L’arte del prendersi cura [di Alessandro Serenelli]

le mani

L’Osservatore romano 09 novembre 2018· All’ospedale romano del Santo Spirito un corso per chi assiste persone malate o in difficoltà. I media riportano tutti i giorni episodi di violenza in cui sono coinvolti se non addirittura protagonisti stranieri, di razzismo sempre più palese e violento, di difficoltà di convivenza nelle periferie urbane o di sfruttamento e di vero e proprio schiavismo nelle campagne ignorate del nostro paese.

E il dibattito pubblico sembra a volte impegnato a portare avanti due opzioni contrapposte, come se dovessimo scegliere se diventare una società multietnica e multiculturale oppure chiuderci in un felice isolamento, portando ragioni ora per una, ora per l’altra posizione.

La realtà è che senza aspettare che qualcuno decidesse, il mondo è cambiato. Il mondo si è globalizzato, senza chiedere il permesso a nessuno, grazie alla tecnologia, e ancor prima, a seguito dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione la popolazione ha iniziato a crescere in maniera esponenziale, e in quella parte del mondo più sviluppata l’invecchiamento della popolazione è un’emergenza che non è destinata a terminare ma anzi a crescere sempre più, legata a tanti fattori, e in particolare alle mutate condizioni di vita e al calo delle nascite.

Le istituzioni locali sembrano immobili e incapaci di imprimere un qualsiasi cambiamento, e l’esempio della città di Roma è illuminante. Sono anni che da più parti si sente parlare di cambiamento, ma le istituzioni che governano la città non riescono a fare nessun passo avanti, scaricando le responsabilità su chi ha governato in precedenza, in un tiro incrociato in cui i cittadini si sentono sempre più presi in giro, beffati e cresce la rabbia e il malcontento, mentre la città sembra sprofondare in un degrado sempre più diffuso e profondo.

Ma in questo apparente immobilismo, in questo clima che a leggere i giornali è sempre più violento, in realtà il tessuto sociale sta cambiando profondamente. La sollecitazione a vedere in modo diverso la realtà viene dallo scenario che si è manifestato durante l’incontro che il 25 ottobre ha celebrato il decennale del corso per caregiver all’ospedale Santo Spirito di Roma, organizzato assieme dalla Asl Roma 1 e dalla Comunità di Sant’Egidio.

Alla presenza del direttore generale della Asl Roma 1 Angelo Tanese e del direttore del «Messaggero» Virman Cusenza sono stati consegnati 86 diplomi ad altrettanti caregiver, ovvero a persone che per lavoro o per assistere i propri cari hanno intrapreso questo corso di formazione destinato a chi vuole apprendere a prendersi cura degli altri, siano questi anziani, disabili, malati o bambini.

Il corso è nato nel 2008 dalla necessità, da parte dell’ospedale, di sostenere e soprattutto entrare in contatto con il mondo delle cosiddette badanti, che in tante occasioni sembravano essere il nodo fondamentale per la riuscita o il fallimento delle dimissioni ospedaliere. Infatti l’ospedale aveva necessità di evitare che tanti suoi pazienti, soprattutto anziani, una volta dimessi ritornassero dopo pochi giorni di nuovo in ospedale perché incapaci di seguire in maniera adeguata le cure da soli a casa propria. Il corso ha preso l’avvio con una classe di 16 studenti e un ciclo di 10 lezioni.

Dal 2011 è iniziata la collaborazione fra la Asl e la Comunità di Sant’Egidio, e per il corso questa novità ha rappresentato un decisivo salto di qualità, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Infatti i volontari della comunità erano lì dove l’istituzione fatica ad arrivare, fra gli stranieri, nelle case degli anziani, o dei bambini in difficoltà o accanto alle persone con disabilità ad accompagnare e facilitare la loro vita.

