Cultura significa pensare positivo [di Pietro Ciarlo]

 

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Il problema dell’ equilibrio dei bilanci pubblici è assillante.  Molto dipende per cosa e come si spende. In Italia alla ricerca pubblica sono assegnati pochissimi fondi, ma  il loro rendimento è elevato. I ricercatori italiani si arrangiano con poco, l’efficienza della spesa è alta. Questo dato è confortante, ma non può essere un alibi. Così non  dura ancora a lungo. Alla fine senza soldi non si dicono neanche le messe. Sono evidenze che rinviano immediatamente al nodo focale della cultura in Italia: il declino.

 

Negli ultimi decenni abbiamo assistito a una straordinaria redistribuzione della ricchezza tra diverse aree mondiali. Tanta manifattura ha lasciato l’ Europa occidentale, ma adesso gli scambi internazionali sembrano aver trovato un loro nuovo equilibrio. Negli USA e in alcuni stati europei si vede la ripresa, in Italia no. La nostra economia e la nostra psiche continuano ad essere depresse. Se una società è in declino economico  fatalmente è anche in declino culturale. Non credo che nella storia sia dato riscontrare società in crisi  economica e in fioritura culturale.

 

Dal rapporto 2013 di Federcultura si evince che in Italia esistono oltre 12.000 biblioteche, ma i lettori calano in continuazione e il 57% degli italiani non legge nemmeno un libro all’anno. Abbiamo 3.609 musei, il triplo della Francia,  5.000 siti culturali, 46.000 beni architettonici vincolati, 34.000 luoghi di spettacolo. L’industria culturale vale circa 76 miliardi di euro, dà lavoro a  quasi un milione e mezzo di persone eppure le risorse destinate alla cultura si riducono implacabilmente. Oggi il budget del ministero dei Beni culturali è di 1 miliardo e mezzo, appena lo 0,20 % del bilancio dello Stato. Per il triennio 2014-2016 si prevede un’ ulteriore riduzione di circa 100 milioni. Alla fine lo stanziamento sarà di 1 miliardo e 400 milioni, esattamente come quello della Danimarca, meno di 6 milioni di abitanti, meno di un decimo della popolazione italiana.

 

Sempre secondo Federcultura  siamo al 26° posto sui 28 paesi UE per spesa pubblica pro capite in istruzione e formazione con un’incidenza del 4,2 % sul Pil, contro una media europea del 5,3. Negli ultimi dieci anni gli iscritti alle università italiane sono scesi da 338 mila a 280 mila con un calo del 15%.  Europa 2020 ipotizza il 40% di laureati tra i 30 e i 40 anni: la media UE è di circa il 35%  mentre in Italia siamo soltanto al 20. Anche nel 2013 nessun ateneo italiano viene classificato tra i primi 100, anzi Bologna, la prima delle università italiane, perde 11 posizioni scendendo  al 194° posto.  Negli ultimi 10 anni 68.000 neolaureati hanno lasciato l’Italia, una vera e propria desertificazione. Non deve meravigliare, dunque, se per Erobarometro, cioè le indagini demoscopiche del Parlamento UE,  il nostro indice di partecipazione culturale nazionale sia appena dell’ 8%, contro una media europea del 18, e una percentuale che arriva al 43%  della Svezia, il paese europeo con la più alta partecipazione dei cittadini ad attività culturali. Le classifiche di questo tipo sono  opinabili, ma pur sempre indicative.

 

I dati riportati sono ben noti,  ma  leggendoli tutti di fila  colpiscono al cuore e fanno veramente male. Sono univocamente orientati, l’immagine di insieme è deprimente  e nonostante il gran parlare, restiamo tra gli ultimi e anzi continuiamo a regredire. Uno degli epicentri del nostro declino culturale riguarda il disordine istituzionale. Giuristi ed economisti si occupano della organizzazione  e della gestione delle nostre società. In Italia il sapere giuridico e quello economico vivono una profondissima crisi per il deperimento dell’ oggetto della loro conoscenza. Questo aspetto va sottolineato perché è uno dei profili che distingue le scienze della natura da quelle umane. Economisti e giuristi, questi ultimi in particolare, devono contribuire ad edificare un ordine, un ordinamento, ma la loro capacità di dare certezze e costruire prevedibilità  viene vanificata dall’ irrimettibile  disordine istituzionale e politico.

 

Sulla crisi della cultura economica e giuridica si dicono molte cose inesatte, spesso volutamente inesatte. Da parte della politica esiste una vera e propria astuzia dell’inesattezza finalizzata a minimizzare le proprie responsabilità e a scaricare tutte le colpe su altri. Se le cose non funzionano è  colpa dei giudici, della burocrazia, mai del legislatore, cioè della politica. Giudici e burocrazia possono avere anche tutte le colpe del mondo, ma non si può trascurare di osservare che essi alla fin fine sono  chiamati ad applicare le leggi. Se per anni e anni si fanno leggi confuse e contraddittorie non si può immaginare che esse vengano raddrizzate in sede applicativa. Accadrà il contrario, i difetti degli esecutori si sommeranno a quelli dei decisori.

