riguardo alle risorse sulle quali si dovrebbe poter contare, sia quelle proprie sia quelle trasferibili dai soggetti del livello superiore. Fino ad ora questo esame ha dimostrato la nostra debolezza rafforzando le posizioni di chi preferisce restare nella vecchia casa che conosce, dove si sente più sicuro. E io sono tra questi.

Se si aprisse un serio dibattito sull’indipendenza quello che appare semplice diventerà più complesso, ciò che appare conveniente diventerà incerto per non dire pericoloso. I vantaggi presenti e dati per certi non saranno più tali neppure per gli aspetti legati alla rappresentanza, a chi comanda e a chi ubbidisce, a chi perde e a chi vince. La discussione farà rivivere sentimenti e passioni tenute finora sotto traccia, che riaffioreranno e chiederanno soddisfazione. Tra queste l’amor di patria, la storia, gli eroi, tutto quel che si è sempre considerato parte della vita propria e di quella collettiva: la bandiera, le feste, le canzoni, le cerimonie, i sacrari nazionali. Non sarà per niente facile superare tutto questo e spiegare perché dovremmo perderlo e costruire da capo, quasi dal nulla, un nuovo Stato e una nuova patria.

Tutto questo conferma che la strada che ancora concilia il vecchio mondo, i vecchi sentimenti, il vecchio patrimonio legati alla vecchia patria con i nuovi sentimenti e le nuove passioni identitarie nazionali sarde è la via dell’Autonomia, riveduta, corretta e ampliata secondo le esigenze imposte dai cambiamenti in corso in Italia e nel mondo.

1ª voce: federalista

Io continuo ad insistere sulla superiorità dell’idea federale. In Sardegna la geografia ha sempre avuto la prevalenza sulla storia, la natura sulla cultura, l’ambiente sulle attività dell’uomo. Queste prevalenze hanno segnato anche l’identità, che si fonda non sui miti della storia e sugli eroi, ma su un’idea di Sardegna. È la Sardegna il mito autofondante, originario, che assorbe tutto e colma tutti i vuoti e le assenze.

Non importa se all’origine non c’è la scrittura, né il mito fondativo,  né ci sono gli eroi primigeni, gli eventi memorabili incisi nella coscienza, le vittorie, le sconfitte ingiuste, i monumenti, la lingua, la poesia, le leggende. A tutto sopperisce l’idea mito “Sardegna”, la terra Sardegna, il racconto Sardegna. E questo spiega tante cose, compreso il fatto che il carattere dei sardi e il loro comportamento siano più “resilienti” che “resistenti”.

La resistenza si esercita contrapponendosi al dominio culturale, ideologico, politico; la resilienza si risolve in comportamenti provvisori che non cambiano la natura fondamentale, che assorbe e rimodella ma poi ricostruisce gli ambienti e i caratteri della propria vita e di quella comunitaria senza passare per lotte cruente e senza opposizioni vistose. I caratteri, le modalità, i costumi, le regole, i confini di ogni cosa sono quelli tracciati dalla natura, che si adattano volta a volta alle esigenze della storia. Il confine immodificabile è quello che difende ciò che ci appartiene, che è nostro, solo nostro. Tutti gli altri confini cambiano. Da qualche tempo anche i confini intoccabili si sono aperti, molte recinzioni sono state abbattute. Nessuno sa più quello che è suo perché il confine che univa e creava la comunità, spingeva alla solidarietà e fondava un destino comune non c’è più.

La rottura dei confini rompe la comunità, la modifica, la amplia, ne rimescola gli interessi, cambia i riferimenti, le alleanze, le concorrenze. Quando i confini erano quelli interni la Sardegna era divisa in tante comunità che è diventata una sola quando è stato chiaro che il suo unico vero confine è il mare. Ora che anche il confine del mare è scomparso anche la comunità chiusa nell’isola rischia di scomparire. Tutto è messo in discussione e i modi per definire i nuovi confini non sono pacificamente accettati. Per queste ragioni si impone una scelta che non sia troppo rigida, com’è appunto quella federale. A questa scelta concorre il carattere “resiliente”, che si modella volta a volta secondo le vicende della storia, conservando intatta la sua natura originaria, senza opporsi allo spirito del tempo, senza respingere il senso della storia.

La soluzione federale non sacrifica il senso della storia, non si oppone allo spirito del tempo, non si mette inutilmente a confliggere con le tendenze dominanti, ma accetta l’allargamento, cercando di conciliare entrambe le esigenze, quelle identitarie regionali con quelle di un orizzonte universale più aperto e più libero dove si incontrano comunità e interessi insieme diversi e simili, facendo in modo che si salvi, o meglio ancora si rafforzino in tutti la libertà, la fratellanza l’uguaglianza e la solidarietà.

2ª voce: sovranista

Ma i tuoi argomenti sul mito e sui confini rafforzano la mia posizione. Rafforzano l’idea dello Stato nazione perché non sostituiscono, non contraddicono le tesi dell’identità nazionale fondata sull’ambiente naturale, sulla storia, sulla cultura, sulla lingua e su tutto ciò che concorre a formare il nostro patrimonio materiale e immateriale.

L’idea che fa della Sardegna un mito svincolato da eventi, da personaggi e dalle narrazioni epiche, è un elemento simbolico di grande fascino che può spiegare molte cose, tra le quali non ultima la quasi immediata sardizzazione di chiunque si trovi a risiedere in Sardegna da qualsiasi parte provenga e per qualsiasi causa ci sia venuto a stare. È stato sempre difficile dare una spiegazione a questo fatto. “La Sardegna come mito” potrebbe aggiungere una spiegazione diversa da quella della nazione e della narrazione. La Sardegna mito infatti evoca una forza invisibile che cattura e unisce tutti gli abitanti dell’isola, che siano o no nati qui, che siano o no discendenti di molto antiche o di molto recenti generazioni. Il secondo elemento, quello dei confini, che tu richiami è altrettanto suggestivo, perché sembra definire un elemento che lega e allo stesso tempo libera, che chiude e apre, che include ma non esclude da altre appartenenze.

Non vedo dunque perché tutto ciò non possa essere compatibile con lo schema di uno Stato-nazione sardo che non pretende di esaurire in sé stesso l’intero universo identitario della modernità politica, ma ne costituisce l’elemento fondamentale e garantisce che niente del patrimonio immateriale e materiale andrà perduto.

3ª voce: autonomista

Potete continuare la vostra disputa all’infinito, ma non troverete una soluzione. Le vostre posizioni non sono molto distanti ma siete costretti a forzarne il senso per sopravvivere politicamente. In verità la vera alternativa non è tra sovranisti e federalisti. Per arrivare alla federazione bisogna prima riconoscere qualcosa che se proprio non è almeno si assomigli ad uno Stato nazionale. Per assicurare la sopravvivenza di uno Stato-nazione piccolo e non autosufficiente come sarebbe la Sardegna bisogna federarsi con altri più forti con i quali si condivide gran parte del patrimonio che costituisce la patria più grande. Nell’uno e nell’altro caso si tratterebbe di stabilire più che altro i modi procedimentali per arrivare a conseguire lo stesso scopo.

La vera alternativa in campo è la mia, che difende il diritto all’autogoverno attraverso un’Autonomia riformata, rafforzata e resa più essenziale: un sistema autonomistico meno amministrativo e più politico, più dotato di sovranità condivisa, cioè di una sovranità esercitata non in solitudine ma insieme al titolare principale cioè allo Stato italiano o all’Unione europea.

Questa a me sembra la soluzione più efficace, più coerente con la nostra storia politica, più praticabile in senso costituzionale, meno lesiva dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica, più legittimata ad usufruire dei diritti della cittadinanza repubblicana e della solidarietà nazionale, più inclusiva perché favorisce la partecipazione attiva alla globalizzazione in corso nel mondo.

1ª voce: federalista

Non è esattamente come dici tu. L’autonomismo, anche se largamente rivisitato non sarà  in grado di assicurare la partecipazione al governo nelle sedi decisionali superiori, cioè statali ed europee, e neppure potrà garantire il diritto ad una cittadinanza paritaria che assicuri ai sardi uguali capacità di accesso ai servizi fondamentali della Repubblica. Anche l’esercizio dell’autogoverno e la difesa delle componenti materiali ed immateriali dell’identità non sarebbero garantiti, così come dimostrano le più recenti esperienze.

Per uscire dalla crisi dell’attuale sistema istituzionale, che ha progressivamente indebolito l’Autonomia e relegato la Sardegna ai margini del sistema politico italiano e europeo occorre puntare su un altro modello, che però non può riguardare solo noi, ma si deve estendere all’intero sistema italiano-europeo. La condizione del paese ci dice che ci vuole una grande riforma per ricostruire consenso costituzionale, coesione sociale, solidarietà ed equità. Le tensioni in atto dimostrano che l’attuale sistema ha bisogno di interventi di riforma radicali, capaci di conciliare interessi che al momento sono rigidamente contrapposti, e che non possono trovare soluzioni in forme ancora troppo centraliste.

Un comun denominatore si può trovare solo in una trasformazione della Repubblica che riconosca a tutte le parti del paese una più forte e autonoma soggettualità decisionale che può essere garantita solo da un sistema che da regionalista diventa federale.  Si tratta, insomma, di costruire una Repubblica fondata sul principio del federalismo cooperativo escludendo dall’orizzonte delle possibilità le proposte e le tentazioni delle aree più forti, cioè un “federalismo competitivo” che metterebbe in crisi l’unità del paese, accentuando gli elementi di differenziazione e di diseguaglianza.

In fondo il federalismo è quasi una strada obbligata per chi ha a cuore la difesa di una storia e di un destino comune. È evidente, però, che pur essendo una strada obbligata questa non è una strada facile e piana. Occorre aver chiare tutte le difficoltà e le complessità da affrontare, cominciando dal linguaggio e dal significato dei princìpi fondanti contenuti nella Costituzione, che hanno subìto un logoramento che li ha fatti diventare una cosa diversa nell’opinione pubblica. I diritti sono diventati privilegi, la solidarietà assistenzialismo, la giustizia distributiva parassitismo, l’equità interpersonale una violenta intrusione nella sfera della libertà individuale e così via. Per cambiare questa mutazione di senso occorre ricostruire una solida e condivisa base culturale. Le due questioni sono interconnesse, ed è compito della politica operare perché si crei una sintesi virtuosa nel tessuto oggi sconnesso della società.

Il compito principale della politica consiste prima di tutto nel rifondare i princìpi ispiratori, e soprattutto nel renderli più comprensibili, più condivisibili e quindi sostenibili ovunque, in ogni circostanza, tenendo conto dei nuovi valori presenti nella società.

Questo comporta l’eliminazione degli eccessi, delle condizioni eccezionali, di quelli che sono diventati tali nel corso del tempo come ad esempio la condizione delle regioni a Statuto speciale, compresa la Sardegna.Bisogna prendere atto che ciò che era valido all’inizio della storia repubblicana oggi appare molto più debole anche perché spesso la specialità è stata usata male: per sempio, per coprire bisogni non essenziali, per sostenere poteri clientelari, per alimentare consumi che non rientravano nel carattere di equità e non giustificavano il ricorso alla solidarietà. A questa revisione non possiamo sottrarci. Dopo, in seguito, adegueremo anche il linguaggio cominciando dai principi giuridici contenuti nella Costituzione  per trasformare le modalità attuative in regole, strumenti e procedure, passando dalla semplice enunciazione alle modalità operative, che non si possono più lasciare alla discrezionalità delle politiche congiunturali delle diverse maggioranze, ma devono essere fissate a garanzia di tutti nella legge fondamentale e negli Statuti. Non basta enunciare il principio del federalismo cooperativo istituzionale: occorre fissare con precise norme costituzionali la ripartizione delle competenze e delle funzioni tra i vari livelli, le modalità di espressione della sovranità condivisa, le modalità attuative del federalismo fiscale, il reperimento e la distribuzione delle risorse tra le varie aree del paese. Tutto va codificato nella Carta costituzionale che così diventa il nuovo patto che lega in un unico destino tutte le componenti sociali e tutte le parti territoriali, oggi spesso in conflitto tra loro. Occorre indicare più chiaramente che il principio della coesione della società è la finalità essenziale della cooperazione federale e che ciò impone a tutti di operare unitariamente per correggere in senso equitativo le diseguaglianze, eliminare il divario territoriale, equiparare le capacità personali e ridurre drasticamente le cause che creano le differenze esistenti nel paese. Senza questa riforma politico-culturale tutti i tentativi di uscire dalla crisi sono destinati a fallire, come dimostrano diverse esperienze succedutesi negli ultimi due decenni in Sardegna, che hanno persino peggiorato sia le diseguaglianze interpersonali, sia il divario economico, sia la coesione sociale, sia il consenso costituzionale.