A seguito di questa collaborazione il corso è molto cresciuto, tanto che quest’anno è aperto a 100 persone e le ore di lezioni saranno 300, divise a metà fra la Asl Roma 1 il cui personale, composto da professionisti qualificati dell’ospedale Santo Spirito, tratteranno gli argomenti di carattere sanitario, mentre i volontari di Sant’Egidio tratteranno gli argomenti di carattere socio-culturale.

Tutti gli insegnanti svolgono la loro attività in regime di volontariato, perché condividono lo spirito dell’iniziativa, e questo vuol dire, fra l’altro, che per gli studenti il corso è totalmente gratuito.

Lo scenario rappresentato dalla composita platea dell’evento è stato eloquente, badanti di 54 nazionalità diverse, fra queste sempre più frequenti le italiane (più del 28 per cento nell’ultima edizione) e anche tanti uomini, anche italiani, e poi familiari, volontari, professionisti sanitari, e amministratori. In questa platea era evidente il liquefarsi delle istituzioni tradizionali: la famiglia, lo stato, la permeabilità delle frontiere, il diradarsi, ancorché faticoso, delle barriere culturali, il mischiarsi di mondi diversi e di punti di vista differenti. Ma attenzione, questa non è una felice ipotesi da costruire in un futuro più o meno remoto.

Questo scenario è già una faccia del presente nella città di Roma, e in tutta la società italiana, anche se con differenze importanti fra città e città, fra luogo e luogo, una realtà a macchia di leopardo che si mischia con realtà invece drammatiche di violenza, abbandono e degrado; un aspetto del reale, del presente, anche se a volte facciamo fatica a esserne consapevoli e che non viene mai rappresentato dai media.

Certo, un presente fatto di persone che vivono vite molto complicate, a volte deluse, a volte piene di speranza, a volte anche giustamente arrabbiate. In questo presente c’è chi ha lasciato il proprio lavoro e si è reinventato la propria vita per stare accanto alla propria mamma e assisterla; c’è chi con la scusa di andare a trovare la mamma di un’amica per farle compagnia in realtà va per tenere la situazione sotto controllo; chi fa la baby sitter con bambini di genitori separati e riceve le loro confidenze più intime; chi lavora faticosamente tante ore, e la sera, prima di addormentarsi, pensa ai propri figli che sono rimasti nel paese d’origine, che crescono tirati su dai nonni, e che quando diventano grandi fanno fatica a venire in Italia.

C’è chi a un certo punto ha dovuto lasciare il lavoro e tornare di corsa nel proprio paese per assistere la mamma che in tanto si era ammalata, e oggi è di nuovo qui, con la consapevolezza di averla assistita al meglio anche grazie all’esperienza fatta all’estero e chi invece lavora portando con sé l’esperienza fatta da giovanissima nel proprio paese, assistendo prima la propria sorellina e poi il proprio papà malati.

E poi tanti italiani, fra questi anche chi ha perso il lavoro a un’età in cui non è facile riciclarsi, quel lavoro per cui aveva studiato e si era preparato e oggi si trova a reinventarsi facendo un lavoro che non avrebbe mai pensato di fare in vita sua, un lavoro ritenuto di serie b.

Tante storie, tanta vita; complessa, faticosa, vera. E dietro questi volti quelli di coloro che hanno problemi ancora più grandi, ovvero i volti degli anziani, dei bambini, dei disabili e dei malati che vengono assistiti.

Al timore per il futuro e alla fatica del presente si sente spesso rispondere con vigore che bisogna affermare orgogliosamente la propria identità; penso al “prima gli italiani” che alcuni politici amano ripetere continuamente, probabilmente con effimero successo dal punto di vista del consenso, ma che invece rischia di incidere negativamente sulle basi della convivenza civile.

