La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani compie 70 anni [di Rita Dedola]

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Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Una volta deliberata, l’Assemblea dava istruzioni al Segretario Generale perché la diffondesse nella maniera più ampia possibile e la traducesse anche nelle lingue non ufficiali delle Nazioni Unite.

Dopo settant’anni dalla sua approvazione, la Dichiarazione rappresenta un perno del sistema internazionale dei diritti e delle garanzie degli individui, perché si basa sul concetto di interdisciplinarietà dei diritti umani, da quelli civili a quelli politici, sociali, economici, culturali. Rappresenta uno dei principali strumenti per la protezione internazionale e  base delle successive convenzioni.

E’ ben noto che la differenza l’ha fatta il fatto che a presiedere la Commissione dei Diritti Umani che ha redatto la Dichiarazione fosse una donna: Eleanor Roosevelt, vedova del Presidente degli Stati Uniti, definita allora la donna più importante del mondo. Pur non avendo una specifica preparazione giuridica seppe mediare fra le posizioni in campo giungendo, in breve, ad un risultato rivoluzionario che è sotto gli occhi dell’umanità. Ha  contribuito in maniera decisiva anche sul versante del linguaggio utilizzato  nella Dichiarazione, accogliendo i suggerimenti delle donne presenti nella Commissione.

Ne facevano infatti parte donne provenienti da diversi paesi del mondo, tra le quali Hansa Jivraj Mehta, indiana, scrittrice e femminista. Fu lei a suggerire la locuzione “esseri umani”, ripresa dalla francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, al posto del termine “uomo”.  Mehta aveva sostenuto con forza e determinazione – oltre che con lungimiranza -, che utilizzare esclusivamente il termine uomo dopo “Dichiarazione dei diritti del… “, non solo sarebbe stato riduttivo, ma avrebbe potuto favorire la compressione dei diritti delle donne –  e non solo di queste -, se solo se ne fosse voluta dare, da parte di alcuni Stati, una lettura di stretta interpretazione.

Non vi è dubbio sulla portata “rivoluzionaria” di questo linguaggio, tanto che in seguito questa “sottigliezza” lessicale non è stata raccolta e metabolizzata da chi in seguito si è occupato di redigere le successive Convenzioni che dalla Dichiarazione discendono, prima fra tutte la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre del 1950, ratificata dall’Italia il 4 agosto 1955, o di istituire la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, meglio nota con l’acronimo CEDU.

Questo è solo un piccolo esempio di come dopo settant’anni vi sia ancora moltissima strada da fare per l’affermazione dei diritti umani soprattutto in termini di divulgazione della consapevolezza che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti”, (art. 1 primo periodo) e senza distinzione alcuna per ragioni di razza, di color, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione, (art. 2).

Il recente rapporto di Amnesty International in relazione allo stato dei diritti umani, è devastante. Un bambino su dieci è sfruttato sul lavoro; troppe sono le regioni distrutte dalla guerra, in cui le donne e i bambini sono vittime di violenze di genere; sempre più i flussi migratori generano intolleranze e discriminazioni; l’ineguaglianza sociale in crescita genera anch’essa intolleranza e rabbia; è a rischio la libertà di espressione.

Sovvengono le parole di Nereide Rudas: “l’auspicio è che la parte femminile del mondo dovrà sapere parlare con voce di donna”, la stessa di Eleanor Roosevelt e di Hansa Mehta e delle altre componenti la Commissione, per rendere effettiva l’applicazione dei trenta articoli della Dichiarazione. Ma non c’è tempo da perdere.

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