Il filosofo Remo Bodei: “Serve una classe dirigente che non dica solo sì al capo” [di Nicola Mirenzi]
L’ Huffpost post 04/03/2018. La campagna elettorale? “Parrocchiale, ripiegata su questioni italiane”- Nello schermo dell’attualità, il futuro si ferma a dopo domani: “Svanita la visione della storia, i grandi orizzonti del cambiamento si sono ristretti sino al punto di essere contenuti nello spazio di un elenco di promesse, ovvero piccole utopie vendute a prezzi stracciati”. Quando Remo Bodei aveva nove anni e non era ancora diventato un filosofo e un professore all’Università della California suo padre lo portò in piazza Carlo Felice, a Cagliari, ad ascoltare il comizio di Palmiro Togliatti e, poi, quello di Alcide De Gasperi: “Si affacciarono entrambi da un balconcino. Piccoli piccoli di fronte a quella folla enorme di persone. Era la campagna elettorale del 1948 e io ero troppo giovane per capire cosa dicevano. Però, era chiaro che quelle persone non si erano radunate lì solo perché avrebbero dovuto votare a breve”. Settant’anni dopo quella battaglia tra chi nel piano Marshall individuava – oltre che un aiuto economico decisivo – una scelta per i valori del mondo occidentale (la Democrazia Cristiana) e chi, invece, denunciava un cedimento e una sottomissione a una potenza straniera, evocando un altro sistema possibile (il Fronte Popolare), la competizione non si gioca più sul terreno dell’avvenire, ma su quello dell’immediato: niente progetti di società, spazio alle misure – cosiddette – concrete: flat tax, reddito di cittadinanza, abolizione della legge Fornero, università gratuita, salario minimo, la stabilità, gli italiani prima di tutto: “È stata una campagna elettorale parrocchiale, ripiegata su questioni italiane, solo con qualche raro riferimento all’Europa: come se l’immigrazione, il mercato globale, l’erosione delle sovranità classiche della democrazia, non fossero grandi trasformazioni del mondo intero, di cui il discorso politico dovrebbe tener conto”. Studioso, tra le altre cose, delle teorie utopiche, di cui è un conoscitore enciclopedico, Bodei è convinto che le utopie, dichiarate incessantemente morte e sepolte dopo la caduta del muro di Berlino, sopravvivano ancora: “L’uomo, come diceva Spinoza, è un animale desiderante e non smetterà mai di essere attratto da ciò che gli manca. I grandi disegni di cambiamento politico si sono miniaturizzati in sogni nel cassetto individuali. Ciascuno di noi, personalmente, si ritaglia un piccolo spicchio di cielo. La politica, invece, promette misure mirabolanti, come nei centri commerciali si annunciano saldi eccezionali, compensando con l’enfasi dell’annuncio un’impotenza, che è anche finanziaria ed economica”. Erano meglio le astrazioni collettive? La concretezza è stata mitizzata. Anche la fisica, che è una disciplina che si occupa della materia, si serve di astrazioni. Ogni legge deve prescindere dal singolo caso concreto per poter essere enunciata. Dopodiché, il fisico andrà a calcolare – nello specifico – qual è l’attrito di una pallina che scivola su una pelle liscia. Ma la legge deve essere universale. È così anche nella politica? Quando Tommaso Moro, Bacone e Campanella scrissero a proposito delle utopie, le immaginarono come il regno della giustizia e dell’uguaglianza, non della felicità. Questi sistemi perfetti erano stati creati in isole sperdute in mezzo al mare, che alcune persone avevano raggiunto dopo aver perso la rotta. Insomma, non esistevano nella realtà: esistevano per giudicare la realtà. Quando diventarono dei sogni da realizzare? Il cambiamento avvenne nel 1771, quando Louis-Sébastien Mercier scrisse un romanzo – “L’anno 2440” – in cui la società perfetta non era più collocata in un luogo geograficamente irraggiungibile, ma in un tempo della storia molto, molto lontano. Non era la stessa cosa? No, perché i giacobini francesi, servendosi