L’assalto alla pace nel secolo della guerra ibrida. Il ritorno della politica di potenza tra Stati nell’èra dei conflitti asimmetrici può generare mostri [di Mario Rino Me]

2-Caoslandia

Limes. Rivista Italiana di Geopolitica. N.9/ 2018l26/10/2018. Nell’articolo qui sotto riproposto mancano le cartine che si possono trovare nel numero della Rivista in Edicola (NdR) .

  1. Nel mondo post-guerra freddadiversi fattori hanno notevolmente ridotto la probabilità della guerra fra Stati: le missioni dei caschi blu, una nuova cultura promossa dalla mondializzazione degli scambi a tutto campo, un crescente ricorso alla giurisdizione internazionale e la rivoluzione digitale. Senza tuttavia che le potenze abbiano rinunciato all’uso della forza per ottenere vantaggi strategici, pratica oggi nota con l’espressione “guerra ibrida“.
  2. Il termine stesso di guerra, che con l’opposto di pace costituisce – stando a Norberto Bobbio– “un tipico esempio di antitesi”, è stato istituzionalmente condannato e socialmente esorcizzato fino alla rimozione lessicale.
  3. L’interdipendenza, in specie economica, ha creato una ragnatela di intrecci politici, diplomatici, industriali, finanziari tale da far sì che le potenze siano ormai divenute troppo grandi per farsi la guerra, per parafrasare una definizione coniata durante la crisi finanziario-economicadel nuovo millennio. Tuttavia, come afferma Kenneth Waltz, “l’interdipendenza è una reciproca vulnerabilità […] accresce l’esigenza di gestire gli affari internazionali ma non produce un gestore capace di farlo […] davanti ai cambiamenti, il problema è quello di prevedere come varierà la possibilità di gestione costruttiva degli affari internazionali da parte delle grandi potenze” [1].
  4. Purtroppo, a dispetto delle aspettative e dei codici, quella “gestione costruttiva” è tutt’altro che migliorata; come nel passato, il perdurare di tensioni e conflittualità del mondo reale dimostra che la sola professione di aderenza a principi universali e al diritto internazionale non implica in automatico comportamenti pacifici. Anticipando i tempi, il generale francese André Beaufre aveva pronosticato vent’anni fa che ci saremmo trovati in un contesto in cui “una lotta mantenuta su un registro minore sarà permanente. Allora la guerra grande e la vera pace saranno entrambe morte” [2]. È andata proprio così.
  5. Dopo la fase bipolare, l’illusione della “fine della storia”, ancorché limitata alla fine delle ideologie, ha avuto breve durata: il mondo reale ha preso un’altra direzione. L’organizzazione simbolo del multilateralismo, l’Onu, è rimasta sempre assertiva sulle tematiche trascendenti. Eppure, sprovvista dagli stessi Stati membri di potere coercitivo, è apparsa in difficoltà di fronte ai rapidi cambiamenti globali. E così quando la soluzione di temi sensibili ha iniziato a interessare forti interessi degli Stati membri, al Palazzo di Vetro sono emersi il disaccordo e lo stallo. Manifestando come l’idea di ordine mondiale incarnata dalle Nazioni Unite sia ormai superata.
  6. In questi frangenti, il processo decisionale diventa complicato e persino inconcludente: difficile quindi immaginare che in sede Onu si possano produrre decisioni capaci di incidere concretamente sul corso degli eventi. Questo guasto strutturale, riconducibile anche e soprattutto alla volontà dei suoi membri, non è purtroppo contemplato nella carta fondativa delle Nazioni Unite. È senza dubbio anche un problema generale di qualità e caratura delle classi dirigenti [3]: la défaillance dell’autorità suprema chiamata a governare gli affari internazionali ingenera un clima di insicurezza e sfiducia tra gli Stati nonché di incertezza e imprevedibilità delle relazioni internazionali. Non a caso il nuovo segretario generale António Guterres, all’apertura della 73ª sessione dell’Assemblea Generale, ha parlato di “disordine da deficit di fiducia” e invocato il “ripristino della solidarietà tra le nazioni”, chiedendo di “riparare la fiducia infranta”.