2ª voce: sovranista

Tu insisti molto sull’eguaglianza della cittadinanza , sulla solidarietà e l’equità distributiva. Ma le cose non sono più come prima. Lo Stato sociale resiste con sempre maggiore difficoltà agli assalti del revisionismo di stampo liberista e individualistico. Una profonda rivisitazione dei princìpi è in corso da tempo e non sembra destinata a cambiare direzione. La crisi industriale e del lavoro, la comparsa di una nuova competitività tra le aree del pianeta, la crisi fiscale che tormenta i paesi di più antico sviluppo, l’esigenza di non perdere i livelli di benessere e di consumo delle fasce medie e più garantite stanno mettendo tutto in discussione. Stanno emergendo nuove categorie valoriali che obbligheranno tutti a cambiare.

La solidarietà, se pure si salverà, sarà non assoluta ma condizionata alle esigenze della competizione: sarà “produttivistica”.  Il principio di inclusione non sarà un’affermazione generale e generica ma dovrà essere una inclusione “attiva”, cioè legata alla produttività con investimenti non in generiche attività di promozione sociale ma di formazione professionale mirata. Il principio di equità e di eguaglianza sarà sempre più collegato al merito oltre che ai bisogni. L’universalismo sarà inevitabilmente selettivo e punterà a ottenere capacitazioni individuali ex ante e non ex post. E ancora: senza adeguate riforme i vecchi meccanismi della democrazia rappresentativa, che sono già in crisi, accentueranno la loro obsolescenza e porranno ancor più in evidenza la loro incapacità di rispondere alle nuove domande. E tutto ciò che veniva affidato alla cura della democrazia parlamentare rappresentativa senza una governance adeguata  sarà definitivamente travolto  dall’onda del cambiamento.

Se allarghiamo lo sguardo ai nuovi problemi della globalizzazione, e soprattutto al crescente ruolo del sistema capitalistico finanziario, vedremo emergere ancora più chiaramente la debolezza delle vecchie democrazie e anche quella dei princìpi e dei valori a cui tu fai riferimento, che non sarebbero al sicuro neppure costruendo la nuova casa federalista che proponi.

1ª voce: federalista

I tuoi argomenti invece confermano le mie scelte.

2ª voce: sovranista

A questi temi allora aggiungerò qualcosa di più specifico, collegato con la mia visione identitaria nazionale. Mi riferisco alla questione dei beni fondamentali primari che io considero inalienabili e che ora sono in vendita alla portata del miglior offerente. Io penso che non solo le parti del corpo e della mente delle persone ma anche i beni comuni come il suolo, l’aria, l’acqua, il mare, l’ambiente naturale, le essenze biologiche animali e vegetali, tutto ciò che costituisce il patrimonio di un popolo e di una nazione dovrebbe essere inalienabile e rigorosamente tutelato.

Dal mio punto di vista la cosa più urgente per la politica è fermare il processo in corso, cioè la generale e indiscriminata spoliazione da parte dei nuovi poteri finanziari extranazionali delle nazioni più deboli, dei loro beni, dei loro diritti, della loro storia e di tutto ciò che le ha costituite nel tempo come soggetti specifici e diversi.

Per fermare questo processo così devastante l’autonomia non basta più. Non sarà sufficiente neppure un patto federativo, che può ridefinire e aggiornare le condizioni di coesione costituzionale attraverso una sovranità condivisa ma non cambia il suo nucleo centrale fondativo, la natura dello Stato unitario, che si è dimostrato ormai non più in grado di garantire i nostri diritti di nazione. Perciò occorre rovesciare il ragionamento e lo schema procedurale. Occorre cioè mettere al primo posto l’esercizio del diritto originario di proclamarci nazione, cui è strettamente collegato il diritto di diventare Stato attraverso l’autodeterminazione.

Dopo questi due passaggi essenziali e primari tutto è possibile perché la libertà e la sovranità conquistate legittimerebbero l’assunzione di decisioni che non intaccano il diritto originario ma lo incanalano secondo le esigenze poste dalla complessiva situazione politico-economica dell’Italia, dell’Europa e del mondo. A noi non basta dire che il federalismo, se nasce, deve essere cooperativo e non competitivo. Quello che chiediamo è che ogni decisione sia assunta per scelta libera e autonoma, non per via di un principio pregiudiziale o per un vincolo della Carta costituzionale.

3ª voce: autonomista

Tutto molto interessante. Io però continuo a pensare che la via maestra , dalla quale non potremmo comunque derogare pacificamente, rimane quella tracciata dalla Costituzione e dallo Statuto. L’autodeterminazione oggi non è in nessun modo praticabile per via costituzionale. Essa avrebbe un carattere eversivo, secessionista, difficilmente accettabile non solo da Roma, ma anche dal popolo sardo, i cui componenti in ogni caso si considerano in maggioranza italiani, anche quando si riconoscono appartenenti alla nazione sarda.

Per me la soluzione sta nel rinegoziare il patto con l’Italia restando nel quadro dell’attuale normativa costituzionale, sia per quanto concerne i princìpi e i diritti fondamentali sia per le procedure di revisione. Il nostro impegno non deve perdersi dietro un’utopia, ma rivolgersi a un obiettivo concreto e conseguibile. Le difficoltà procedurali sono evidenti e difficili da aggirare. Anche nel caso che si desse vita a una Costituente i limiti rimarrebbero. Una volta costituita infatti, essa dovrà agire secondo la legittimità costituzionale senza deviare verso soluzioni solo apparentemente praticabili ma assolutamente impossibili da attuare.

2ª voce: sovranista

Ma così praticamente le nostre scelte sono ridotte a una sola.

3ª voce: autonomista

No. Anche così il campo delle cose fattibili rimane comunque molto vasto e può dare al lavoro della Costituente (o del Consiglio regionale, se si decidesse di procedere senza strutture straordinarie), un’ampia gamma di scelte, pur restando dentro la cosiddetta “specialità” dell’autonomia. Per me è questo il punto da cui partire. Che l’attuale Statuto vada profondamente rivisitato non è contestato da nessuno. Sulla legittimità delle proposte di riforma di iniziativa regionale non possono essere avanzati dubbi di nessun genere; sull’urgenza di uscire dalla crisi politico-statutaria c’è un’unanimità di pronunce.

Il problema, semmai, è di colmare il vuoto di proposta e prima ancora di elaborazione dei nuovi contenuti da dare alla rinnovata specialità. Ed è di questo che bisogna parlare. Partendo dalle attuali condizioni istituzionali, politiche, sociali, si possono esplorare nuove forme, nuovi contenuti, procedure e modalità di espressione della sovranità popolare nel contesto isolano, in quello italiano e in quello europeo. Si può chiarire come riconoscere e dotare di diritti e poteri una nazione senza arrivare alla sua indipendenza statuale. Si può trovare la via per passare da un’autonomia esangue a una nuova condizione costituzionale che, come è stato detto più volte,  riconosca agli organi rappresentativi della nazione sarda più sovranità piuttosto che più autonomia.

Il nuovo patto costituzionale si dovrebbe configurare come un Patto federativo, perché tale è nella sostanza e nelle procedure che coinvolgono sia il Consiglio regionale sia il Parlamento  e prima ancora tutto il popolo sardo. La natura federativa dovrebbe cambiare radicalmente anche la forma del Patto. Non più uno Statuto che contiene tutto: non solo la natura della Regione, ma anche la composizione della sua assemblea rappresentativa e del suo governo, dei suoi uffici, la sua dotazione strumentale, gli assetti complessivi della vita politico-amministrativa.

1ª voce: federalista

Ma la tua posizione è federalista come la mia.

3ª voce: autonomista

No, si assomiglia, ma è diversa. Il nuovo Patto dovrebbe contenere solo i princìpi fondamentali sui quali si fonda e oltre a ribadire l’appartenenza della Sardegna alla Repubblica italiana e la piena cittadinanza italiana dei sardi, dovrebbe trasformare la vecchia autonomia in un regime di sovranità cooperativa condivisa, dovrebbe individuare le sfere di reciproca competenza e influenza, riservare alla sovranità della nazione sarda e dei suoi istituti rappresentativi tutto ciò che costituisce il patrimonio identitario inalienabile, materiale e immateriale, della Sardegna e del suo popolo.

Non più quindi uno Statuto che fissa le regole e definisce rigidamente le cosiddette competenze, ma un patto che contiene i princìpi fondamentali che vincolano sia lo Stato che la Regione, fissano i limiti del potere di ciascuno e definiscono le forme di cooperazione tra loro. Tutto il resto, cioè l’ordinamento interno della Regione, i suoi organi, le modalità democratiche, tutto ciò che riguarda la vita politica regionale sarà regolato con lo Statuto interno e/o con leggi statutarie regionali. A me sembra che questa sia non solo l’unica strada legittima, ma anche la più realistica e la più moderna e attuale.

1ª voce: federalista

Continuo a pensare che la tua sia una posizione federalista molto interessante e stimolante. Questo dimostra che la cosa più urgente è aprire nelle istituzioni e nella società un confronto a tutto campo tra i sostenitori delle varie soluzioni così come stiamo facendo noi. Non in astratto,  ma cercando di arrivare a una sintesi che consenta di uscire dall’attuale passività. Se tutti fossero disposti a discutere senza pregiudiziali, una sintesi sarebbe possibile. In fondo non mi sembra che su diversi punti ci siano divergenze insuperabili.

Concordiamo tutti e tre sul fatto che l’attuale regime autonomistico è superato, sia per cause interne che per le trasformazioni globali. Condividiamo tutti e tre l’esigenza di un collegamento con i poteri statali e sovrastatali per le questioni che richiedono una governance più vasta, solidale e giusta; abbiamo la consapevolezza che non è più tempo di chiedere condizioni che ad altri possono apparire ingiusti privilegi; abbiamo anche espresso una comune preoccupazione per i pericoli di restare isolati rispetto alla più vasta opinione pubblica regionale e nazionale.

E soprattutto mi sembra importante aver concordato sull’esigenza di realizzare una società più giusta sia in Sardegna che nel più vasto campo delle relazioni internazionali. Una società più libera, cioè meno dipendente da uno Stato centrale sovraordinato e da un’economia capitalistica monopolista e non solidale; una società sovrana sul piano identitario culturale, sui beni che compongono il patrimonio inalienabile comprese le biodiversità regionali; una società caratterizzata da uno sviluppo sostenibile che non si fondi solo sull’aumento del Pil, ma anche sull’eguaglianza delle capacità offerte da una piena cittadinanza; una società che promuove la partecipazione a una governance globale per evitare il crescere delle diseguaglianze e impedire il diffondersi incontrollato di attività speculative che violano i principi della giustizia ecologica, dell’uso dei beni comuni, del patrimonio culturale e ambientale evitando che diventino proprietà privata dei capitali finanziari e della speculazione. Concordiamo soprattutto sull’esigenza di difendere e rivitalizzare il sistema democratico oggi in crisi.

Dovremmo fare ancora uno sforzo per cercare una soluzione istituzionale e politica che renda possibile il passaggio dalla teoria alla pratica. Confermo perciò le mie argomentazioni partendo dalla convinzione che risolvere i problemi che abbiamo indicato come prioritari in un tempo contrassegnato dalla cosiddetta “costellazione post-nazionale” non sia assolutamente possibile se si resta dentro la cornice dei vecchi Stati nazionali.

Io considero assolutamente indispensabile una decisione preliminare, che trascenda e superi lo schema dello Stato nazionale fin dall’inizio del percorso e sposti dal livello nazionale e subnazionale a quello transnazionale l’intero universo dei problemi collegati alla riforma della società, della democrazia e dell’economia. Solo così si potrà uscire dalla paralisi, nata dalla pretesa di operare nel processo globale con politiche concorrenti o peggio conflittuali, destinate a soccombere per debolezza oltreché per la contraddizione tra mezzi e fini.

2ª voce: sovranista

Rischiamo di ripeterci, ma andiamo ugualmente avanti. In fondo nessuno ci obbliga a seguire uno schema rigido. È questa libertà di muoverci senza binari troppo rigidi che ci ha consentito di registrare le convergenze che hai indicato. Con questo spirito costruttivo riprendo alcuni punti in parte già trattati, cominciando dalla tua ultima osservazione sulla “costellazione post-nazionale”. Io penso che proprio partendo dalla dimensione transnazionale si conferma la mia tesi che il problema non sta nell’abbandono del modello di Stato rappresentativo della nazione ma nell’adeguamento della politica degli Sati-nazione alla nuova dimensione dei problemi, che richiede atteggiamenti fondati non su una competizione ostile ma su una competizione cooperativa.

Può sembrare un ossimoro ma così non è. La competizione economica tra territori e produzioni ci sarà sempre nel mondo. Quello che è cambiato è l’emergere di nuove interdipendenze derivanti da nuove tecnologie produttive, dal sistema delle comunicazioni e dalla formazione e l’uso dei capitali finanziari che abbiamo richiamato nella nostra discussione. Il governo di questi nuovi elementi richiede nuove forme di espressione della sovranità, ma ancora non siamo riusciti a chiarire come si possa superare in termini  transnazionali il principio della sovranità democratica senza snaturarlo e svuotarlo di contenuti, come purtroppo sta già avvenendo nel nostro paese e nel mondo. Superare il confine nazionale sul quale si fonda la sovranità degli Stati moderni sarà tutt’altro che facile.