di questo testo, cambiarono il senso dell’utopia, facendola entrare nella storia. Come? Rousseau, nell’Emilio, aveva scritto che l’uomo era nato buono e che era stata la società a corromperlo. Dunque, per Robespierre, Saint-Just e gli altri, si trattava di rovesciare il sistema esistente come premessa per poter finalmente realizzare – nel futuro – la società libera e giusta. Il regno della felicità divenne solo una questione di tempo. Non ci riuscirono però. Riuscirono a canonizzare un modello che, dalla Rivoluzione francese fino a quella bolscevica, fu seguito da tutti coloro che hanno aspirato a cambiare radicalmente il mondo. Perché fallirono? Dopo la fine dell’Unione Sovietica, si è scritto che non si può portare il cielo in terra; che l’idea di creare un uomo nuovo produce sempre, immancabilmente, dei disastri; che le ideologie sono finite. Non è così? No, l’ideologia capitalista, per esempio, è viva e vegeta. Lei quando conobbe le altre? A diciotto anni mi iscrissi al partito socialista, che in Sardegna era legato al partito d’Azione di Emilio Lussu, uomo ieratico, serio da far paura. Il partito non serviva solo a raccogliere voti, era una banca che emetteva valori, riferimenti etici e morali, coinvolgendo l’individuo e la sua vita. Fino a che punto? Fino al punto di essere pronto a morire. Quando spararono a Togliatti, nella sezione del partito comunista sotto casa mia (era intitolata a Giuseppe Stalin), i militanti erano pronti ad agire, aspettavano solo il via. La sua era una famiglia di sinistra? Mio nonno materno fu uno dei primi missionari del socialismo tra i minatori sardi. Erano idee che attecchivano soprattutto nella provincia di Cagliari, dove l’assenza di una politicizzazione parlamentare, aveva dato maggiore spazio a visioni ingenue, palingenetiche. Lei, invece? Andai a studiare fisica a Roma. Un giorno, mentre andavo con un libro di musica a lezione, un gruppo di fascisti del Fuan mi fermò e mi ordinò di cantare. Da buon sardo, rifiutai. E mi riempirono di botte. Stanno tornando quei fascisti? L’estrema destra è stata sdoganata. Una grande responsabilità la hanno anche coloro i quali – come Salvini, che pure non credo aspiri al fascismo – hanno rinfocolato il nazionalismo e il sovranismo. È qualcosa che abbiamo già visto negli anni Settanta? Non è la stessa cosa. I centro sociali, oggi, vanno a nozze con l’emergenza del nuovo fascismo. È un modo, per tutti i black block, di darsi appuntamento nelle piazze e scatenare la violenza. Perché non è la stessa violenza? Perché negli anni settanta la violenza politica nasceva dentro dei grandi movimenti di massa. Oggi si produce nel vuoto della politica. È isolata. Assomiglia alla violenza degli ultrà di calcio. Cosa aveva di più il 68? Ero a Pisa quando esplose (nel frattempo, dopo le botte dei fascisti, avevo fatto il concorso alla Normale per iscrivermi a Filosofia, e l’avevo superato). Ero amico di Adriano Sofri. Ma, quando durante le manifestazioni, i poliziotti schierati venivano colpiti dalle uova e vedevo colare sul loro viso, sulle loro uniformi, il tuorlo e l’albume, mi veniva da stare dalla loro parte. Poi? Con gli anni, ho capito che in ogni movimento c’è qualcosa di eccessivo che, lentamente, si calma. Il sessantotto ha creato una gerarchia di capi e capetti. Ma è stato anche un fattore di fluidità sociale, un contestazione di gerarchie rigide e arbitrarie. Ha mai dato il 18 politico?Una volta, di fronte al mio rifiuto di dare un voto collettivo, uno studente si avvicinò e citò una frase di Lenin. Io risposi con Gramsci, che diceva: “Studiate”. L’era dell’incompetenza è nata allora?Anche i cinque stelle, oggi, si sentono in dovere di proteggersi da questa accusa e infatti cercano di nominare come ministri persone che hanno tutti i titoli di studio in regola. Che pensa degli intellettuali in politica?Dall’intellettuale organico, siamo