  7. Due tendenze si stanno intrecciando nel nuovo millennio, in particolare a partire dal tragico 11 settembre 2001. Da un lato si è modificata e ampliata la gamma e la geografia dei rischi e delle minacce, le cui dinamiche evolutive sono divenute sempre più rapide, intrecciate e complesse. Dall’altro, l’incremento delle manifestazioni di tensione internazionale e di conflitto si è saldato con la crisi palese di governo planetario basato sugli Stati.
  8. Oggi campeggia la minaccia non convenzionale di carattere ormai internazionale, come quella portata avanti dalle varie correnti del fanatismo religioso. Mentre l’irruzione sulla scena mondiale di al-Qa’ida nel 2001 ha presentato l’ulteriore novità degli “attori non statuali autonomi” [4] che svincola il quadro conflittuale da una regolamentazione equa. Anche perché, a differenza del passato, quest’ultimo è ora animato da attori sciolti dalle norme comportamentali e vincoli disciplinari che prima imbrigliavano gli Stati.
  9. A rendere il confronto asimmetrico ci pensa l’enorme divario fra i mezzi a disposizione,simbolizzato dall’ordigno improvvisato, confezionato con gadget tecnologici contro il carro di ultima generazione dagli insorti iracheni durante l’occupazione americana. Si tratta di una variazione di non poco conto, che ha cambiato la stessa natura della guerra, passando dalla violenza organizzata e regolata, fino a quella barbarica e gratuita: trucidare per comunicare, come ha fatto lo Stato Islamico, andando ben oltre la trasgressione sistematica.
  10. A peggiorare il tutto, il ritorno in auge della guerra per procura, che mette in risaltoil ruolo degli attori esterni. Nelle aree calde di crisi, una parte di rilievo delle potenze esterne ha riscoperto questo metodo fondato su tecniche di terrorismo e guerriglia messe in atto da attori armati locali e agevolate con operazioni “coperte” dei mandanti. C’è sempre qualcuno che trae vantaggio dalla situazione di confusione. A ben vedere, é una vecchia storia: negli anni Ottanta si ricordano lo scandalo Iran-Contra e quello più noto dell’intervento di Usa, Francia, Italia, Regno Unito in Libano. Quest’ultimo fu ostacolato dalle potenze regionali (Siria e Iran) mediante il ricorso a una lotta strisciante costellata da attentati terroristici condotti da organizzazioni come Hezbollah e altri gruppi, fino a causare il ritiro degli occidentali.
  11. Nel frattempo, oltre alle lunghe “guerre tra poveri” come quella tra Eritrea ed Etiopia, la gamma della conflittualità si è ampliata con la comparsa della “guerra cautelativa” (preemptive war) di provenienza statunitense, concepita contro un attacco imminente ma non ancora sferrato. Contrariamente a quanto avvenuto nella guerra del Golfo nel 1991, quando il presidente Bush padre non si era spinto fino a Baghdad e fu per questo rimproverato dai neoconservatori, l’invasione e il successivo cambiamento di regime in Iraq nel 2003 hanno sconvolto l’intero Medio Oriente, rafforzando il ruolo dell’Iran.
  12. In questo scenario di crisi del multilateralismo e di diffusione della violenza, la guerra è ora diventata “ibrida” e le dimensioni interessate dal conflitto si sono decisamente ampliate [5]. In questo ambito rientrano le teorie di marca cinese (guerra senza limiti) e russa (dottrina Gerasimov) volte al perseguimento degli obiettivi strategici mescolando, fino a confonderle, le linee divisorie tra guerra e politica, combattenti e non combattenti [6]. Nell’epoca della rottura degli schemi esse rappresentano la risposta alla precedente rivoluzione negli affari militari (Rma, nell’acronimo in inglese) che aveva portato gli Stati Uniti alla strabiliante vittoria del 1991 contro l’Iraq. Un successo figlio proprio delle evoluzioni tecnologiche che avevano reso i sistemi di comunicazione e integrazione veri e propri “moltiplicatori di forza” [7]. Oggi, i mezzi della tecnologia dell’informazione e della comunicazione digitale fanno sì che “piccoli gruppi possono finanziare, pianificare, rifornire [di armi] e coordinare attacchi su scala planetaria senza curarsi di leggi e governi” [8]. E ogni ambito della vita, anche quello più neutrale, può essere impiegato come arma o campo di battaglia.