Una forma di democrazia transnazionale non è stata ancora inventata. Le decisioni dell’Onu, della Nato e di altre associazioni di Stati nazionali non sono espresse attraverso il voto dei cittadini. E anche l’Unione europea è ancora a metà strada: il suo sistema di governo non è espressione diretta della volontà popolare, ma solo la somma delle volontà di tutti i governi dei paesi che ne fanno parte. Non essendo espressione di una maggioranza politica il governo europeo è costretto a compromessi non sempre limpidi ed efficaci. Aggiungi che superare le diverse società costituitesi come nazionali per comporle in un soggetto unico plurinazionale non sarà facile: eppure si dovrà tentare,  perché senza un accordo non sarà possibile governare la globalizzazione rispettando la democrazia. Tutto questo impone una denazionalizzazione in due direzioni: verso il basso per salvare le identità originarie di base e verso l’alto per cominciare a costruire le nuove identità post- nazionali.

Il livello inferiore, quindi, non né inutile né obsoleto. Si può discutere della sua dimensione o della sua forma, ma non della sua utilità: anzi, della sua necessità, come io credo. Semmai, il livello più difficile da legittimare e da inquadrare, nel momento in cui la sovranità sulla moneta, sulla giustizia, sulla politica estera, sull’organizzazione militare, sulla coesione sociale, sulla libertà dei mercati e su altri comparti e materie fondamentali tipiche del vecchio Stato nazionale vengono cedute e messe in capo al livello sovranazionale, è proprio quello di una Repubblica federale italiana risultante dalla trasformazione del vecchio Stato centrale in Stato federale le cui funzioni sarebbero infatti in gran parte esercitate dall’Unione europea.

1ª voce: federalista

Il processo non è ancora né chiaro né semplice anche perché c’è un largo spazio di materie e di competenze che non è facilmente trasferibile dal vecchio Stato nazionale ai due livelli inferiore e superiore che hai indicato.

La politica interna non si esaurisce tutta nel livello globale pur essendo vero che anche quel livello è dominato da questioni che rientrano nel concetto di politica interna. O, detto in altro modo, non tutta la politica interna nazionale può essere trasferita all’esercizio di una politica interna mondiale. Sarà sempre necessario uno spazio intermedio per dare corpo a una serie di bisogni che non sono né regionali né mondiali ma più direttamente collegati al processo di formazione degli Stati nazionali, al loro patrimonio storico-culturale, ideale, ambientale, ai loro interessi peculiari e al loro universo di valori materiali che non possono venir meno da un giorno all’altro.

Anche se il traguardo finale fosse quello di una democrazia mondiale tra l’attuale condizione e quella futura ci sarebbe un enorme spazio temporale che non può essere valutato né lasciato al caso e all’influenza di impulsi contrapposti già in atto. Da un lato infatti assistiamo all’indebolirsi delle identità e dall’altro ad un loro indurirsi. In un caso si mescolano e si ibridano, nell’altro si isolano e si autoesaltano chiudendosi in una sub-cultura fondata sulla presunta continuità di vita di una comunità di antiche origini che deve rimanere tale anche nel futuro,  ignorando che si può democratizzare quel che resta del vecchio mondo, ma certo non si democratizzerà con una forza nazionale il potere del denaro, della finanza, del capitalismo senza frontiere.

Tutto questo non fa che confermare l’esigenza di un livello più alto di quello dei vecchi Stati nazionali. La riforma dovrebbe essere il frutto di un patto federativo, della libera composizione dei poteri in un nuovo equilibrio, tale da soddisfare meglio del sistema precedente le nuove esigenze e non lasciare al caso, al mercato o ai poteri non democratici, il compito di coprire la sfera degli interessi generali, del bene comune, delle particolari esigenze specifiche frutto della storia, della cultura e dell’ambiente di ciascun territorio e di ciascun popolo. Ecco perché ritengo ancora valido un sistema istituzionale politico-democratico che agisce su tre livelli, regionale, nazionale e supernazionale.

3ª voce: autonomista

È proprio quello che dico io.

1ª voce: federalista

Mi rendo conto che tutto questo può creare una certa confusione terminologica. Ma questo è colpa del patrimonio concettuale e linguistico contemporaneo, che non ha ancora trovato i termini nuovi per designare cose tra loro diverse. Per esempio quello che voi vi ostinate a chiamare Stato nazionale è una cosa diversa dallo Stato nazionale del XIX e del XX secolo. I suoi poteri si sono molto ridotti e ancor più si ridurranno nel futuro; la sua influenza è molto più scarsa, la sua potenza quasi annullata; le sue funzioni universalistiche quasi svuotate; il suo contenuto simbolico fortemente indebolito; la sua funzione di titolare naturale ed esclusivo della cittadinanza largamente svuotata.

Per questo non possiamo restare prigionieri di una struttura concettuale e linguistica solo formale. Dobbiamo guardare alla sostanza, che è profondamente cambiata anche se continuiamo a chiamarla con il nome antico. Viviamo una fase storico-politica che qualche studioso ha definito “liminale” qualche altro “assiale”: un passaggio obbligato, un cambiamento di pelle molto spesso traumatico, che va gestito, governato, guidato con molta attenzione e molta saggezza.

In Sardegna questo compito spetterebbe al Consiglio regionale, alle forze politiche e alle istituzioni culturali. Ma il tempo ha dimostrato il progressivo indebolirsi di questi soggetti, soprattutto dei mediatori istituzionali, a cominciare dal “partito”, che sembra in preda a una crisi senza ritorno. Un mediatore è però indispensabile e va espresso, se necessario, anche al di fuori dei vecchi soggetti, delle vecchie élites. Se necessario, come dicono alcuni, va creato ad hoc,  attraverso l’istituzione di un’assemblea costituente che sia diretta espressione del popolo sardo. L’operazione ha dei rischi. Può scivolare nella demagogia, nel populismo, nella sottovalutazione degli elementi strutturali e giuridici, nel negativismo, cioè nell’anti più che nel pro. E tuttavia il rischio non deve fermare il processo.

2ª voce: sovranista

Questo sì che è un passo avanti. Se fossimo d’accordo su un’Assemblea costituente molti problemi troverebbero una logica collocazione. Si uscirebbe dalle lungaggini tattiche, dalle polemiche quotidiane e dalle accuse di strumentalità di tutti contro tutti.

3ª voce: autonomista

Anche se si decidesse di affidare all’Assemblea costituente il compito di elaborare una proposta ampia e aperta le difficoltà rimarrebbero, perché non sarebbe facile soddisfare le aspirazioni nazionalistiche più spinte e allo stesso tempo tenere nel giusto conto l’opinione pubblica di parere contrario, non sottovalutare il valore della cittadinanza ma neanche quello dell’identità, rispettare il patriottismo costituzionale ma anche il patriottismo dell’appartenenza naturale, essere insieme nazionale e federale, considerare nella giusta misura l’esigenza di partecipare alla governance democratica globale e il desiderio di riappropriarsi della sovranità sui beni originari costitutivi dell’identità. Certo, se la Costituente riuscisse a fare una buona sintesi di tutto questo, scomparirebbero molti degli ostacoli che hanno fermato il cammino della riforma statutaria e del superamento dell’attuale regime autonomistico. E la crisi avrebbe uno sbocco costruttivo di grande importanza.

1ª voce: federalista

A questo punto possiamo continuare nel nostro confronto, tenendo conto di questa possibilità, cioè che il compito di elaborare la proposta della riforma venga affidato ad una Assemblea costituente che terrà conto di tutti i contributi e quindi anche di questa nostra discussione.

2ª voce: sovranista

Nonostante l’evidenza dei vantaggi offerti da un’Assemblea costituente, dal mio punto di vista qualche problema rimane irrisolto. Mi riferisco all’esercizio del diritto all’autodeterminazione. In particolare mi chiedo se un’Assemblea costituente possa proclamare questo diritto senza prima interpellare il popolo sovrano. Non mi sembra sufficiente un mandato implicito nell’elezione. Mi sembrerebbe invece necessaria un pronuncia esplicita, un referendum come quello indetto nel 1946 per la scelta tra monarchia e repubblica.

Forse anche noi dovremmo proporre un referendum per la scelta tra le varie forme in campo. Mi rendo perfettamente conto che non si tratta di un problema di facile soluzione. Ma se non si vuole che le possibilità della Costituente si riducano di fatto (oltre che di diritto) alle sole proposte che non intaccano l’assetto costituzionale vigente,  il referendum è essenziale. Non la pensavo così quando abbiamo iniziato il confronto, ma ora penso che senza una pronuncia referendaria esplicita che comprenda anche l’indipendenza si rischia che restino in campo solo le due posizioni che sostenete voi: la revisione dello Statuto in direzione di una diversa e più forte specialità senza cambiarne la natura autonomistica, oppure l’elaborazione di un nuovo Patto costituzionale che, nei limiti della Costituzione, si configuri come una sorta di patto federativo che trasforma l’Autonomia speciale in una nuova Autonomia federale.

Di fatto la mia posizione sarebbe esclusa. Siccome non credo che questo sia nell’interesse della Sardegna mi permetto di insistere sulla necessità che venga chiesta una pronuncia del corpo elettorale su questo tema. La Costituente infatti non è il primo passo, caso mai il secondo. Il primo dovrebbe essere proprio questo referendum che dovrebbe comprendere anche l’opzione dell’indipendenza. Sono consapevole che il Parlamento, il governo e quasi tutte le forze politiche potrebbero ritenerlo inammissibile e pericoloso per l’unità nazionale, anche perché costituirebbe un precedente per altri pronunciamenti in altre parti d’Italia o su altri punti fondamentali della Costituzione, ma non possiamo evitarlo.

Ma prima di decidere sulla impraticabilità della procedura referendaria e il ripiegamento su eventuali procedure alternative, che comunque non avrebbero né la solennità né la forza democratica del referendum,  almeno un tentativo va fatto. Mi piacerebbe sentire la vostra opinione su questo punto specifico.

3ª voce: autonomista

Mi viene difficile seguirti su questa strada, perché continuo a pensare che si tratti di un rovesciamento, cioè di un cominciare dalla coda invece che dalla testa. Che si faccia o non si faccia, un’Assemblea costituente resta essenziale e preliminare un esame attento, scrupoloso, realistico dello stato della politica, delle istituzioni, dei poteri, delle forze, della fattibilità giuridica e politica delle diverse soluzioni che abbiamo prospettato. Prima della scelta della natura istituzionale, prima di dare il via a qualsiasi azione rivendicativa, prima di incaricare un’Assemblea costituente di un qualsiasi compito, occorre comunque aver chiaro l’intero panorama, occorre esplorare fino in fondo il terreno sul quale ci muoviamo. In questo senso il nostro lavoro non è ancora concluso. Dalla discussione sono emersi aspetti che io stesso avevo sottovalutato o addirittura ignorato. Ci sono spunti validi in tutte e tre le posizioni, ma non siamo riusciti ad indicare la scelta migliore tra quelle in campo. Io non sono nazionalista né sostenitore della natura etnica della nazione: e tuttavia riconosco che il fattore identitario esiste e svolge un ruolo importante oggi come ieri nella formazione delle entità che siamo soliti chiamare Stati nazionali.

Contemporaneamente, però, non sono assolutamente convinto che il binomio nazione e stato debba essere per forza congiunto, cioè inscindibile. La nazione può esistere senza diventare necessariamente Stato e uno Stato può nascere ed esistere senza una nazione, o con molte nazioni. Il tempo dello Stato-nazione come forma istituzionale politica si sta avviando verso l’estinzione, sia pure lenta e graduale.

1ª voce: federalista

Quello che dici è vero. Infatti anche gli Stati ultimi nati soffrono dell’evidente inadeguatezza del nazionalismo a rispondere alle esigenze politiche economiche e sociali di una società interdipendente e dominata dalle forze della globalizzazione. Il problema dell’identità, della difesa dei caratteri originari, del patrimonio culturale, ambientale, religioso, linguistico, storico, biologico, naturalistico, tutto ciò che costituisce un popolo in nazione,  per poter sopravvivere senza essere oggetto di sfruttamento e dominio, ha bisogno di un sistema politico democratico più forte, più efficiente, più solidale, più equo e più giusto rispetto al sistema della vecchia costellazione degli Stati nazionali. La definizione che normalmente si dà di questo sistema è “federalismo”, in netta opposizione a “nazionalismo”.

Questa condizione di superiorità del federalismo rispetto al nazionalismo è ancora più evidente per un’entità territoriale, etnica e storica come la Sardegna, la cui storia non registra mai una vera tendenza nazionalista.