passati all’intellettuale che fa parte dello star system ed entra nelle liste così come potrebbe entrarci un calciatore. Conta la loro riconoscibilità mediatica. Non la loro cultura. Sono come trofei da esibire davanti all’opinione pubblica. Come dovrebbe essere, invece? Il sapere dovrebbe smettere di essere completamente staccato dal potere. Lo è? Un editore spagnolo mi ha raccontato che ha dovuto chiudere la sua libreria di fronte al parlamento di Madrid. Nessuno andava più a comprare dei libri da lui. È così anche in Italia? Così mi hanno raccontato. Vie d’uscita? Una classe dirigente che sia capace non dire solo sì al capo. |
Per avere una classe dirigente che non dica solo e sempre sì al capo serve prima di tutto la legge sui partiti politici secondo l’articolo 49 della Costituzione. Solo così potremo avere dei partiti veramente democratici al loro interno. Qui e ora, l’unico partito che si avvicina a questo dettato è il Partito Democratico. Così com’è non va bene. Ma con un bel po’ di cambiamenti potrebbe rendersi adeguato allo scopo: rappresentare nello stesso tempo sia l’opposizione, che è necessario ci sia, ma anche e soprattutto la possibile alternativa programmatica reale valida e credibile alla situazione attuale. Quindi …
Come deve cambiare il Partito Democratico?
Prima di tutto deve diventare (o tornare ad essere) un partito aperto, trasparente e partecipato. Ciascun iscritto, simpatizzante, oserei dire ciascun cittadino dovrebbe poter comunicare con esso su qualsiasi tema riguardante la vita pubblica. Sarebbe anche suo interesse, se davvero vuole essere quello che ha detto di voler essere, fin dalla nascita. Cioè, il partito del cambiamento.
Ma non cambiamento fine a sé stesso. Cambiare tanto per cambiare. Deve proporre un nuovo modello di sviluppo, basato sulla compatibilità ambientale (non bisogna consumare più risorse di quante la natura sia in grado di rigenerare), basato sulla qualità piuttosto che sulla quantità e sul riutilizzo delle risorse attraverso una più efficiente raccolta differenziata e la produzione di quelle che vengono ormai comunemente chiamate materie seconde. Deve proporre anche un nuovo modello di società, basato sulla solidarietà tra le persone, che non lasci davvero nessuno indietro. Bisogna smetterla di pretendere di misurare tutto sulla base della crescita del PIL. Spesso si tratta di contabilità puramente teoriche, astratte, sulla carta, cui non corrispondono delle realtà concrete.
Con la segreteria Renzi, il PD era diventato piano piano un partito blindato, chiuso alla partecipazione dei non conformisti, di coloro, cioè, che non osannavano il leader, ma anche semplicemente alla partecipazione di quella che comunemente chiamiamo base, comunque la pensi.
L’Unità era diventata solamente un bollettino di partito. Della maggioranza del partito. Aveva smesso di essere un giornale a pieno titolo, come invece era stato in passato, persino quand’era Organo del Partito Comunista Italiano. Lo ha sostituito poi Democratica, giornale on line. Ma il discorso non è cambiato. Venivano pubblicati solo gli scritti degli allineati. Qualcosa è cambiato solo dopo le politiche del 4 marzo. Si è cominciato a pubblicare anche qualche opinione controcorrente. La prima è stata quella di Gianfranco Pasquino. Non ricordo se sotto forma di articolo o di intervista.
Il sito nazionale del Partito ospitava praticamente solo le posizioni della maggioranza (facevano eccezione solo gli interventi negli organismi ufficiali, Direzione e Assemblea Nazionale, perché proprio non se ne poteva farne a meno, di pubblicarli) e la comunicazione e l’informazione avvenivano a senso unico, solamente dal centro verso la periferia, come se si dovesse comunicare il verbo, e mai, al contrario, dalla periferia verso il centro, come se i dirigenti nazionali non avessero bisogno di sapere nulla, non avessero da imparare nulla.