  13. In definitiva, la guerra tradizionale, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra in forme degenerate. Lo sviluppo dei conflitti del nostro tempo sembra seguire lo schema del modello teorico di insurrezione popolare elaborato da Mao Zedong – indiretto, articolato sulla “lotta totale prolungata e di debole intensità militare” e volto all’usura del morale e alla stanchezza del fronte avversario [9]. A mente dell’immagine clausewitziana del camaleonte, la guerra, con il suo marchio tipico inconfondibile dell’aggressione, ha dunque assunto sembianze diverse. A volte meno violente ma altrettanto dannose nei loro effetti, come quelle nei campi economico-finanziario, cibernetico e socio-politico-mediatico, in un possibile mélange di combinazioni varie. Alle tensioni si abbina un incremento generalizzato delle spese militari.
  14. Questo nuovo modo del guerreggiare, marcato dal deliberato rifiuto di limiti e vincoli, segna dunque la dipartita dal bellum “civilizzato” all’occidentale. Il quale, peraltro, con la comparsa di entità non statuali è oramai “senza regole” e alla portata di chi vuole sfidare il sistema in dimensioni diverse, possibilmente inattese, da quelle che l’avversario vorrebbe imporre, forte di una superiorità quasi assoluta.
  15. Con riferimento all’essenza della teoria clausewitziana, possiamo allora dire che nella prospettiva contemporanea che ha visto cadere ogni barriera, dove le alleanze non sembrano più scontate, la guerra appare ora come “continuazione della politica con l’immissione di qualsiasi mezzo”. Dove l’aggettivo indefinito qualsiasi sostituisce quello precedente, altri, che l’autore riferiva sì a mezzi distinti – in specie militari – ma pur sempre contemplati negli ordinamenti sulle relazioni tra Stati. Durante le crisi, i mezzi appartenenti alle categorie del qualsiasi sono invece capaci di ben altro effetto rispetto a quelli tradizionali diplomatico-politico-economici. Volendo fare un paragone storico, si tratterebbe di una condizione analoga all’impiego dei gas asfissianti nella prima guerra mondiale. È vero che la sorpresa, se non si dimostra capace di sortire effetti strategici, dura poco. Normalmente, la vittima prima o poi si adegua e si dimostra capace di rispondere a tono: a quel punto, i contendenti li accantonano e si riprende a guerreggiare come prima.
  16. In questo nuovo contesto, gli scenari di guerra mettono in risalto due aspetti. Primo, la necessità di affrontare la guerra stessa con una gamma allargata di strumenti operativi, come gli interventi “umanitari” del nostro tempo. Secondo, non hanno affatto funzionato i metodi impiegati nella parte significativa della ricostruzione (state o nation building) anche definita“ingegneria sociale”. Ciò accade quando l’intervento armato, anche il meglio intenzionato, è percepito dalla popolazione locale come imposizione con le baionette di un sistema politico estraneo alla cultura autoctona.
  17. Il nodo da sciogliere è costituito ancora dall’individuazione e dall’uso appropriato dei mezzi necessari. In breve, il venir meno di quel potere incorporeo e immateriale, non visibile ma pur sempre presente, definito nella letteratura anglosassone come soft power (in francese puissance douce), ha alzato i costi dello hard power. Chi interviene si trova a operare in un ambiente reso complicato dalla brutalità, divenuta una sorta di leitmotiv che spiralizza i conflitti all’interno, rendendoli sempre più “guerre incivili” [10]. Può capitare allora di dover combattere dei mostri, come il sedicente Stato Islamico; ma qui, come ha ricordato l’Alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Ra’ad al-Hussein citando Nietzsche, “quando si combatte un mostro bisogna prevenire il rischio di diventare nel frattempo come lui”.