Questi proclami suonano quanto mai anacronistici. Qual è la nostra identità? Qual è la mia identità? Non c’è una contraddizione stridente nel dire “prima gli italiani” e poi dire a una ragazza peruviana «tieni, occupati dei miei figli» cioè ciò che abbiamo di più prezioso, o a una donna filippina «vieni, occupati di mia madre» che in realtà vuol dire «entra nell’intimità della vita di mia madre»? La verità è che le nostre vite si sono intimamente mischiate. Si potrebbe controbattere che questo è un discorso da ricchi. In fondo ai ricchi interessa avere qualcuno che faccia delle cose per loro, se poi questi siano italiani, bianchi, stranieri o robot poco importa, anzi, più la manovalanza è a basso costo e meglio è.

Ma la realtà evidenziata dallo scenario palpabile in occasione di questo incontro è che le nostre vite sono già profondamente mescolate. Si mischiano nelle stanze delle nostre case, sui pianerottoli dei nostri condomini, dove persone diverse si trovano a condividere la difficoltà di assistere chi è fragile. A tutti noi è capitato almeno una volta di avere una persona cara malata; un amico, un familiare, e di scoprirci con imbarazzante stupore incapaci di sostenere quell’incontro.

Cosa dire? Cosa fare? Il corso è dedicato proprio a chi, a partire dalla consapevolezza della propria inadeguatezza, vuole imparare a prendersi cura degli altri, e il corso cerca volontariamente l’integrazione, il confronto fra punti di vista diversi, fra lavoratori e familiari, fra volontari e istituzioni.

Un percorso a volte faticoso, ma perseguito con tenacia, convinti che la vita già ci pone gli uni accanto agli altri, e che “fare rete” (come si dice in ambito socio-sanitario) sia l’unica risposta possibile alle molteplici fragilità di ciascuno. Tutti abbiamo o avremo bisogno di qualcun altro. Non solo i ricchi, anzi, loro meno degli altri, perché loro se lo potranno sempre “comprare”. E l’attività di assistere non è solo una semplice manovalanza.

Abbiamo costruito una società che valorizza, sostiene, tutela i diritti dell’individuo. L’autodeterminazione è diventata prioritaria. Questo è un significativo progresso della nostra società. Ma quando perdiamo la nostra consapevolezza, la nostra capacità di giudizio, abbiamo bisogno di qualcuno su cui poter contare, qualcuno di cui poterci fidare, e non è detto che debba essere per forza un familiare. Anzi, confidare solo sui familiari, in questa società, è quanto meno irragionevole.

Ci piace poter scegliere, e ci appassiona il dibattito su “staccare o no la spina”, un dibattito che appassiona lettori, giornalisti, giuristi, politici, bioetici. Un dibattito importante, anche ci fosse solo un caso, solo un uomo che si trovasse nella condizione di dovere fare questa scelta, e ci piace pensare cosa faremmo noi in quel caso, ci piace pensare di poter decidere, ci turba ma ci appassiona allo stesso tempo, è una reazione un po’ adolescenziale, e anche molto umana, molto comune.

Però, diciamo la verità, un malato di Alzheimer che spina deve staccare? La maggior parte dei nostri anziani prima di morire vive un lungo tempo di progressiva lenta e graduale perdita della propria consapevolezza, della propria memoria, della propria coscienza. Il problema non è staccare la spina, è avere qualcuno che si prenda cura di noi, qualcuno di cui fidarsi, qualcuno a cui affidarsi. Com’è difficile, com’è impegnativo, questo lavoro.

A volte si tratta solo di fare un po’ di compagnia, a volte invece occorre assumersi responsabilità importanti, nell’interesse e rispettando una coscienza che non è più in grado di esprimersi pienamente. E questo a volte è un compito ancora più arduo per chi è un familiare; i figli, prima di tutto, ma a volte il consorte. Persone che si trovano ad affrontare la fragilità di una persona cara dopo aver vissuto per un tempo più o meno lungo un ruolo, una relazione diversa, e devono imparare a provare tenerezza per una fragilità che non avrebbero voluto conoscere, e provano — giustificatamente — sentimenti di rabbia, di delusione, di incapacità, di sconforto. Come si può definire questo un lavoro di serie b?