Ricordo che con la segreteria Bersani, pur con tutti i limiti e difetti che poteva avere, nessuno è perfetto (io infatti non lo avevo votato; gli avevo preferito Franceschini che mi sembrava più adeguato alla funzione), si poteva comunicare col vertice, e persino criticare o polemizzare, su qualsiasi argomento.
I miei interessi andavano ovviamente al mondo della scuola. Faccio l’insegnante. Ricordo che si poteva interagire sia con Francesca Puglisi, che si occupava allora di scuola all’interno della segreteria, che con Giovanni Bachelet, che se ne occupava nel forum corrispondente.
Con la segreteria Renzi tutto ciò non è stato più possibile. Le cosiddette riforme calavano tutte dall’alto. E la loro qualità non era davvero eccelsa. Salvo eccezioni. Mancava una visione d’insieme, complessiva, della realtà. Si agiva per compartimenti stagni. Per settori, nel migliore dei casi.
Posso dire, credo, riguardo alla sedicente buona scuola. Non ha certo cambiato qualitativamente lo stato dell’istruzione in Italia. Non c’è stata una adeguata visione d’insieme, coesa e coerente, dell’intero settore relativo all’apprendimento. Non si ha (aveva?) idea, secondo me, ai vertici del Governo, di quello che si vuole (voleva?) fare e di cosa ci sarebbe bisogno.
Mentre da altre parti in Europa si tende a parlare, sia pure parzialmente, di Learning to learn, imparare a imparare, da noi si continua prevalentemente a pensare che i discenti debbano essere semplicemente dei baskets (cestini) da riempire con dei contenuti preconfezionati. Non si adempie, tuttora, al dettato costituzionale che dice che compito primario dell’istruzione deve essere la formazione del cittadino responsabile e partecipe.
Gli alunni, anche quando non hanno ancora 18 anni, e quindi non possono ancora votare, sono tuttavia da considerarsi dei cittadini a tutti gli effetti, con una personalità loro propria. Non sono degli adulti ancora imperfetti. Questo lo disse anche, non ricordo più in quale occasione, Matteo Renzi. In questo caso sono d’accordo con lui.
Bisogna insegnare agli alunni a pensare, ad avere delle idee, delle opinioni e ad esprimerle nei modi dovuti, rispettando le regole che ci si è dati, parlandosi e ascoltandosi reciprocamente (è sempre dagli altri che impariamo le cose che impariamo; le cose che sappiamo, le sappiamo già; non abbiamo alcun bisogno di ripetercele). Bisogna insegnare loro non solo con le parole ma con buoni esempi, con le buone pratiche. Non bisogna predicare bene e razzolare male. Cosa che spesso succede ai politici. Ma non solo.
Bisogna soprattutto insegnare agli alunni a imparare. Quello che in inglese si chiama Learning to learn. Imparai a imparai, diremmo noi in sardo. L’apprendimento è un’attività interattiva. Non può, quindi essere scollegata dall’insegnamento. I due termini non possono non andare di pari passo. Sono due facce della stessa medaglia. E quando si impara, si impara tutti. Docenti e discenti. Le attività di insegnamento / apprendimento non possono essere quindi a senso unico. Non ci può essere solo il ruolo predefinito di quello che ha il compito solo di insegnare (la fonte del sapere) e non ha più niente da imparare e quell’altro il cui ruolo è solo quello di imparare e non ha mai niente da insegnare. L’insegnamento / apprendimento non può essere qualcosa di statico e di totalmente predefinito. Le attività vanno giustamente programmate. Non ci si può affidare all’improvvisazione. Ma dev’essere flessibile. Se dovesse presentarsi una difficoltà che non avevamo previsto, dobbiamo essere in condizione di poter introdurre delle modifiche. Quando inizi un’attività di quel tipo non sai mai esattamente dove ti porterà. Puoi saperlo solo in parte. E i conti si possono fare solo a s’arragotta, come diciamo noi in sardo.