La spinta a diventare indipendenti, se mai c’è stata, è scomparsa con la fine di Arborea. La cosiddetta “costante resistenziale”, della quale si è anche parlato tra noi, non ha avuto mai la rilevanza e la dignità di una “coscienza nazionale” statuale etnica, culturale, dinastica. Anzi una “coscienza nazionale” nel senso che intendiamo oggi non è mai esistita neppure al tempo dei nuragici che secondo gli studiosi erano divisi in tante unità cantonali che furono incapaci di fondersi in un unico Stato. Nella storia millenaria della Sardegna l’indipendenza non compare mai, se non in forma confusa e ambigua e in tempi recenti, molto dopo la comparsa del nazionalismo in Europa che ci ha visto impegnati a costruire la nazione italiana. Oggi il bisogno di riconoscimento così diffuso in Sardegna può essere soddisfatto meglio con la trasformazione della Repubblica italiana in senso federale, cioè nel senso auspicato anche da alcuni grandi sardi già nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento.

2ª voce: sovranista

Non riesco a convincermi delle tue ragioni. Continuo a pensare che l’identità nazionale sia stata osteggiata e conculcata, soprattutto quando stava per avere la potenzialità di diventare nazione-Stato.  Anche nel tempo presente sta di fatto avvenendo altrettanto. La Sardegna è oggi potenzialmente sul punto di diventare nazione-Stato. Se non lo diventa non è perché non ne abbia i requisiti, ma perché le viene impedito dalle forze dominanti.

Possiamo discutere all’infinito sulla superiorità di un modello sull’altro, possiamo esplorare l’universo delle tesi che si confrontano nel mondo su come salvare la democrazia, le diversità culturali, linguistiche, naturali, possiamo elaborare altri modelli per difendere equità e giustizia. Ma resta il fatto che il modello fino ad ora vincente è risultato quello dello Stato nazionale. Perché non dovrebbe essere valido per noi se lo è stato e lo è per tutti gli altri popoli?

Tra le varie ragioni a favore della superiorità dello Stato-nazione sta anche per la Sardegna il fatto che nel mondo attuale i paesi piccoli stanno meglio di quelli più grandi (se si escludono gli USA, forse e il Canada). Perciò non mi sento di rinunciare alle mie posizioni solo perché ci sono molti evidenti ostacoli politici, giuridici e procedurali. L’obiettivo è tanto importante che vale la pena affermarne la priorità e la superiorità rispetto agli altri e solo dopo passare a verificarne la fattibilità, i costi, le fasi, le modalità pratiche, tutto ciò che è necessario affrontare per raggiungere lo scopo.

3ª voce: autonomista

Mi sembra di partecipare a una esercitazione dialettica astratta sui grandi sistemi ideali, su universi di valori che non sono alla nostra portata e che, qualsiasi soluzione si dia alla questione istituzionale, rimarranno in campo perché sono inseparabili dalla condizione umana. Teniamoli presenti, tutti questi argomenti, perché fanno parte della nostra vita personale e di quella collettiva, ma focalizziamo l’attenzione sugli obiettivi e sulle questioni per le quali oggi siamo chiamati a decidere.

Per illustrare meglio la mia posizione mi consentirete un sia pure sommario excursus storico.

Nella prima fase della storia sarda troviamo una piccola comunità interamente racchiusa dentro confini ristretti. Il territorio dell’isola si divide in tanti cantoni e la popolazione in famiglie e tribù.

La seconda fase vede la Sardegna coinvolta in un processo più ampio, supernazionale, con la presenza di popoli stranieri, fenici, punici, romani, in cui non compare nessuna idea di popolo-nazione. La terza fase è caratterizzata da un grande processo caotico e da un ripiegamento in confini ristretti, chiusi, dominati da poteri locali, in cui l’idea di nazione compare solo come elemento che distingue i nativi da tutti gli altri e che rimane tale per tutto il tempo lungo del dominio esterno, però senza mai diventare coscienza nazionale e tanto meno realtà istituzionale. La quarta fase coincide con la nascita in Europa delle nazioni-Stato. Ma la Sardegna non è minimamente toccata dall’ambizione di diventare Stato, anche se partecipa al processo che dà il via alla nascita di uno Stato-nazione completamente nuovo e diverso dalla sua storia, cioè lo Stato italiano.

La quinta fase è quella che stiamo vivendo ora, e che nasce dalla riapertura dei confini nei quali si è sviluppato lo Stato-nazione. Noi siamo chiamati a decidere sui nuovi confini emergenti. Dobbiamo decidere o rifiutare le tendenze in campo, oppure  definire forme nuove di convivenza dentro i vecchi confini nazionali- statali.

1ª voce: federalista

La soluzione è solo quella federale.

2ª voce: sovranista

La vera soluzione è la creazione di uno Stato-nazione.

3ª voce: autonomista

La mia posizione l’ho già espressa, e i vostri argomenti non sono sufficienti a farmela cambiare. Il regime di autonomia speciale, aggiornato secondo le esigenze di oggi, è per me ancora valido. Addirittura, forse, l’unico che ci consentirebbe, se confermato, di avere insieme più autonomia e più sovranità. Sono arrivato a queste conclusioni per i miei sentimenti di amor di patria, di cittadinanza, di comunanza di storia, di destino, di lingua, di cultura, di arte e di guerre, ma anche per ragioni materiali e per convenienza economica.

Non sono affatto convinto che uscendo dalla cornice statuale della Repubblica italiana la competitività della nostra economia migliorerebbe, che diminuirebbe la dipendenza, ma al contrario sono convinto che il processo di svendita e di colonizzazione dell’isola aumenterebbe, e che continuerebbe il ripiegamento in senso autarchico, e le difficoltà e le disuguaglianze di cui ci lamentiamo oggi aumenterebbero. La fase di ridefinizione dei confini delle entità istituzionali, che nel vecchio linguaggio ancora in uso chiamiamo Stato, non deve necessariamente portarci a scoprire e rendere operativi molto tardivamente quelli che potevano essere i giusti confini dell’Ottocento o del primo Novecento.

Sono convinto che questo non sia più il tempo di fondare nuovi Stati nazione nell’Europa post-nazionale, anche se ne abbiamo visto sorgere recentemente alcuni dalle ceneri degli Stati “inventati” artificiosamente in altre epoche storiche. Ma questo non è il caso della Sardegna. E non basterebbero alcuni motivi nostalgici-sentimentali a giustificare un passaggio così radicale e sofferto,  che rimetterebbe in discussione la parte forse migliore della nostra storia. In nessun periodo storico, infatti,  la Sardegna ha sperimentato condizioni di libertà individuale e collettiva, benessere e progresso, inclusione e riscoperta delle proprie radici, cittadinanza e riconoscimento dei diritti e partecipazione alla vita nazionale, come in questo tempo attuale che ha visto nascere e affermarsi la Repubblica e con essa l’Autonomia sarda. Perché cambiare, perché abbandonare un modello che avrà si luci e ombre,  ma che alla fine è largamente di segno positivo, nonostante la crisi che ci travaglia?  Il declino della Regione è evidente nelle sue istituzioni e nella perdita di forza dinamica della sua società,  ma per me il rimedio consiste in un’azione rivolta ad adeguarne la struttura,  competenze e poteri, piuttosto che in una posizione rivolta a dichiararne la fine a favore di una nuova e per niente chiara alternativa che mi appare sempre più un salto nel buio.

1ª voce: federalista

Io le ragioni della mia scelta le ho dette e non mi sembra il caso di ripeterle.

2ª voce: sovranista

Anch’io ritengo di avere spiegato le ragioni della mia preferenza per la soluzione dello Stato-nazione.

3ª voce: autonomista

Se è così, cercherò di portare ulteriori argomenti alla mia tesi. Le vostre speranze che una maggior cura identitaria e una più efficiente società neocapitalistica competitiva in termini fiscali e finanziari, frutto di un’oasi come la zona franca e produttrice di beni identitari più forti, possa portare tutti i vantaggi economici presunti, senza intaccare la condizione di cittadinanza goduta e sperimentata con la Repubblica italiana , cioè una cittadinanza fondata sui principi universalistici di libertà, uguaglianza, parità, giustizia, equità distributiva e solidarietà, democrazia e partecipazione, inclusione, rispetto e tolleranza, sono assolutamente infondate.

Tutto potrebbe essere rimesso in discussione per mancanza di risorse o per il prevalere di una diversa matrice politica ideale, secondo le tendenze del Terzo millennio. Anche questo mi spinge a tenermi stretta la conquista dell’Autonomia speciale, per partire dalla sua conferma e avviare un processo di riforma che renda l’Autonomia lo strumento che deve essere oggi nella dimensione europea e mondiale, insomma un’Autonomia dotata di una maggiore sovranità condivisa con i poteri nazionali e sovranazionali.

1ª voce: federalista

Non sono d’accordo.

2ª voce: sovranista

Neanche io condivido quello che dici.

3ª voce: autonomista

Io invece sono convinto che se confrontassimo e bilanciassimo senza pregiudiziali ideologiche pregi e difetti delle tre proposte in campo, tutti insieme riconosceremmo che la strada giusta;  la soluzione all’altezza dei compiti e delle attese del popolo sardo, è puntare su una nuova Autonomia. A questo si arriva se non si sopravvalutano alcuni fattori identitari e/o naturali e non si sottovaluta l’assenza di quei fattori sociali, storici ed economici che hanno impedito la formazione di una vera o compiuta coscienza nazionale: tra i quali l’assenza di classi dirigenti autonome, la debolezza delle città e dei ceti intellettuali e commerciali urbani e delle strutture ecclesiastiche, la carenza di strutture produttive in grado di garantire l’autosufficienza e il surplus, l’assenza di un regime di proprietà terriera perfetta, la mancate crescita e influenza di una borghesia rurale in funzione di riequilibrio dello strapotere urbano, l’inesistenza di una capitale riconosciuta da tutti e tanti altri fattori che ho già richiamato nel corso di questa discussione.

Al posto di tutti questi fattori positivi la Sardegna ha conosciuto permanenti conflitti territoriali e istituzionali per l’egemonia tra Cagliari e Sassari, Iglesias e Alghero, tra nobiltà locale e nobiltà esterna, tra borghesia commerciale e professionale, tra nativi e “forestieri” che ne hanno ritardato lo sviluppo in tutti i sensi, anche in quello identitario.

La stessa lingua sarda, sebbene fosse stata utilizzata da Arborea e negli Statuti comunali, non è mai diventata  la lingua nazionale perché è stata sopraffatta dal catalano, dal castigliano e infine dall’italiano. Colmare tutti questi vuoti non è facile oggi come non è stato facile in tutte le altre epoche che hanno visto fallire ogni tentativo di dare alla Sardegna una dimensione politica e istituzionale specifica e distinta.

Sarà per questo che l’idea di Sardegna si lega più alla sua dimensione geografico-naturalistica che alla sua storia e agli altri fattori politico-sociali che normalmente vengono considerati costitutivi dell’identità statuale. La Sardegna ha attraversato la storia in condizioni di dipendenza; ha conosciuto umilianti dominazioni, sofferenze e ingiustizie. La sua gente non ha mai avuto il controllo dell’isola, non ha conosciuto libertà e giustizia. Ha visto al comando persone e gruppi non nativi fino al nostro tempo moderno, fino alla nascita della Repubblica.

Se l’idea di Sardegna è rimasta intatta, se anche oggi la parola Sardegna è più ricca ed evocativa di senso della parola Piemonte, Lombardia, Lazio, ciò non vuol dire che sia una nazione che deve diventare Stato, ma piuttosto una nazione che sopravvive e si realizza in qualsiasi sistema statuale si trovi, come dimostra appunto la sua storia.

1ª voce: federalista

Concordo con quanto sostieni, ma non concordo con le soluzioni.

L’essere più identitari di altri è una delle nostre “specialità” e forse da un certo punto di vista la più importante e la più originale. Aver conservato una forte e inconfondibile identità nonostante un così lungo e ininterrotto dominio esterno, nonostante tante colonizzazioni in senso materiale e immateriale, che ci hanno privato del naturale sviluppo culturale, linguistico, economico e sociale e hanno ritardato l’emancipazione e la crescita della popolazione nativa,  impedendo la nascita di una classe dirigente urbana intellettuale e di una classe rurale di proprietari coltivatori e allevatori come nelle altre parti dell’Europa,  è la dimostrazione che l’identità non ha bisogno dello Stato. L’idea di Sardegna come territorio, come popolo e persino come cultura e come storia, ha attraversato i secoli ed è arrivata fino a noi con una forza evocativa e simbolica sorprendente. Se questo è potuto accadere in assenza di tutte le condizioni che normalmente accompagnano lo sviluppo dell’idea identitaria che distingue un popolo e un territorio dagli altri popoli e dagli altri territori, vuol dire che l’identità sarda può anche superare le tempeste e le grandi onde della globalizzazione che segnano il passaggio dalla prima alla seconda modernità senza il supporto di una struttura istituzionale e politica propria, del tutto indipendente e sovrana. La sopravvivenza del mito Sardegna e il suo rafforzamento nell’immaginario collettivo dei non sardi dimostra che non è necessario procedere secondo il senso della storia del Settecento e dell’Ottocento che ha portato alla nascita degli Stati-nazione che tu consideri ancora l’unica via per dare alle nazioni una soggettualità che diversamente sarebbe loro negata. Ma non è così. Io riconosco l’esistenza di una domanda politica e l’esigenza di dare una risposta  in grado di aggiornare ed ampliare il regime autonomistico e l’autogoverno alle condizioni di oggi, ma non accetto che questo debba costringerci a rompere i legami con la nostra storia più recente. Una storia recente  che per la prima volta ci ha visto protagonisti più di prima, che ha segnato dopo tanto tempo l’inclusione a pieno titolo in uno Stato, con pari dignità e diritti, con (anche se insufficiente) solidarietà larga, con una piena cittadinanza.