Eppure chi non ha vissuto queste esperienze sulla propria pelle può pensarlo. Il corso cerca di sostenere questa consapevolezza, ed è aperto a tutti. Per questo motivo la scelta di mettere a disposizione di tutti parte del materiale didattico, perché l’idea è che tutti possiamo trovarci nella situazione di non sapere come fare per aiutare. Attraverso il sito istituzionale della Asl Roma 1 è possibile vedere brevi video che mostrano come fare alcune attività basilari dell’assistenza. Al momento sono in italiano, ma presto saranno disponibili anche in altre lingue.

Da quest’anno poi si avvierà un corso di base, dedicato a quegli stranieri che ancora non parlano bene l’italiano; un livello fatto soprattutto di lezioni pratiche. E già dallo scorso anno la Comunità di Sant’Egidio ha istituito un corso di economia domestica, dedicato alle ragazze che hanno poca dimestichezza con le faccende di casa. Spesso il lavoro della badante e della domestica si mescolano e si sovrappongono.

Ma chi può insegnare oggi a una donna i lavori domestici? Chi può insegnare come si fa una lavatrice, o come si utilizza l’aspirapolvere? Eppure anche questo conta, anche questo è importante. E qui viene in soccorso il genio del volontariato, il genio di chi non è istituzionale.

Le domestiche più esperte, che stanno in Italia da più tempo, diventano così docenti e insegnano alle nuove arrivate come si governa una casa.

C’è un territorio in cui le istituzioni non possono entrare, è un terreno privato, intimo, in questo territorio entra con più facilità il volontariato, e la sinergia rende possibile anche ciò che non era prevedibile. Le regole vengono dopo, non possono che venire dopo, quando le esperienze maturano, a consolidarle, e qui le istituzioni locali hanno un ruolo decisivo. Quando sono illuminate possono fare una cosa importantissima, possono sostenere. Certo, devono superare le regole della consuetudine, del “si è sempre fatto così”. Ma proprio questo le rende illuminate.

La proposta che nasce da questa esperienza non è urlata, anzi è pacata, anche perché viene da gente che si sente un po’ più rassicurata proprio da questo scenario. Non è questione di essere ottimisti o pessimisti, ma di essere consapevoli del fatto che esiste una ragione fondamentale su cui ricostruire le basi della convivenza civile, ovvero la nostra intrinseca fragilità e il bisogno che abbiamo gli uni degli altri. I nostri nonni, che frequentavano i proverbi, ripetevano spesso «di necessità, virtù».

Sì, dalla consapevolezza di una necessità, delle proprie necessità, da un sano e sapiente egoismo può rinascere la ragione della convivenza civile. Non per buonismo ma “per il nostro bene”, occorre ritrovare le ragioni del vivere insieme. In un mondo in cui tutte le istituzioni sono in crisi: la famiglia, la politica, le ideologie, gli stati, dove le frontiere geografiche e culturali non sono più un limite invalicabile, anzi, dove tutti possiamo cambiare paese.

Dove i luoghi di sempre, della nostra infanzia si trasformano ineluttabilmente sotto i nostri occhi distratti, non siamo obbligati a provare nostalgia per la nostra identità perduta, ma possiamo continuare a desiderare di essere felici, o almeno un po’ più sereni.

In tutti noi, con le nostre storie diverse, c’è in fondo il desiderio, l’ansia, il sogno di essere almeno un po’ felici. Ed esiste una strada imprevista per essere più felici, quella di rispondere alla domanda di chi è più fragile. Reimparare a prenderci cura gli uni degli altri ci rende più felici perché ci riscopriamo serenamente e semplicemente esseri umani, e rende più felici e sereni gli altri, le persone più fragili, che possono finalmente contare su qualcuno. Per fare questo serve gente che sappia sollevare un anziano senza fargli male, ma anche gente consapevole che accudire è un’attività nobile, è la grande sfida di essere umani.

One Comment

  1. Giancarlo

    A molti suggerirei la lettura del volume “Filosofia della cura” della prof.ssa Luigina Mortari

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