La vera storia del dissesto di Banca Etruria [di Fabio Pavesi]

Banca Etruria

Lettera 43. 27 agosto 2018. Dalle enormi sofferenze nei bilanci all’incetta di Btp per celare le perdite sui crediti malati, fino alla vendita dei subordinati ai piccoli risparmiatori. Uno scandalo che Vigilanza e Consob tardarono a vedere.

Quando l’11 febbraio del 2015 i funzionari di Banca d’Italia interruppero la riunione del Cda e invitarono l’intero vertice a togliere il disturbo, commissariando l’istituto, la Banca Popolare dell’Etruria era tecnicamente fallita. Semplicemente perché con le nuove maxi-perdite rilevate dagli ispettori della Vigilanza la banca non aveva più un briciolo di capitale. È quanto emerse a suo tempo da un verbale ispettivo di Via Nazionale.

Un j’accuse duro e inquietante che narrava di una gestione più che disinvolta dell’istituto aretino più volte rilevata da Bankitalia che sottopose la banca a più ispezioni almeno dal 2012, tutte chiusesi con rilievi di forte criticità, culminate con una sanzione al Cda e ai sindaci per oltre 2,5 milioni di euro nel settembre del 2014.

Nulla però cambiò, nonostante le richieste pressanti, né durante né dopo, tanto da condurre la banca dell’oro al capolinea amaro del commissariamento. Forse tardivo, di certo inevitabile. Ecco cosa trovarono gli ispettori tornati ad Arezzo a metà novembre del 2014 dopo le sanzioni comminate a fine settembre. La task force della Vigilanza rilevò una banca agonica. La perdita d’esercizio a fine 2014 esplose a 517 milioni di euro, dopo che Bankitalia impose svalutazioni su crediti malati per oltre 600 milioni.

Una pulizia drastica di un bilancio che aveva tenuto in vita artificiosamente prestiti che non sarebbero più rientrati. Quella perdita (l’ultima) ha finito per azzerare il patrimonio netto che ammontava a poco più di mezzo miliardo. Per gli ispettori il deficit di capitale aveva toccato i 590 milioni e i requisiti patrimoniali necessari a operare erano scesi a un misero 0,66% di Cet1. Il nulla. Patrimonio dissolto definitivamente.

Ma la distruzione patrimoniale di Etruria è solo l’epilogo drammatico di una gestione non certo assennata e densa di conflitti d’interesse. Proprio su questo punto Bankitalia scoperchia il vaso di Pandora. I 13 ex amministratori e i 5 ex sindaci cumulano 198 posizioni di fido a loro concessi per ben 185 milioni. Ne vengono utilizzati 142 con perdite per la banca di 18 milioni. Non solo. Di questi soldi dati agli amministratori ben 90 milioni finiscono tra i prestiti in incaglio e sofferenza. Non verranno cioè restituiti. Fanno parte di quel lento accumulo di prestiti malati che sono la vera croce per l’istituto.

Nel mezzo dell’ultima ispezione conclusasi con il commissariamento gli ispettori della Vigilanza rilevarono una vera e propria montagna di crediti cattivi. Il totale ammontava a fine 2014 alla cifra record di 3 miliardi. Un record assoluto nel sistema bancario italiano dato che valeva il 40% degli impieghi dell’istituto aretino. Di questi 3 miliardi ben 2 miliardi, scrivono allora gli ispettori, sono sofferenze. Da sole valgono più di 3 volte il capitale della banca. Capitale fittizio dato che con le svalutazioni imposte il patrimonio un attimo dopo è del tutto polverizzato.

Negli ultimi 5 anni consiglieri e sindaci incassano oltre 14 milioni di euro, mentre la banca da loro gestita cumula perdite per quasi 300 milioni. Ma in questo percorso di lenta distruzione della banca cosa fanno gli ammistratori? Sembrano non accorgersi della gravità della situazione. Nel periodo 2013-2014 quando la banca è già nel mirino di Bankitalia vengono spesi in consulenze ben 15 milioni di euro: incarichi vengono forniti sulla stessa materia a diversi professionisti.

Non solo: la banca continua a largheggiare nei compensi ai suoi vertici. Negli ultimi 5 anni consiglieri e sindaci incassano oltre 14 milioni di euro, mentre la banca da loro gestita cumula perdite per quasi 300 milioni, prima dell’epilogo finale cui si sommano altri 500 milioni.

Gli amministratori pensano ad altro. Se i crediti malati sono il vulnus dell’istituto si dovrebbe intervenire con forza. Tale e tanto è il disinteresse che addetti al recupero crediti ci sono, come dettaglierà il rapporto, solo 19 dipendenti. Sono l’1% del totale dei dipendenti.