  18. In un’epoca che sembra non conoscere più zone franche di sicurezza, gli interventi militari sono sfociati in una sorta di “guerre a metà”, in cui il fronte è stato spostato perlopiù nelle città. In ambito militare, chi le conduce deve possedere la flessibilità di passare adeguatamente da un tipo di intervento ad altri più sofisticati – come nel caso afghano, dall’antiterrorismo alla controinsurrezione. Un fattore questo che concorre alla notevole durata degli interventi, come nello stesso Afghanistan (oltre 17 anni), nei quali imbastire una strategia di uscita sembra altrettanto complicato che ottenere vittorie decisive.
  19. Emblematico è l’intervento in Libia del 2011, avvenutoun secolo dopo la conquista italiana. Un’operazione che era stata presentata nell’ambito della dottrina umanitarista della responsabilità di proteggere. Ma che è miseramente fallita in fase applicativa. Sia perché il baricentro politico ha finito per spostarsi sul cambio di regime. Sia perché, lasciando un imperdonabile vuoto di potere, ci si è dimenticati che la predetta responsabilità implica anche quella di ricostruire – “chi rompe paga”.
  20. Questo precedente, combinato con l’analoga avventura irachena, aiuta a capire perché il presidente “riluttante” Barack Obamaabbia sempre preferito dirigere dietro le quinte (leading from behind) e non impelagarsi in un ulteriore conflitto nel mondo islamico, nonostante il superamento della soglia dell’impiego dell’arma chimica da parte del governo siriano di Bashar al-Asad. Aiutato in questo dai mezzi di nuova generazione per guerreggiare a distanza (remote warfare) a suon di droni, potere aereo, facilitatori sul campo e selezionati contingenti di forze speciali. Un dispositivo che sembrava obbedire più all’indirizzo politico che non alle esigenze tattiche sul terreno.
  21. Oggi, dunque la dinamica ciclica di guerra e pace mostra la prevalenza di uno stato di provvisorietà tra i due assoluti. Fonte, a sua volta, di un contesto grigio di incertezze e stati di tensione continua. Una situazione di “pace negativa” [11]. Le guerre, non più addomesticate da regole e principi, continuano a rivelarsi pertanto come realtà con cui fare i conti. Viste le difficoltà nel portarle a termine, si possono solo gestire.
  22. A queste dinamiche rischiano di non sfuggire nemmeno i cambiamenti politici interni alle nostre società. Come ha osservato recentemente Ken Endo dell’università di Hokkaido, con l’ascesa di paesi sviluppati qualificabili come democrazie illiberali si profilano i rischi di un ritorno in voga dell’autoritarismo che, con le sue “ripercussioni socio-economico-politiche” divenute oramai concrete, travalica i confini nazionali [12] e rende più competitivo che mai il panorama mondiale. In questo quadro, si è determinato un divario nel modo stesso di concepire lo “strumento” della guerra. Da un lato le democrazie rappresentative tradizionali con il retroterra giuridico del pensiero occidentale, che vedono il contesto in termini alternativi – pace o guerra. Dall’altro i loro sfidanti che sfumano le distinzioni fra l’una e l’altra.
  23. Siamo in un’epoca in cui minacce, modi e metodi trasgressivi di imposizione con la forza appaiono tollerati, veri e propri faits accomplis, come se tutto fosse permesso finché non si superano certe soglie. Il rischio maggior risiede negli abbagli e negli assunti inesatti sulla reazione delle controparti – un fatto confermato dalle cronache della guerra in Siria. Proprio attorno alla Siria martoriata da oltre 7 anni di guerra civile si è formato un nuovo quadro politico “regionale”, che Jean-Marie Guéhenno ha etichettato come “alleanza non-santa” composta da Iran, Russia e Turchia e che intende presentarsi come foro ristretto in sostegno alla debole azione delle Nazioni Unite a Ginevra [13]. Se da un lato si deve rilevare che questa intesa appare geopoliticamente fittizia e dunque strutturalmente fragile, dall’altro la novità di questa iniziativa sul Vicino Oriente, sinora appannaggio occidentale, suscita un certo interesse [14]. Resta quindi da vedere se e in quale misura potrà sortire risultati concreti.