2ª voce: sovranista

Sono d’accordo sul ragionamento ma non sulle conclusioni: bisogna andare oltre.

1ª voce: federalista

Per me invece è possibile fare un passo avanti significativo nella conquista di altri spazi di sovranità condivisa, migliorare e rafforzare l’autogoverno secondo le esigenze della seconda modernizzazione e della globalizzazione, conservare, rafforzare e valorizzare tutti gli elementi costitutivi dell’identità presenti nel territorio e nella società, quelli materiali, ambientali, biologici e quelli immateriali del patrimonio culturale, senza bisogno di rompere i legami con la Repubblica italiana, senza disconoscere la storia, senza rinnegare e neppure sottovalutare i valori e i sentimenti comuni di amor di patria, senza perdere la cittadinanza italiana e tutto ciò che ad essa è collegato.

Sono sinceramente convinto che comporre tutte le esigenze che abbiamo evidenziato è possibile solo con una trasformazione della Repubblica da Repubblica delle autonomie in Repubblica federale, ma non con uno Stato nazionale sardo e neppure con una nuova Autonomia.

Le modalità, i tempi, le procedure e le alleanze seguiranno immediatamente dopo la scelta principale e sulla base degli orientamenti e delle esigenze che saranno manifestati dalla società sarda e dall’intero paese.

2ª voce: sovranista

Le vostre considerazioni arricchiscono gli argomenti ma non cambiano la sostanza delle motivazioni a favore dell’una o dell’altra tesi. Dal confronto però si ricava che tutte le questioni, anche quelle molto importanti, saranno affrontate dopo aver sciolto il nodo principale, che è costituito dal momento in cui decideremo se diventare uno Stato-nazione oppure se rimanere legati all’attuale Repubblica, sia pure con un regime che da autonomista diventa federale.

Questo, dunque, è il vero nodo da scogliere perché sul resto non siamo molto distanti: tutti e tre ci riconosciamo ancora nei princìpi e nei valori della civiltà occidentale, democratica, liberale, solidari sta, personalista e ne auspichiamo la conservazione nel processo di globalizzazione in atto nel mondo. Ci differenziamo invece quando dobbiamo decidere su quale sarebbe il sistema istituzionale e politico che meglio garantirebbe l’effettiva realizzazione delle nostre esigenze. Io continuo a pensare che senza una piena riconosciuta sovranità originaria noi saremo sempre l’anello più debole del sistema istituzionale-politico italiano.

Infatti non basta dichiarare nelle costituzioni i princìpi universali cui abbiamo fatto riferimento; non basta affermare l’uguaglianza, la parità, la redistribuzione del reddito, l’uguaglianza dei diritti della cittadinanza per superare tutti i deficit che ancora esistono, per eliminare le diseguaglianze, per realizzare un’uguale capacità di fruizione dei servizi e delle opportunità, per trasformare la disponibilità teorica in uso concreto, nella reale soddisfazione dei bisogni, in risultati pari a quelli conseguibili negli altri contesti.

Del resto basta seguire le cronache quotidiane per rendersi conto che le tendenze in atto, soprattutto nelle regioni più ricche del Nord del paese, vanno in direzione opposta alla nostra: l’uguaglianza non è più un principio senza aggettivi, la solidarietà non è scontata, i diritti non sono un fatto definitivamente acquisito e incondizionato,  avere uguali capacità non dipende da altri ma solo dai diretti interessati.

1ª voce: federalista

La mia posizione tiene conto di questo.

2ª voce: sovranista

È vero ma la crisi in corso fa apparire ingiusta la solidarietà e trasforma la redistribuzione in una violenza contro le parti più attive e l’uso delle risorse provenienti dalla solidarietà nazionale in un privilegio indebito e in uno spreco dannoso per il paese nel suo complesso. Si può forse rimediare a tutto questo facendo quello che dice uno di voi, cioè rivedendo l’attuale distribuzione delle competenze in modo che tutto ciò che è collegato alla cittadinanza rimanga in capo allo Stato centrale perché in questo modo i servizi sanitari, scolastici, della sicurezza e tutto ciò che concorre a garantire a tutti un’uguale cittadinanza sarebbe possibile senza dover ricorrere a difficili trasferimenti di risorse da una regione all’altra.

Ma a parte le difficoltà pratiche che deriverebbero dal dover riorganizzare ex novo tutto il sistema, io non vedo in questo rovesciamento una reale soluzione. Le differenze rimarranno, e il diverso grado di capacità a sfavore delle regioni più deboli non sarà eliminato. Rimarrebbero comunque tutte le obiezioni o gran parte di esse contro il welfare e contro la politica di solidarietà, che verrebbe sempre vista come uno spreco, e si rafforzerebbero le posizioni di chi già ora sostiene l’esigenza di profonde modifiche del sistema, volte a eliminare quegli usi che anche voi ritenete essenziali per garantire l’uguaglianza sostanziale e non formale della cittadinanza. Dai vostri argomenti non ho ricavato elementi tali da indurmi a cambiare posizione.

3ª voce: autonomista

Consentimi di ripetere alcune considerazioni generali. Viviamo in un tempo segnato da grandi cambiamenti ma anche da grandi contraddizioni. Non c’è niente di stabile. Persino il capitalismo finanziario si modifica continuamente con la nascita di fondi sovrani pubblici e privati o con forme imprevedibili come quelle assunte dal capitalismo comunista cinese. Tutto sembra spingere a ricercare nuovi modelli di vita,  nuovi comportamenti, nuove istituzioni, nuova classe dirigente, nuove politiche per poi ricominciare, dopo ogni cambiamento, a dichiararne il fallimento e affermare l’esigenza di abbandonare le strade appena scelte prima ancora di averle percorse fino in fondo. L’opinione pubblica, i politologi, gli editorialisti di varia estrazione supportano con veemente certezza princìpi volta a volta diversi, basta che siano utili a chi governa, e non al rafforzamento della democrazia. Persino il principio di maggioranza, un tempo considerato il frutto del consenso sociale e oggi ridotto a requisito solo formale ottenuto con evidenti forzature che consegnano a una minoranza, neppure particolarmente consistente, l’esercizio della sovranità popolare. Una maggioranza politica che rappresenti la maggioranza della società, a causa della grande frantumazione delle opinioni anche sui problemi di grande rilevanza, non riesce più a formarsi.

2ª voce: sovranista

Questa è una delle ragioni che confermano la mia scelta.

3ª voce: autonomista

Sbagli; con la tua scelta questo fenomeno sarebbe destinato a crescere, non a diminuire: perché il processo di forte e progressiva individualizzazione della società si riflette nei comportamenti e nelle opinioni politiche, che non trovano più una sintesi trasferibile in leggi,  regole,  prescrizioni, e quando si tenta di farlo le leggi restano largamente inapplicate, se non violate. La pretesa del vecchio Stato nazionale centralizzato, nato sull’onda dei princìpi dell’illuminismo, del liberalismo democratico, del socialismo e del solidarismo cristiano, tutti uniti in una miscela fatta di buone intenzioni e di grande ottimismo sulle sorti progressive dell’umanità, non funziona più. È inutile riprodurre su scala ridotta meccanismi chiaramente in crisi(soprattutto in campo legislativo). L’evidenza dimostra che quel che non funziona nella società non funziona neppure nel diritto e la pretesa di regolare tutto con leggi nazionali è destinata in partenza al fallimento.

1ª voce: federalista

È, appunto, quello che sostengo io.

3ª voce: autonomista

Non sono d’accordo che siano la stessa cosa. Ritengo che inseguire sempre nuovi modelli istituzionali come rimedio alla crisi profonda del sistema politico e sociale sia inutile e illusorio: non è il modello istituzionale che è in crisi, ma l’intero universo ideale e valoriale, che non riesce ancora a trovare il suo nuovo equilibrio. Questa considerazione mi porta a mantenere la mia posizione ancorata alla realtà istituzionale che abbiamo sperimentato: che ha molte lacune e molte ombre, ma ha avuto anche momenti di efficienza e ha ottenuto grandi adesioni. Piuttosto che rinnegarla e rifiutarne la sopravvivenza io credo che sarebbe più utile e più giusto, insomma meno difficile e più produttivo per tutti, non ripartire da zero ma cercare di riformare quello che ha dimostrato di non essere efficace come prima, quindi integrare quello che manca, rafforzare ciò che serve ad esprimere meglio la sovranità, inventare strumenti, modalità, procedure per superare le frammentazioni e le differenze che da qualche tempo dividono in tante parti la vecchia compatta società sarda e la rendono ingovernabile; e allo stesso tempo individuare con più coraggio e più acuta lungimiranza le azioni più idonee a difendere l’identità sarda dalla definitiva colonizzazione e sottrarre i nostri beni originari comuni all’espropriazione e all’uso speculativo che ne sta provocando la scomparsa. Oppure la profonda corruzione, che è anche peggio. Per fare questo, e per non perdere quello che abbiamo di buono della cittadinanza italiana, meglio restare quello che siamo, un Regione ad autonomia speciale, non secondo l’attuale Statuto ma secondo un nuovo Patto costituzionale da negoziare ex novo con lo Stato italiano.

1ª voce: federalista

Prima di avviarci alla conclusione anch’io vorrei aggiungere qualche considerazione. Sentendo gli ultimi interventi e soprattutto quest’ultimo mi sono ancor più convinto della superiorità di un sistema politico-istituzionale federalista, che in qualche misura è anche autonomista e sovranista. Potrei partire da lontano per spiegare meglio la mia posizione. Potrei andare a cercare perché i costituenti si sono fermati all’autonomia e non hanno scelto il federalismo. Ma queste ragioni sono in gran parte note, com’è nota l’origine risorgimentale e dinastica dello Stato italiano e la sua dura parentesi totalitaria fascista e nazionalista. Non c’è né il tempo né la ragione per farlo: è sufficiente guardare alla realtà di oggi che ci dice chiaramente che l’attuale modello istituzionale non è più in grado di adempiere i compiti che spettano ad uno Stato sovrano che non voglia decadere dalle posizioni raggiunte.

La crisi che stiamo vivendo da qualche decennio è molto complessa e tocca molti elementi che tutti davano per solidi e inattaccabili sia sul terreno dei princìpi generali universali o dei diritti umani, sia sul terreno della coesione e del consenso costituzionale, sia sulle modalità di espressione della solidarietà interterritoriale e interpersonale sia sulla governabilità garantita da maggioranze reali e non da minoranze che si arrogano il diritto di decidere per le maggioranze senza averne la rappresentanza e il mandato.

Ma a questo ci siamo ridotti perché non siamo stati in grado di riformare, oltre al sistema istituzionale e al sistema partitico, le basi culturali della politica. La politica è rimasta ancorata ai capisaldi della prima modernità industriale, che aveva generato una società compatta divisa in classi omogenee in un sistema costruito sulla base di grandi narrazioni ideologiche che davano senso alla civile convivenza e alla stesa politica e ne regolavano i più duri contrasti attraverso meccanismi consociativi che, responsabilizzando l’opposizione e dandole la possibilità di partecipare al processo democratico decisionale e di influenzarne l’esito, consentivano una governance più attiva, efficace e condivisa rispetto a tutti i meccanismi escogitati nei tempi più recenti. Con la seconda modernità, con l’avvento di una società individualistica fortemente segnata dal consumismo e dall’apparire, attraversata in tutti i sensi da un processo di profonda trasformazione e da una secolarizzazione – non solo del senso più comunemente citato del ritiro del senso sacro e religioso dalla vita sociale, ma anche della perdita di senso generale della politica e delle istituzioni ormai denudate della loro sacralità e diventate oggetto di consumo, strumenti utilizzati per la carriera o per conseguire uno status sociale finalizzato a dare lustro alle persone e al godimento di una serie di privilegi e guarentigie – , non  c’è riforma istituzionale per quanto coraggiosa che da sola possa riportare la situazione o la politica al prestigio di un tempo. Solo riforme istituzionali che nascano da una profonda riforma culturale che ridia alla politica il senso democratico dell’agire collettivo possono riportare la fiducia, ricostruire il consenso,  rompere la gabbia dell’individualizzazione che rischia di tenerci prigionieri dietro sbarre invisibili, contenti di cibarci di quello che le grandi agenzie del mondo globalizzato ritengono essere l’alimento più adatto per conservarci tutti al loro servizio.