Dovrebbero smaltire 650 pratiche a testa, quando l’ennesima società di consulenza (ovviamente ben remunerata) spiega che una gestione efficace implica che ogni addetto non debba avere più di 250 pratiche a testa. E poi c’è l’affaire dell’offerta di acquisto a 1 euro per azione della banca (quando il titolo valeva 75 centesimi da parte della Popolare di Vicenza. È probabile che per come sono poi andate le cose a Vicenza quell’offerta non avesse dietro di sè i soldi necessari, ma è un fatto che il vertice della banca respinse sdegnato la proposta.

Nel 2013 i soci furono chiamati a un aumento di capitale da 100 milioni per un valore dell’azione a 60 centesimi. E l’ex presidente Giuseppe Fornasari aveva commentato: «Un’ulteriore conferma del fatto che rappresentiamo a pieno titolo il ruolo di Popolare di riferimento del Centro Italia e di banca solida, dal corpo sociale coeso». Un’enfasi del tutto fuori luogo, visto quel che è accaduto.

Ma il film di Etruria è davvero un film dell’orrore. Vediamo cosa fece la banca per mascherare lo stato di dissesto e come le autorità arrivarono tardi e male a fermare lo scempio. Veniamo ai bond subordinati venduti alla clientela indiscriminatamente. Ancora dai bilanci dell’Etruria si poteva leggere già allora di una forte disintermediazione della raccolta obbligazionaria (tra cui i subordinati) dalla clientela istituzionale (cioè altre banche e investitori qualificati) ai privati cioè ai clienti-soci. Si vendono bond non più a chi è in grado di apprezzarne bontà ed eventuale pericolosità ma al retail in cerca di rendimenti più alti.

Nel bilancio del 2013 la banca scrive che «non ha rinnovato bond istituzionali in scadenza nel 2013 per 125 milioni e ha anticipato per altri 161 milioni il riacquisto di bond dalla clientela istituzionale che scadranno in futuro». Ma l’Etruria non può permettersi di farsi mancare forme di finanziamento. La crisi è già palese e il patrimonio scricchiola.

E allora la ricetta è semplice: si compensa il venir meno di questa fonte di denaro con i piccoli risparmiatori cui vengono proposti i bond di casa tra cui ovviamente i subordinati. La scelta viene enfatizzata con un termine astruso ma chiarissimo nei suoi intenti: «La granularizzazione della raccolta», così scrive la banca nel bilancio. Non più pochi soggetti professionali ma la disseminazione a pioggia di piccoli importi sui singoli clienti.

Una pratica avviata in realtà con forza già nel 2012, l’anno in cui si decide la nuova strategia. E perchè proprio quell’anno? Nel febbraio 2012 l’Etruria rigetta l’agenzia Fitch che ha assegnato alla banca un rating (speculativo) di BB+, il peggiore tra tutte le medie banche italiane. La motivazione è che il rating non serve perché la banca decide di non rivolgersi più al mercato istituzionale nella vendita delle sue obbligazioni.

Costerebbe troppo in termini di rendimento chiesto, dato il pessimo rating. La banca però, che ha già oltre 230 milioni di subordinati sul mercato, non può permettersi di rinunciare tout court a nuovi collocamenti. I subordinati aiutano a incrementare i requisiti di patrimonio che verranno messi a dura prova dalla montagna di crediti in sofferenza. Fitch dimostrò che i crediti malati già a fine 2011erano il doppio rispetto alla media delle altre banche. Gli investitori professionali lo sapevano e sapevano che il rischio era alto e richiedevano rendimenti almeno sopra il 7%.

Nella storia della bancarotta dell’istituto di Arezzo c’è anche la dissimulazione via Btp. La banca arrivò infatti a detenere titoli di Stato per metà del suo bilancio. Un’anomalia profonda. Ecco allora la soluzione. Si sposta la vendita sulla piccola clientela. Tra l’altro offrendo rendimenti non certo da leccarsi le dita. La subordinata 2013-2018 aveva una cedola lorda di solo il 3,5%.

Ma non finisce qui. Ad aprile del 2014 ecco lo stop al riacquisto di tutti i subordinati della banca sul mercato secondario. Cioè Etruria smette di riacquistare da chi volesse liberarsene i propri bond subordinati e in un comunicato spiega che valuterà, nell’interesse dei clienti, forme alternative di smobilizzo. Sta di fatto che chi ha comprato è bloccato.