Compito dell’insegnante dovrebbe essere, secondo me, soprattutto quello di dare degli input. Poi dovrebbe essere la classe, (la comunità dei discenti?), con la supervisione del docente, a sviluppare il tutto e a far progredire la conoscenza. Spesso purtroppo questo non succede. Anzi. Il più delle volte avviene il contrario. Si ritiene che il docente debba essere, o almeno apparire, il depositario del sapere. E il discente debba limitarsi a immagazzinare i contenuti che gli vengono proposti per, eventualmente, riprodurli poi all’ interrogazione, orale o scritta che sia. E quel che è peggio è che la maggior parte degli alunni si è convinta che così debbano andare le cose, che questa debba essere la normalità, l’ordinaria amministrazione. Così va il mondo. Per cui ti guardano un po’ increduli quando dici loro che dovrebbero imparare a pensare, ad avere delle idee, delle opinioni, anche critiche, anche differenti da quelle dell’insegnante.
Altra riforma calata dall’alto è stata quella cosiddetta istituzionale. Quella bocciata dagli elettori il 4 dicembre 2016. Dal mio punto di vista, si trattava di un insieme pasticciato e inadeguato rispetto alle problematiche che si proponeva di risolvere. Per questo motivo il 4 dicembre ho votato NO. Il tutto si sarebbe potuto fare in modo più semplice ed efficace. Condivido gli obiettivi di semplificazione e di diminuzione dei costi della politica. Ma se l’obiettivo era davvero questo, bastava abolirlo tout court il Senato! Si volevano davvero diminuire i costi della politica? Perché allora non diminuire il numero dei deputati fino a 300, massimo 400? Perché non portare i loro emolumenti a 3000/5000 euro netti mensili (che non mi pare una cifra disprezzabile) più rimborsi spesa riguardanti le spese per l’adempimento della loro funzione rigorosamente rendicontati?
Penso anche che il Partito Democratico dovrebbe presentare in Parlamento una nuova legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Basato magari sul numero dei voti, non però sulle percentuali, presi nelle diverse tornate elettorali.
Penso che queste cose, più altre che si potrebbero fare, contribuirebbero a formare non solo una classe dirigente che non sia costituita quasi esclusivamente da yes men, ma anche una popolazione di cittadini responsabili e partecipi e non di followers (sudditi).
Atitolo di esempio, in un servizio televisivo, ho sentito Veltroni, pochi giorni orsono, affermare mussolinianamente “E’ finità l’ora della partecipazione, e arrivata l’ora delle decisioni” e Lei, sig. Scano, individua, ancora, il P.D. quale organismo in grado di proporre e realizzare un minimo di democrazia; pensare altrimenti….
Al P.D., partito ordoliberista, mancano le idee di sinistra, anche quelle più moderate
Sono un inguaribile ottimista. Altrimenti non seguirei la politica.
Io sono per il cambiamento. Anche del PD e della sua attuale linea politica.
Non mi pare che gli altri partiti siano migliori.
Il M5S mi risulta essere una organizzazione centralistica, padronale e autoritaria. Ricordiamo tutti la vicenda delle primarie per le comunali di Genova. La vincitrice non andava bene all’establishment ed è stata sostituita. Non certo con metodo democratico. E potrei fare altri esempi.
La Lega è un modello da seguire? Il suo gruppo dirigente ha utilizzato il finanziamento pubblico per scopi, diciamo, non istituzionali.
Forza Italia? E’ il partito personale del proprietario.
E mi limito a citare solo i principali.
Con ciò, sia ben chiaro, non voglio minimamente giustificare le gravi carenze del Partito Democratico e del suo gruppo dirigente. Ma lo ritengo l’unico che ha almeno i fondamentali, come si direbbe nel calcio. E’ l’unico che, costituzionalmente parlando, possiamo davvero chiamare Partito.