2ª voce: sovranista

È quello che dico anch’io, ma io vado oltre l’analisi e propongo una soluzione.

1ª voce: federalista

Questo lavoro, diversamente da quello che tu sostieni, va svolto su vari piani coordinati tra loro e collegati in uno o in pochi grandi sistemi politico-istituzionali che comprendono tutto il mondo com’è richiesto dalla globalizzazione, soprattutto della finanza e della cultura, dei consumi e della comunicazione. In assenza di nuove definizioni continuo a chiamare questo sistema istituzionale politico, culturale, sociale ed economico “federalismo”: un sistema che,  mettendo insieme le istituzioni dei vari livelli, le coordina e ne distribuisce i poteri senza ridurne, anzi esaltandone i caratteri democratici.

Il sistema federale è l’unico, o almeno il più idoneo fino ad ora pensato per realizzare una governance globale che includa attivamente i livelli inferiori e dia modo a tutti di non sentirsi privati della parte di sovranità popolare spettante a ogni cittadino e a ogni comunità rappresentativa di un territorio. Partendo dalla specialità si può, anzi si deve arrivare alla Repubblica federale, nella quale tutti guadagneranno qualcosa, anche noi che potremo meglio difendere i nostri beni identitari e partecipare in maniera più efficace alla vita della Repubblica e delle istituzioni europee.

3ª voce: autonomista

Ma così si rischia di perdere la nostra specialità, di diventare uguali agli altri.

1ª voce: federalista:

Hai ragione. Diventare federalisti significa accettare di diventare sul piano costituzionale uguali agli altri, senza più le differenze tra Regioni speciali e Regioni ordinarie. Il compito di curare i bisogni specifici di ciascuna realtà, compresa la nostra, sarebbe affidato  all’azione politica e amministrativa e non fissato da regole costituzionali che ora appaiono ai più come un ingiustificato privilegio concesso solo ad alcuni e non più sostenibile per il prevalere della globalizzazione su tutte le specificità locali.

Non sono più le norme fissate negli Statuti che possono tutelare le specialità della Sardegna, della Sicilia, del Trentino-Alto Adige, della Valle d’Aosta e del Friuli-Venezia Giulia. Solo l’azione politica orientata da una Costituzione federale fondata sui principi di equità e solidarietà può garantire il riconoscimento delle diversità, secondo il modello tedesco che risolve nella stessa legge fondamentale i problemi della distribuzione equa delle risorse che oggi noi cerchiamo vanamente di risolvere con gli Statuti speciali o con accordi stipulati volta a volta con il governo centrale.

2ª voce: sovranista

La tua è una posizione tecnicamente fondata ma politicamente fragile.

1ª voce: federalista

Certo, la federalizzazione della Repubblica non è un’impresa da poco e a portata di mano. Oltre alle questioni giuridiche istituzionali ci sono ragioni simboliche e politiche più generali legate alla storia, alle tradizioni, agli eventi del lungo periodo, a tutto ciò che si è costituito nella lunga durata nella quale si è venuta formando una cittadinanza che, oltre a diritti e doveri, è fatta di sentimenti e passioni, suggestioni e amor di patria. Se viene a mancare la comune patria italiana nel senso che si è venuto formando nella lunga durata, tante cose possono diventare più difficili, se non impossibili. Tra questi beni in pericolo, dobbiamo mettere la sopravvivenza della cittadinanza solidale, che non è per niente scontata.

Perciò anche la prospettiva federalista va guardata con molta attenzione e molta prudenza, accompagnata da un lavoro di confronto e di analisi che è stato appena sfiorato in tutti questi anni in cui si è parlato molto di riforme e mai dei loro contenuti  e dei rischi che derivano dal cambiamento del regime costituzionale sia in senso nazionalistico-indipendentista, sia in senso federale. Per queste ragioni anche la mia preferenza per il modello federale rimane in qualche misura sospesa, messa sub condicione. Essa è la migliore se realizza gli obiettivi senza creare danni irreparabili: cioè se aumenta la coesione, il consenso, la solidarietà, l’applicazione dei princìpi universali, il rispetto delle minoranze e tutto ciò che costituisce il fondamento della nostra Costituzione, che per questa parte rimane totalmente valida.

Certo, oggi non possiamo non vedere e non prendere atto che alcuni princìpi non trovano attuazione perché manca il consenso e perché la crisi economica e la crisi fiscale hanno fatto riemergere tutti gli egoismi territoriali e allo stesso tempo hanno portato in luce l’irragionevolezza dei vantaggi goduti da Regioni che non hanno nessun bisogno di solidarietà,  ma anzi sarebbero in grado di darne. Difendere tutto l’esistente non è più possibile e in ogni caso non è giustificato dalle condizioni del paese. Tutto questo cambia le alleanze e rende incerto il futuro. Ma stando fermi non si risolve nulla, anzi si concorre ad aggravare la crisi.

2ª voce: sovranista

Dobbiamo avviarci rapidamente a concludere il nostro confronto. Abbiamo messo tanta carne al fuoco e non possiamo certo pensare di risolvere tutto solo parlando. Però qualche considerazione ai vostri ultimi argomenti, che trovo molto stimolanti, vorrei farla. Preliminarmente vorrei ribadire che le ragioni che porto a sostegno della nazione-Stato Sardegna non sono quelle del Sette -Ottocento e neppure quelle della prima metà del Novecento. Le mie ragioni nascono dalle condizioni che stiamo vivendo in questo Terzo millennio, ma che hanno avuto origine nel XX secolo, in un tempo che ha visto prima andare in crisi il modello di Stato nazionalista totalitario e non, e che successivamente ha dovuto registrare anche l’inadeguatezza degli assetti costituzionali nati dalle rovine del fascismo e del nazismo prima e poi dal crollo del sistema comunista.

La trasformazione della società mondiale degli ultimi anni ha reso obsoleti molti strumenti degli stati democratici costituzionali, cresciuti e modellati sulla misura dei compiti richiesti da una governabilità limitata ai problemi interni di ogni singola nazione-Stato. Per questo la mia posizione è diversa da quella dei vecchi indipendentisti romantici e un po’ velleitari del primo e del secondo dopoguerra. Sono pienamente consapevole della fragilità di uno Stato nazionale sardo che si proponesse di competere da pari a pari, da solo, con le grandi potenze statali o con le potenze ancora più grandi della finanza internazionale e delle grandi agenzie culturali e di altra natura che operano sulla scena globale. Non è questo che mi propongo di raggiungere con il riconoscimento del diritto a costruire un nuovo modello di Stato attraverso l’esercizio dell’autodeterminazione.

Il pensiero che mi guida nasce dalla convinzione che, pregiudiziale a tutto, punto di partenza per qualsiasi sviluppo futuro non condizionato da precedenti e regole e vincoli insuperabili, sia quello di essere completamente liberi e sovrani di decidere il nostro assetto futuro: di restare da soli o di unirci alla Repubblica italiana, o di entrare nell’Unione europea oppure in altre più larghe forme di democrazia supernazionale. Avere questa possibilità vuol dire essere liberi di scegliere, anche sbagliando. Se scegliere di rimanere da soli è da molti considerato uno sbaglio, non perciò deve essere precluso alla volontà popolare di esprimersi liberamente.

Ad occupare la mia mente non è una stolta idea di poter competere con tutti e vincere con le mie scarse forze, ma l’idea di avere diritto di chiedere e ottenere il riconoscimento di quello che veramente siamo: un popolo nazione che deve poter decidere il suo destino, in totale libertà con l’autodeterminazione.

Tutto il resto viene dopo e per molti aspetti posso dire che mi trovo d’accordo con le vostre considerazioni, che però non colgono il punto critico: che è uscire finalmente dalla condizione di dipendenza nella quale viviamo, si può dire da sempre, per entrare nel mare vivo e aperto della libertà e della sovranità, che poi sta a noi usare con saggezza e prudenza, con responsabilità, con spirito di servizio, con amore e non con odio verso la patria nella quale siamo vissuti per tanto tempo.

3ª voce: autonomista

Come voi, prima di concludere questo incontro/confronto vorrei fare anch’io qualche altra considerazione generale a sostegno della mia tesi, che ritengo ancora la più valida. Io non credo nella forza risolutrice di una qualsiasi forma di indipendenza, la cui realizzazione soddisferebbe solo per breve tempo le aspirazioni dei suoi sostenitori. Penso infatti che tutto tornerebbe presto come prima: se va bene, se va male le cose peggioreranno e la “coscienza infelice” che domina la nostra storia di sempre ricomparirà ancor più dura per una nuova più cocente delusione. La nazione non nasce mai per caso. E non basta neppure un atto di volontà collettivo se non è giustificato e alimentato dalla storia e dalla geografia e non solo dalla convenienza del momento. Perché la nazione si affermi e diventi coscienza collettiva, occorre una base culturale solida, occorre una soggettualità collettiva compatta e consapevole della sua diversità originaria, del suo carattere non componibile con altri.

Io non dubito che esistano alcuni requisiti per l’esistenza di una nazionalità sarda: tra questi il territorio, una parte significativa della storia, un’antichissima cultura originaria, una lingua, un ambiente naturale e altri elementi meno importanti. Manca però l’elemento essenziale, manca cioè una popolazione consapevole di essere un popolo-nazione che vuole diventare nazione-Stato. Quello che si dà per acquisito non esiste nella realtà, o se esiste non si è ancora manifestato con chiarezza. Perciò la prima cosa da fare sarebbe acquisire la prova della sua esistenza o della sua assenza attraverso un procedimento democratico preceduto da un dibattito pubblico come quello che stiamo facendo tra noi tre, che non sarebbe ancora quel “plebiscito che si rinnova ogni giorno” secondo una famosa definizione della nazione, ma solo il minimo necessario per andare avanti nella rivendicazione.

Infatti, se non tutti i giorni almeno una volta bisognerebbe chiamare tutti a pronunciarsi su questo punto, magari abbassando l’età dell’elettorato attivo per includere una parte rilevante delle nuove generazioni, cioè i portatori della nuova cultura e i soggetti protagonisti del futuro. Sono soprattutto loro che devono pronunciarsi, valutando i pro e i contro di una decisione che ha luci e ombre, che presenta vantaggi e perdite, che offre soddisfazione ma presenta limiti e sacrifici.

2ª voce: sovranista

Ma è proprio quello che chiedo anch’io.

3ª voce: autonomista

Il risultato però non è scontato, perché quelli che ad alcuni sembrano elementi positivi ad altri appariranno negativi e viceversa. L’assenza, ad esempio, di precisi requisiti storici, culturali e sociali, che a me sembra limitativa per dimostrare l’esistenza della nazione, alle nuove generazioni può apparire come elemento che favorisce la formazione di una coscienza nazionale perché le nuove generazioni non sono condizionate dai ricordi delle divisioni e delle lotte tra la gente dell’isola. Parlo non di una nazione-comunità ma di una nazione-Stato,  perché secondo un’altra famosa definizione, se una nazione non diventa Stato non è neppure nazione:  il nazionalismo è sostanzialmente una forma scelta dalla politica per fare di un popolo una nazione e di una nazione uno Stato. Ma anche per rafforzare l’unità di una nazione attraverso lo Stato.

Per me tutto questo è in via di superamento e di declino irreversibile, e già oggi il senso dello Stato-nazione è diverso rispetto al significato e alla funzione che gli veniva attribuito nel XIX e nel XX secolo.Lo Stato ha perso o sta perdendo il senso della comunità, ha perso o sta perdendo le funzioni di crescere in potenza per affrontare e vincere i conflitti per la supremazia. Rivendicare oggi la nascita di uno Stato nazionale sebbene esso non abbia più tra le sue funzioni la potenza e il conflitto significa quasi rifiutare di stare pacificamente nel mondo aperto e globale, nell’illusione di essere più garantiti e meno esposti alla volontà di altri popoli. Ma l’influenza non si esercita più attraverso le strutture statuali e la forza militare,  ma attraverso strutture liberate dai vincoli statali nazionali, come le strutture della finanza globale  del nuovo capitalismo, ben più pericolose, invasive e determinate rispetto alle precedenti strutture nazionali.

Ma entrambe le posizioni, nazionalista e federalista, contengono pericolosi fattori di destrutturazione e dissoluzione che possono dar vita a processi non facilmente controllabili e che potrebbero suscitare violente reazioni a difesa degli assetti nazionali esistenti, come del resto sappiamo da vicende anche recenti. Da tutto questo discende la mia scelta per l’autonomia.

1ª voce: federalista

La tua è una eccessiva esasperazione dei punti problematici.