Quel che è avvenuto è scritto nero su bianco. Si dirà che molte banche hanno disintermediato dagli istituzionali al retail. E ha una sua logica convenienza. Ma per le banche in salute. Etruria era già pericolante e soprattutto l’aver rifiutato il rating l’ha messa nelle condizioni di ricorrere solo ai piccoli clienti.

E nella storia della bancarotta dell’istituto di Arezzo c’è anche la dissimulazione via Btp. La banca arrivò infatti a detenere titoli di Stato per metà del suo bilancio. Un’anomalia profonda. Vediamo perché e a cosa serviva.

Il record nell’incetta di Btp arriva a fine 2013 quando l’istituto aretino giunge a detenerne oltre 7 miliardi nel suo portafoglio.

Detta così non dice molto, ma quei 7 miliardi valgono ben metà dell’intero bilancio della banca. Tanto per dare un’idea di confronto, è come se Intesa si fosse comprata da sola la bellezza di 300 miliardi di bond governativi italiani. Uno sproposito per una piccola banca locale deputata a fare credito sul territorio.

E quell’incetta di Btp non era un incidente di percorso, ma una strategia ben mirata per sostenere il più possibile i ricavi, fortemente erosi dalle svalutazioni dei sempre più ingenti prestiti malati. Si inizia a fine 2011 a comprare a più non posso bond del Tesoro.

A fine di quell’anno ammontano a 2,1 miliardi, cifra già consistente. Poi il boom: a fine 2012 si sale a ben 5,4 miliardi per poi raggiungere il tetto dei 7 miliardi nel 2013. Un incremento monstre: un sonoro +230% di acquisti. La banca locale si trasforma in una piccola Goldman Sachs: ha attività finanziarie (i Btp) a rischio basso o zero che equivalgono al portafoglio impieghi. Un primato. Tutte le banche, chi più chi meno, hanno comprato titoli del Tesoro, ma nessuna banca italiana ha quel livello di Btp così ingente sul suo bilancio.

Quell’amore per i titoli pubblici italiani ha una precisa ragione, o meglio è un segnale, per chi lo sa leggere, inquietante sullo stato di (mala)salute della banca aretina. Lo shopping forsennato serve infatti a fare proventi straordinari che compensino la brusca impennata delle perdite sulle sofferenze.

Già perché la banca si sta avvitando pesantemente da tempo. Solo i crediti deteriorati netti infatti passano da un miliardo del 2011 a 1,4 miliardi del 2012 per salire infine a 1,6 miliardi già nel 2013. E sono quelli al netto delle rettifiche che si cominciano a fare pesantemente solo a fine del 2012.

I crediti lordi sono a quote molto più alte: solo nel 2013 arrivano a pesare per oltre 2,5 miliardi. Moltissimo per una banca che ha impieghi totali per 6,8 miliardi. Oltre il 30% del portafoglio è in condizioni di cattiva salute. Si prepara quindi il terreno a fortissime perdite dopo il buco da 200 milioni del 2012.

E grazie ai maxi-acquisti di Btp la banca guadagna ben 130 milioni di ricavi, un terzo dei ricavi complessivi. Senza l’«operazione Btp», che sarà poi bocciata da Bankitalia che costringerà la banca a vendere parte dei titoli, il buco di bilancio nel 2013 sarebbe stato di almeno 200 milioni e non di soli 74 milioni come avvenne.

E così l’Etruria finiva per “mascherare” l’emergere delle vere perdite legate al portafoglio prestiti che presenterà prima del commissariamento ben 3 miliardi di crediti malati. La caccia al Btp andava letta come un pessimo segnale delle condizioni dell’istituto che proprio in quegli anni collocava sul mercato retail, dei suoi piccoli clienti, le obbligazioni subordinate dopo aver deciso di non ricorrere più agli istituzionali.

A loro sarebbe bastata un’occhiata per evitare di comprare bond dell’Etruria. In questa storia, come si vede, i segnali di malessere se non di vera e propria crisi strisciante erano tali e tanti da far drizzare le orecchie a molti osservatori del mercato.

Le anomalie sugli acquisti di Bond pubblici; le mancate svalutazioni dei crediti malati. Il ricorso al pubblico retail per piazzare i rischiosi subordinati pena l’emergere del deficit di capitale. Insomma i segnali erano inequivocabili e per molti aspetti erano scritti nero su bianco nei documenti pubblici della banca.

Ecco perché nonostante il pressing, gli interventi dei regolatori e della Vigilanza del mercato sono apparsi e continuano ad apparire tardivi e con scarsi effetti. Occhi semi-chiusi o meglio assonnati. Vaglielo a dire oggi ai clienti e risparmiatori truffati che hanno perso i loro denari nel falò della banca.

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