  24. In questa cornice, la “guerra a pezzi” cui fa riferimento papa Francesco non può essereparagonabile a quelle di marca occidentale e totalizzanti del Novecento. L’incalzare di fatti strategici e la spiralizzazione delle crisi, i cui effetti si sono amplificati, mettono a dura prova le capacità gestionali di qualsiasi sistema. E sembrano indicativi di un nuovo corso della storia, in cui la possibilità di deflagrazione di conflitti maggiori è ammessa all’unisono dai vari leader mondiali. In questa prospettiva, lo storico francese Philippe Fabry propone uno schema articolato su grandi cicli che potrebbe facilitare le capacità di previsione. Lo studioso individua gli imperi revanscisti (revanchard) “napoleonico, hitleriano, putiniano” ai quali si oppone “un campo democratico condotto da una talassocrazia, cioè una potenza marittima che vuole difendere una certa visione del diritto internazionale” – ieri l’Inghilterra oggi gli Usa [15].
  25. Oggi abbiamo una “talassocrazia americana”(termine non associabile allo status di impero), che si confronta con un “nuovo impero russo” definito tellurocratico (termine di derivazione latina, nella letteratura classica “epirocrazie”). Il quale, a differenza del modello talassocratico (democratico, aperto, cosmopolita), è caratterizzato da “una visione globalmente autoritaria, continentale, tradizionalmente dirigista, protezionista”. Ne nasce un clima di tensione prossima allo stadio bellico, da terza guerra mondiale per l’appunto.
  26. Un monito per l’Italia, affinché conservi la tradizionale vocazione marittima che la geografia e la storia ci hanno assegnato nel Mediterraneo: le cose non sono andate bene quando abbiamo lasciato quel campo per seguire direzioni continentali. L’autore identifica un possibile scontro tra gli alleati e la Russia entro il 2020 nei paesi baltici [16]. Che tuttavia appare poco plausibile, alla luce dell’esperienza della guerra fredda.
  27. Stiamo semmai assistendo a una competizione implacabile tra le grandi potenze del momento a vocazione espansiva: gli Usa e la Cina. Washington ha impresso una escalation alla guerra dei dazi con Pechino per timore che quest’ultima accumuli – in barba alla proprietà intellettuale americana – la tecnologia necessaria a sospingere la propria ascesa. Il piano noto come Made in China 2025suscita timori di una nuova generazione di accordi che potrebbero dare alla Cina il controllo sulle tecnologie del domani. E per questo non è passato inosservato. Non resta esclusa dalla contesa la minaccia atomica, con l’ammodernamento degli arsenali prefigurato dall’annunciato ritiro di Washington dal Trattato Inf fra Usa e Russia.
  28. Nel Mar Cinese Meridionale – un “altro Mediterraneo” di 1,4 milioni di miglia quadrate, dove transita circa un terzo del commercio mondiale – Pechino ha cementificato e quindi militarizzato le minuscole isole contese, dalle Spratly alle Paracel [17]. Il tutto all’insegna del motto “nascondere la forza e guadagnare tempo”, che in questo caso si sostanzia nel consolidamento delle capacità anti-accesso e diniego d’area (a2/ad nella sigla in inglese). Nella dimensione marittima, l’impianto di tale capacità d’interdizione si materializza nel dispiegamento di forze simboliche e nell’uso di una combinazione di mezzi offensivi e difensivi, attivi e passivi, al fine di impedire l’accesso a uno spazio fisico o il movimento al suo interno. Con la postura cinese divenuta più aggressiva, gli “innocent passages” dei cacciatorpediniere della Marina Usa – volti a ribadire il principio della libertà di navigazione in quegli spazi ora fortificati – si iniziano a complicare. Manca, peraltro, una linea rossa tra Stati Uniti e Cina.