2ª voce: sovranista

Anche io la penso così. Il ragionamento è troppo forzato.

3ª voce: autonomista

Non è esattamente come dite voi. Pensare di portare pacificamente in porto la dissoluzione degli Stati nazionali formatisi nel Sette-Ottocento, compreso il nostro, è un’operazione densa di pericoli. Per l’Italia significherebbe scomporre il paese in tante nazioni-Stato e non solo  separare la Sardegna dal resto dell’Italia, come qualcuno sembra credere. Perciò è difficile che un processo di questa portata possa avvenire del tutto pacificamente e senza danni.

Anche per questo continuo a sostenere che le nostre legittime aspettative e le rivendicazioni politiche identitarie e di ruolo possano essere soddisfatte da riforme lungimiranti e audaci ma rispettose dell’attuale Costituzione, dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica, rifondando questa unità,  questa indivisibilità con un atto pattizio di grande impatto sociale e politico, che non rifiuta e tantomeno rinnega la patria comune ma la rende più compatta con l’unificazione libera e volontaria di tante soggettualità storiche, civili, culturali, territoriali delle diverse comunità che confluiscono liberamente in uno Stato che le riconosce e non le annulla, le comprende e per certi versi le assimila in un modello che trasforma e sublima, senza sopprimerle, tante nazioni regionali trasformandole in una più grande nazione sopra-regionale.

Questo processo è grandioso e in qualche misura affascinante. Ma è anche molto difficile,  perché deve coinvolgere necessariamente l’intero paese, e il paese non sembra orientato in questo senso. Una Repubblica delle autonomie nata da un libero patto resta ancora, secondo me, la soluzione migliore, almeno nel breve periodo.

1ª voce: federalista

Siamo sempre allo stesso punto. La discussione non ha sciolto nessuno dei nodi più importanti. Non voglio sottovalutare l’importanza del confronto che abbiamo sviluppato,  ma se lo sforzo che abbiamo fatto per chiarire le rispettive posizioni non è stato sufficiente a ridurre le distanze tra noi, come possiamo pensare che possa essere sufficiente soltanto un dibattito più largo per l’opinione pubblica, che non può certo occupare il suo tempo in una discussione senza fine.

Partiamo allora dalle cose più evidenti. La storia più recente ha dimostrato che il paradiso in terra non esiste; il socialismo e il comunismo sono crollati o non hanno dato gli esiti sperati; uno Stato nazione senza nazionalismo non può esistere; una democrazia diretta senza intermediari è impossibile; un territorio privo di attività produttive capaci di sostenere i bisogni della popolazione non può diventare Stato; uno Stato senza ingerenze e influenze esterne non è pensabile; fermare il corso del tempo è impossibile e insensato; isolarsi dal resto del mondo è un suicidio; l’indipendenza senza risorse può sopravvivere  solo come oasi fiscale, o zona franca globale, cioè come un’economia e una società dipendente, senza prestigio e al servizio dei potenti.

Perché inseguire un modello come quello nazionalista, che ha creato tanta violenza e tanti morti, che ha provocato tante rovine che dovrebbero portare tutti a considerarlo superato per sempre? Si può decidere di essere una nazione nonostante tutto, costruendo dal nulla le condizioni che la storia non ha costruito, restando componenti di un’altra nazione, proclamando d’essere una nazione come se si trattasse di una decisione qualunque, indolore e senza peso per noi e per gli altri? Io credo di no. Credo che la vera inderogabile esigenza sia unire e non dividere, sia mettere insieme e non separare i destini di popoli che hanno più cose in comune che non differenze sostanziali; credo che sia arrivato il tempo di uscire dai vecchi recinti nazionali e diventare europei.

2ª voce: sovranista

Stai esagerando. le mie posizioni sono più realistiche.

1ª voce: federalista

Forse si, ma anche se non volessimo tornare ai vecchi nazionalismi, alle vecchie divisioni, ai conflitti e alle competizioni per l’egemonia, anche se fossimo consapevoli di essere di fronte a una realtà economica, sociale e soprattutto tecnica che non è più rinchiudibile e neppure definibile secondo i princìpi e i confini dei vecchi Stati nazionali, l’esistenza di uno Stato ci farebbe sbagliare.

Se vogliamo che la democrazia e l’umanesimo, pur fortemente indeboliti dall’offensiva della tecnica, sopravvivano non dobbiamo rinchiuderci dentro i confini nazionali ma scegliere spazi più larghi: gli stessi spazi nei quali si muovono i poteri del capitalismo finanziario, della comunicazione elettronica, della tecnica e della cultura post-moderne. Non possiamo continuare a pensare la politica e il diritto secondo vecchi paradigmi ideali e vecchie istituzioni rappresentative fondate su tecniche di comunicazione e forme di lotta quasi obsolete.

Oggi esiste un universo virtuale alternativo a quello reale: un universo senza confini, salvo quelli che ciascun individuo costruisce per sé, quando ci riesce, perché i confini sono a rischio anche nel mondo personale privato. Ma, nella misura in cui è possibile, l’unico confine vero rimasto è quello tra ogni individuo e il resto del mondo. Le forze imperanti, soprattutto quelle che cercano in tutti i modi di essere le sole a controllare il sistema, si muovono per rafforzare le tendenze in atto, sostenendo la progressiva individualizzazione di tutto ciò che un tempo era comunitario, sociale o collettivo, ma orientando le esigenze individuali secondo la convenienza dei grandi produttori e quindi indirizzando i gusti di ciascuno verso consumi apparentemente personalizzati ma di fatto fortemente uniformizzati.

In questo universo post-moderno è difficile raggiungere risultati procedendo alla maniera dialogica tradizionale, cioè confrontando posizioni diverse e alternative e scegliendo la più idonea sulla base di un ragionamento condotto secondo i vecchi schemi, come stiamo facendo anche noi.

Tutto è ormai rimesso in discussione e nessuno può illudersi di realizzare una sua egemonia, come ai vecchi tempi. La democrazia non sarà più in grado di governare tutto soltanto dividendo in diversi strati la sfera di governo e del diritto. Ma se qualcosa è ancora governabile con la politica e con la legge, ciò sarà possibile solo su livelli diversi da quello degli Stati nazionali: o su un livello più basso o su un livello più alto della nazione-Stato di cui si è molto discusso tra noi.

3ª voce: autonomista

Ma questo è proprio quello che dico io.

1ª voce: federalista

Non è così, non si tratta di rimanere come dici tu ancorati all’autonomia e tantomeno di tornare indietro nel tempo come dicono alcuni, a prima degli Stati nazionali, quando la sfera del diritto era molto ridotta e gran parte delle questioni erano affidate al governo della società, alle sue convenzioni e alle sue strutture: si tratta di trovare nuove forme di presenza che garantiscano la sfera pubblica e la sfera privata senza confusioni e senza pericolosi cedimenti.

Il processo di liberalizzazione di cui tanto si parla non dovrebbe consistere nella privatizzazione  dell’economia, delle strutture produttive o dei servizi, ma piuttosto nel garantire a ciascuno il suo, alla società quel che è del privato e del mercato e allo Stato quello che è pubblico, di tutti e di ciascuno.  L’intervento della legge su ogni aspetto dell’attività umana non ha migliorato la governabilità, anzi l’ha resa più complessa e più ardua, ha moltiplicato le trasgressioni riducendo contemporaneamente la coscienza della colpa e la disponibilità a riconoscerla. Più legge c’è e più viene ignorata e violata, senza che ciò susciti alcun senso di colpa. A tutto ciò va aggiunto l’offensiva della tecnica, che sta portando il processo di individualizzazione alle estreme conseguenze attraverso l’emergere e l’affermarsi di poteri che costruiscono attraverso la comunicazione “rilevanze”  economico-sociali e politiche fondate unicamente sui desideri individuali a loro volta alimentati dalle grandi agenzie del nuovo capitalismo.

Se si vuole fermare questo processo occorre rovesciare le priorità, contrastare le tendenze attuali perché non si può mantenere viva una pianta tagliandone le radici, come sta avvenendo alla politica e alla morale pubblica. L’egemonia culturale e politica dell’ideologia del mercato e la secolarizzazione sostenuta dalla tecnica questo ha fatto e sta continuando a fare: prima ha allontanato gli uomini prima dalla trascendenza e dalla fede nelle grandi religioni, poi dai grandi universi di senso laici e umanistici costruiti dal pensiero filosofico e politico, dalle grandi narrazioni che hanno accompagnato l’evoluzione umana, e ora rivolge le sue forze contro la politica per indebolirla e renderla sempre meno influente nell’orientare le sorti del mondo, lasciando che la tecnica, nel mondo secolarizzato e post-ideologico eserciti un potere senza vincoli di nessun genere, né giuridici, né morali, né religiosi. Prometeo ha vinto, ma la sua vittoria si è capovolta rivolgendosi contro gli uomini che voleva emancipare, consegnandoli nelle mani di un potere impersonale senza dare loro la possibilità di liberarsene, quasi a immagine e somiglianza della sua stessa condizione di impotente incatenato alla roccia, senza difesa  nei confronti dell’avvoltoio che gli divora il fegato.

2ª voce: sovranista

Trovo difficile tutto questo ma ti ascolto con attenzione.

3ª voce: autonomista

Anch’io ti ascolto, voglio vedere dove arrivi.

1ª voce: federalista

È importante che voi non diciate, come fanno molti altri: che cosa c’entra tutto questo con la crisi della politica e delle istituzioni democratiche?

È importante che abbiate colto il fatto che per realizzare un qualsiasi progetto politico si deve prima di tutto analizzare con attenzione la condizione umana. Che prima di decidere bisognerebbe unire Prometeo ed Epimeteo, il suo gemello,  colui che agisce dopo. Dopo la conoscenza, dopo l’esperienza, dopo aver visto e sperimentato le vere e reali possibilità. Prometeo ha indicato la strada del riscatto ma la tecnica si è rivoltata contro di lui. Per superare il dominio della tecnica bisogna agire con sapienza, coraggio e prudenza. Bisogna agire secondo la virtù dell’esperienza.

La politica deve tornare ad essere libertà e liberazione, rottura delle catene, emancipazione dal dominio imposto dalla tecnica e da qualsiasi altro potere finanziario o militare. I valori umani devono tornare in campo per rivendicare la loro parte e consentire alla felicità di riprendere il suo posto nella vita degli uomini. Ma la politica non tornerà ad occupare il suo posto se gli uomini continueranno a comportarsi solo come Prometeo, cioè a ignorare la realtà, a combattere nemici sbagliati, a costruirsi da soli i propri padroni, a cercare di raggiungere obiettivi impossibili come quello che affida alla cosiddetta indipendenza “nazionale” la cura di tutti questi mali che sono così vasti, così radicati e infidi da richiedere insieme una politica e una struttura istituzionale allo stesso loro livello che non è certo un livello locale o comunque non si esaurisce in esso, e non opera per finalità di carattere territoriale o di potere politico locale  quanto piuttosto di carattere sociale, culturale, economico e politico universale, esattamente com’erano una volta i valori della libertà, della giustizia, della solidarietà e dell’uguaglianza tra gli uomini. Come ieri anche oggi per far fronte al nuovo antagonista gli uomini devono valutare con molta più cura le proprie azioni, non dividersi ma unirsi, devono federarsi in modo da poter conservare ognuno la propria identità e mettere insieme le forze, le intelligenze, le capacità, le responsabilità, per non essere assoggettati al dominio dei pochi che hanno in mano l’economia e i poteri della tecnica entrambi incarnati nel nuovo capitalismo mondiale. Se non si prestasse all’equivoco mi verrebbe da dire che il messaggio nuovo è ancora quello antico: “la mia patria è il mondo intero, la mia legge è la libertà”, come dice la vecchia canzone degli anarchici.

2ª voce: sovranista

Io non contesto tutto quello che hai detto, anche se penso che travalichi il nostro tema. Non voglio apparire come uno che si illude di cambiare la storia passata e neppure di invertire il senso dominante dell’evoluzione umana, individuale e sociale. Non mi illudo neppure di riuscire a recuperare ciò che abbiamo perso nel lungo tempo della nostra storia di popolo sottomesso a poteri esterni, né di modificare ciò che si è formato nei secoli. Anzi riconosco quello che siamo diventati e non mi sottraggo all’esame dei problemi che oggi noi viviamo allo stesso modo di tutti gli altri popoli. Quello che vorrei, lo ribadisco ancora una volta, è il riconoscimento da parte di tutti del diritto ad avere quel che ci è stato negato, quello che ci manca per essere uguali agli altri nell’esercizio dei poteri che spettano ai cittadini e ai popoli-nazione: quei poteri senza i quali nessuna politica è possibile e tanto meno quella invocata da te.

Vorrei che i sardi ottenessero quello che gli manca per stare nel mondo con gli stessi limiti, ma anche con le stesse capacità di contrastarli e superarli che hanno gli altri cittadini italiani ed europei; vorrei che godessero delle stesse possibilità degli altri, degli stessi diritti, vorrei che potessero decidere della loro vita liberamente, guardando al futuro senza gli ostacoli e i vincoli messi da altri in aggiunta ai pesanti vincoli naturali e storici, ambientali e culturali ereditati dal passato, vorrei che fossero liberi di cedere o resistere alle tendenze secondo i loro punti di vista e non secondo le prescrizioni di una maggioranza che li esclude anche se non li opprime. Seguendo le tue metafore,  vorrei mettere insieme Prometeo ed Epimeteo. Dico questo non guardando al passato, alla politica di potenza, al vecchio nazionalismo ripetutamente evocato, ma guardando all’oggi e al futuro con categorie concettuali, motivazioni e aspirazioni che non si discostano più di tanto dalle vostre.

3ª voce: autonomista

Ma per tutto questo non c’è bisogno dell’indipendenza.

2ª voce: sovranista

Per non essere frainteso chiarisco ancora una volta che io penso al riconoscimento del nostro diritto a essere nazione-Stato non come valore assoluto, risolutivo di per sé dei problemi, ma come fatto politico, come premessa necessaria per la realizzazione di un fine che non è lo Stato in sé ma la possibilità di continuare a essere noi stessi nel tempo, in un tempo che si presenta sempre più esposto a una espropriazione colonizzatrice di quel che resta della nostra identità nel complessivo patrimonio materiale e immateriale presente in Sardegna. La nostra posizione si alimenta delle categorie del nuovo umanesimo del quale tu parli. La creazione dello Stato-nazione serve non tanto per resistere ai vecchi poteri ma soprattutto per affrontare quelli nuovi, più insidiosi come tu hai detto, senza confini, senza vincoli e senza regole, compresi i poteri della “tecnica” che lasciata senza vincoli né controlli, anche noi consideriamo non inoffensiva ma pericolosamente invasiva, perché tende a sostituire in tutto e da per tutto la politica e ad indebolire la democrazia a tutti i livelli. A me sembra che la coincidenza tra nazione e Stato, cioè tra soggettualità socio-culturale-territoriale  e soggettualità istituzionale-politica, possa costituire un elemento di grande aiuto per difenderci dal prevalere della tecnica, della finanza  e di tutti gli altri poteri che operano al di fuori e contro la democrazia e la politica.

3ª voce: autonomista

In parte concordo, in parte dissento.La tecnica si è staccata dalla società e corre più veloce della politica. È anche per questa ragione che questa non riesce più a realizzare una governabilità all’altezza dei tempi e delle attese. Non è facile controllare la tecnica e forse non è neppure opportuno condizionarla alle esigenze della politica. In più, mentre la tecnica può correggere rapidamente i suoi errori, la politica non può fare altrettanto,  e i suoi ritardi, oltre che i suoi errori, si riflettono sulla società nel suo insieme. Come anche voi avete detto,  diversamente dal XIX e dal XX secolo non è più la politica a progettare il futuro ma la tecnica.

Il Prometeo moderno si è illuso di usare la tecnica per rendere il futuro indipendente non dagli dei ma dall’intera natura, convinto di essere il dominus mentre invece è costretto a subire le conseguenze di un processo che per la prima volta si è liberato dal controllo umano, è diventato autonomo e autosufficiente,  si autoalimenta, si autogoverna e si autoprogramma. L’uomo concorre ancora al processo con la sua intelligenza, elabora strutture sempre più complicate e complesse che poi però non governa, non domina, ma ne è dominato. Questo è dunque il problema. Prometeo dovrà lasciare il campo ad Epimeteo, cioè affidarsi all’esperienza se non vuole che il mondo diventi sempre più post-umano. Tutto questo non può lasciare indifferenti coloro che vedono la democrazia e i suoi princìpi fondamentali in pericolo. Ma neppure quelli che si sono illusi di dominare il processo con accorgimenti tecnici dimostratisi poi inadeguati.

1ª voce: federalista

Non capisco bene dove vuoi arrivare. Quello che sostieni mi sembra contradditorio.

3ª voce: autonomista

Allora aggiungo, per maggiore chiarezza, che la crisi della democrazia rappresentativa è certamente frutto dell’obsolescenza degli strumenti e delle regole attraverso cui si esprimono le rappresentanze. Ma è soprattutto la conseguenza del rovesciamento nell’ordine del giorno di ciò che è rilevante nei contenuti della politica e delle deliberazioni delle assemblee democratiche rappresentative e prima ancora nei contenuti del dibattito pubblico che accompagna e precede il processo decisionale. La discussione che si è svolta tra di noi non ha chiarito questo dubbio e ha lasciato in campo entrambi i punti, quello istituzionale e quello dei contenuti, quello della forma e quello della sostanza. Io sono convinto che il problema più urgente o la malattia più grave sia la crisi dell’ordine del giorno, cioè l’incapacità del sistema democratico-rappresentativo di individuare non tanto le priorità strumentali ma le materie da affrontare nel processo decisionale, senza le quali è inutile innovare la strumentazione e le istituzioni, lasciando al centro dell’agire politico e all’ordine del giorno delle istituzioni e della politica un’agenda di materie e di contenuti che non affrontano i problemi di fondo della democrazia e della libertà dell’uomo di oggi.

Se il male, il difetto che causa la crisi sta nel non saper individuare i nuovi contenuti, tutto il nostro affannarci sulle riforme costituzionali e istituzionali non può essere risolutivo, perché lascia intatta proprio la causa che sta all’origine della crisi. Con questo non voglio negare la necessità di procedere anche con le giuste riforme costituzionali e istituzionali. Anzi, penso che cambiare in parte l’assetto dei soggetti sovrani, dei quali gli eletti sono gli operatori protagonisti, sia necessario per seguire i  problemi e le questioni che si sono ridistribuite e ridislocate, alcune nel livello inferiore altre nel livello superiore a quello statuale tradizionale.

2ª voce: sovranista

Ma è quello che dico anch’io.

3ª voce: autonomista

Si, ma solo in parte. Per essere efficaci e riempire il vuoto lasciato dalla crisi politico-istituzionale le risposte devono tener conto di questa nuova dislocazione, che però non condanna il vecchio ordinamento autonomistico della Repubblica ma semmai ne chiede la correzione, l’aggiornamento, la riforma. A sposare questa linea mi porta anche il convincimento che mentre il processo di riforma generale della politica sarà lungo e complesso, la riorganizzazione delle istituzioni e il riordino delle loro funzioni e delle loro competenze può avere tempi ragionevoli. Perciò la prima cosa da fare è, a mio giudizio,  ridare al centro quello che è del centro, cioè dello Stato centrale, e alle autonomie quello che è del livello territoriale, locale e regionale. Questo vuol dire in un certo senso rovesciare il sistema attuale trasferendo alla competenza statale centrale tutto ciò che concorre a definire la cittadinanza e lasciando in capo alle autonomie tutto ciò che attiene all’identità e che costituisce il patrimonio materiale e immateriale di ciascun territorio e di ciascuna comunità.

Con questo passaggio solo apparentemente formale si rinsalderebbe la coesione politica nazionale e si darebbe largo spazio alle rivendicazioni identitarie senza rompere l’unità del paese, senza mortificare le identità locali e regionali e soprattutto senza creare diseguaglianze nella fruizione dei diritti di cittadinanza, che sono il vero nucleo concreto  dei principi generali della democrazia liberale rappresentativa e solidale. Questa nuova dislocazione porterebbe anche a ridurre la crisi fiscale,  perché chiarirebbe le responsabilità del prelievo, le sue motivazioni e il suo impiego. Ma tutto questo sarebbe inutile senza riforma della politica, di cui ho parlato prima a lungo.

1ª voce: federalista

Anch’io prima di concludere voglio aggiungere qualche altra considerazione. Il federalismo al quale io penso è un’utopia concreta, che per realizzarsi ha bisogno che prima ci siano profondi aggiornamenti nella struttura concettuale, nel linguaggio della politica, nelle modalità di gestione dei processi che hanno ricadute su molti Stati. La concezione della sovranità nazionale, che non tollera ingerenze, andrebbe corretta  nel senso di una maggiore apertura al giudizio dell’opinione pubblica mondiale più volte evocata, andando oltre le alleanze economiche e militari, i rapporti di collaborazione e di scambio e persino oltre l’attuale base culturale generale per consentire sia una partecipazione politica più incisiva di tutti nelle questioni di carattere generale che non riguardano i singoli Stati ma la condizione umana.

Si tratta di realizzare e non solo di riconoscere il diritto di ingerenza democratica, e non solo militare, nella vita di altri Stati quando sono in discussione questioni di rilevanza generale. Il principio di sovranità più che restringersi a una popolazione e a un territorio sempre più piccoli e chiusi nei vecchi recinti della nazionalità dovrebbe allargarsi sempre di più fino a coinvolgere in una comune responsabilità democratica tutto il mondo, l’intero genere umano. Solo così quella che è stata definita la “società globale del rischio” può uscire dalla crisi che la rende sempre più inquieta perché non riesce a governare i fattori che sono la vera causa del rischio, e che sono tutti o quasi tutti interni alla sfera di attività dell’uomo che è diventata sempre più interdipendente e globale. Per concludere con una formula dirò che mi considero sardo, italiano ed europeo ed aspiro a diventare cittadino del mondo.

2ª voce: sovranista

Si può allargare l’orizzonte anche senza mortificare l’appartenenza, che io ritengo insostituibile, a una comunità o a un luogo più ristretto e definito nei suoi confini e nella sua natura. Il federalismo mondiale di cui parli non può funzionare senza quella dimensione più ristretta nella quale si svolgono gran parte dei rapporti non solo produttivi e di scambio materiale, ma anche culturali, religiosi, artistici, e in generale la maggior parte delle relazioni umane.

Ma anche per ricondurre la tecnica sotto il dominio umano è necessario che oltre alle istituzioni di governance globale continuino ad operare le strutture istituzionali di governo a livello delle comunità che si riconoscono come popolo-nazione. La ridislocazione di tutto l’universo delle attività umane di cui parli, non ha messo in crisi il livello comunitario di base quanto piuttosto il livello rappresentato dallo Stato attuale nato da una forzatura, da una pretesa di riunire sotto le stesse bandiere e sotto le stesse leggi popoli, storie, tradizioni e interessi diversi.

La crisi della democrazia rappresentativa, dei suoi strumenti sovrani, e soprattutto dell’ordine del giorno della politica, nasce proprio dall’inattualità del vecchio regime. Non è in crisi il fatto che un soggetto istituzionale è comunque necessario per dar voce a una comunità, ma piuttosto quel tipo di soggetto sperimentato per più di due secoli, che è giunto al termine della sua vita ma che non vuole morire, sino a prolungare una lenta inarrestabile agonia che non ha senso e rappresenta a suo modo un accanimento terapeutico che accresce la sofferenza e non serve a curare la malattia. Perché allora allungare inutilmente e dolorosamente i tempi, visto che il vecchio Stato deve comunque morire? Anch’io aspiro a diventare cittadino del mondo, ma prima di tutto  mi considero “unu sardu logudoresu”.

3ª voce: autonomista

Aggiungo anche io qualche battuta. Il vecchio Stato non è morto e non è neppure in agonia. Sono gli strumenti, le modalità, le forme espresse dalla politica tradizionale che sono diventate obsolete, inutili, inefficaci e qualche volta dannose perché,  ripiegate su sé stesse, non colgono i cambiamenti e non rispondono alle domande che salgono dalla società.

Ritengo illusorio, se non pericoloso, abbandonare le conquiste della democrazia liberale rappresentativa nel campo del diritto, ma anche della cultura, dell’arte, della scienza e soprattutto di quel vasto campo che comprende i diritti umani, la libertà, l’uguaglianza e la giustizia, la tolleranza, il rispetto della dignità della persona umana, l’inclusione progressiva degli esclusi, dei disagiati, dei portatori di deficit, degli emarginati e di tutti quelli che non appartengono ai ceti e ai territori privilegiati dalla natura e dalla storia. Tutto quanto è stato conquistato in questo terreno è anche merito delle strutture istituzionali e delle politiche nazionali. Aggiornare, adeguare, riformare, ammodernare, cambiare non vuol dire distruggere o far morire , ma semmai ridar vita e vigore a soggetti che sono ancora validi come io ritengo sia uno Stato fondato su princìpi generali e su strutture istituzionali come quelle contenute nella nostra Costituzione repubblicana.

Seguendo il vostro esempio dirò che anch’io aspiro ad essere cittadino del mondo, ma mi considero prima di tutto cittadino italiano di nazionalità sarda e tale voglio continuare a essere.

One Comment

  1. Bustianu Cumpostu

    Mi paret chi s’autonomista e su sovranista siant solu ispallas de su federalista, ma su libru est de gabale su matessi, puru si totu s’arregioni apo s’impressione siat fatu intro una gabia da umbe ne Prometeo e ne Epimeteo resessint a si liberare.

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