  29. Come conclude Lawrence Freedman, “solo il drammaturgo conosce, sin dal principio, se sta scrivendo una commedia oppure un tragedia. Lo stratega mira a una commedia, ma rischia la tragedia” [18]. Peraltro, dal palcoscenico delle politiche di potenza retrocede sempre più un altro attore: la diplomazia, ridotta a operare “sotto la protezione del cannone” in una vera e propria “guerra alla pace” [19].
  30. Davvero la pace, come sostiene Luttwak a proposito dell’approccio dei romani d’Oriente alla strategia, è una perenne “interruzione temporanea dello stato di guerra” [20]?

NOTE

1. K. Waltz, Theory of International Politics, McGraw-Hill, New York, 1979, pp. 139 e 210.
2. A. Beaufre, Introduction à la Stratégie, Hachette, Paris 1998, pag 143.
3. R. Cohen, “The Age of Distrust”, New York Times, 19/9/2016. L’autore riprende analisi che affrontano i temi scottanti del momento rimarcando l’inadeguatezza delle leadership politiche, scollate da società che dovrebbero rappresentare e incapaci di rispondere pubblicamente. In definitiva, la sfida della democrazia è il suo rinnovo, dato che l’attuale “sistema è divenuto taroccato” e non rappresenta la base.
4. J. Robb, Brave New War, John Wiley & Sons, Hoboken NJ, 2007, p. 31.
5. Termine coniato da James Mattis, Generale dei Marines, attuale segretario alla Difesa nell’amministrazione Trump, e dal Colonnello Frank Hoffman per definire una miscela personalizzata di armi convenzionali, tattiche irregolari, terrorismo, comportamento criminale e campi di contrasto per ottenere obiettivi politici.

  1. Rimando al mio “Il Dilemma Mediterraneo: contenere o affrontare i conflitti in atto?”, Osservatorio Strategico 2016, Centro Militare Studi Strategici (Cemiss), Il Ritorno della Geopolitica, dicembre 2015.
    7. È definita come “una capacità che, se aggiunta e utilizzata da una forza combattente, aumenta significativamente il suo potenziale di combattimento di quella forza e quindi la probabilità di successo della missione”, pubblicazione del dipartimento della Difesa Usa, JP1-02, ed. aprile 2001, rivista 2007, p. 211.
    8. Robb, op. cit., p. 30.
    9. Ibidem, p. 143.
    10. Rimando al mio “La terza guerra mondiale a pezzi e la bagarre multipolare”, Rivista Marittima, luglio/agosto 2015.
    11. V. “Les notions de paix et guerre”: https://goo.gl/PwYeCg. Quella positiva, nella definizione di Joahn Galtung, beneficia della presenza di fattori di sviluppo, cooperazione e integrazione tra le parti.
    12. Si pensi all’influenza sulle elezioni Usa della Russia, o all’astensione della Grecia dalla votazione no sui diritti umani contro la Cina.
  2. J.-M. Guéhenno, The Fog of Peace, The Brookings Institution, Washington D.C. 2015, p. 287.
    14. Rimando al mio “Gli Spazi Trans-Mediterranei Contemporanei à Vol d’Oiseau”, Rivista Marittima, marzo 2018.
  3. P. Fabry, Atlas Des Guerres à venir?, Institut Diderot, Paris, 2017.
    16. Ibidem p. 112.
    17. Rimando al mio “Il Caleidoscopio dei Mediterranei”, Rivista Marittima, luglio/agosto 2017.
    18. L. Freedman, Strategy: A History, Oxford University Press, New York, 2013, p. 629.
    19. R. Farrow, War on Peace, The end of Diplomacy and the Decline of American Influence, Norton & Company, New York, 2018, p. xxxii.
    20. E.N. Luttwak, La Grande Strategia dell’Impero Bizantino, Rizzoli, Milano 2009, p. 74.

 

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