 

Noi come gruppo dei costituzionalisti di Cagliari da circa dieci anni curiamo per una delle maggiori riviste specialistiche del settore una rassegna della legislazione pubblicistica  più importante segnalandone i contenuti salienti, ma ormai siamo sommersi da una marea di legislazione di pessima qualità, non so se riusciremo a continuare questo lavoro. Del resto non bisogna essere degli specialisti per sapere queste cose. Basti pensare a che cosa sta succedendo per la tassazione sugli immobili, con i commercialisti che inevitabilmente sbaglieranno, ma poi a pagare i loro sia pur scusabili errori saranno i contribuenti.

 

O ancora al caso Stamina dove l’amministrazione competente dal primo momento assume una posizione negativa, ma viene delegittimata da un giudice,  un altro giudice obbliga una struttura sanitaria ad erogare il trattamento ed infine un altro giudice ancora giustamente mette tutti i protagonisti sotto procedimento penale.  Per non parlare della valutazione dei curricula per l’ accesso a medicina cambiata il giorno delle prove. Con gli esempi si potrebbe continuare praticamente all’infinito.  Le leggi sono divenuti dei testi esoterici. Le ultime trenta pagine della relazione annuale della Corte dei Conti al Parlamento sono l’elenco degli acronimi. Finanche il Presidente del Consiglio ha ritenuto di lamentare l’uso eccessivo di quelle che una volta si chiamavano abbreviazioni.

 

I testi giuridici sono diventati sempre più complessi perché più complesse sono divenute le nostre società, ma la  loro decadenza contenutistica e linguistica, e in ambito giuridico le parole sono tutto, è ormai un fattore disfunzionale autonomo, nel senso che in Italia è molto più accentuato che altrove. Incertezza, imprevedibilità e lentezza ci stanno distruggendo.

 

Il nostro Paese è sicuramente ammalato di burocrazia, ma l’insistenza che la politica pone sui mali della burocrazia configurano un vero e proprio alibi burocratico. Il disordine legislativo apre spazi vertiginosi alla discrezionalità dei giudici, fino a configurare dei veri e propri abusi del diritto.  L’incertezza normativa e la conseguente  mancanza di prevedibilità sono il peggior nemico del futuro. Oltre al passato e al presente, anche il futuro è gravido di conseguenze perché noi regoliamo i nostri comportamenti  a seconda delle aspettative che nutriamo. Se l’immaginazione non riesce a vedere il futuro il danno è enorme soprattutto per le imprese e per i giovani. Incertezza, mancanza di fiducia, diffidenza, sospetto   ci hanno spinto ad assume una psicologia recessiva  sul piano personale, collettivo, politico. Spesso, quando ascoltiamo una posizione espressa da altri, automaticamente la nostra mente si ritrova impegnata a selezionare gli argomenti più efficaci per poter dire NO. Consapevolmente o inconsciamente siamo diventati tutti un po’ dei veto player. Ma poi ci sono i veto player professionisti, quelli che costruiscono loro posizioni di forza esercitando il ricatto del NO.

 

Quando nel gennaio scorso si pose il problema del transito delle sostanze chimiche derivanti dal disarmo siriano e il porto di destinazione fu individuato in quello di Gioia Tauro,  subito scesero in campo i professionisti del NO. I tre sindaci della zona  dichiararono che avrebbero dovuto passare sul loro cadavere. Il presidente della regione che sarebbe scoppiata la guerra civile. Fortunatamente la Filt-Cgil  tempestivamente segnalò che nel porto transitano 600.000 tonnellate all’anno di quella  merce, e dunque le 600 siriane erano un’inezia, ma soprattutto che non si poteva inviare al mondo il messaggio che quel lavoro a Gioia Tauro non si sarebbe potuto fare.

 

Fortunatamente Confindustria, Autorità  portuale e finanche il Vescovo hanno condiviso  la posizione del sindacato. Così la spregiudicata politica locale che con il suo NO sperava di intercettare i sentimenti e il consenso più ingenui della popolazione è rimasta, una volta tanto delusa.  Ha sfiorato il ridicolo una certa politica sarda, amministrazione regionale in testa, che voleva anch’essa iniziare una guerra civile per una cosa che nessuno le aveva chiesto, essendo sin dall’ inizio Gioia Tauro la destinazione dei materiali siriani. C’è stato un tempo in cui investitori esteri volevano realizzare una decina di rigasificatori in Italia, i NO localistici hanno prevalso, non se ne è fatto neanche uno. Finanche in Sardegna, nonostante sia assieme alla Corsica,  l’unica regione europea a non poter disporre del metano, quando si parlava operativamente del metanodotto  Galsi, spuntarono dei politicanti del NO. Poi nel grande risico dell’energia questo metanodotto è sfumato, sarebbe interessante sapere chi oggi volesse cavalcare il diniego ad un rigassificatore.

 

Bisogna pensare positivo, avere proposte, una cultura propositiva. Solo ragionando in termini propositivi ci si può riscattare dalla demagogia del NO. Ma le proposte devono avere credibilità,  devono esprimere  una loro funzionalità, non essere a loro volta espressione della demagogia populistica.  Ad esempio, il solo accennare ad una moneta sarda nel resto del mondo suscita  un’ immediata incredulità e una più meditata  ilarità quando e se riusciamo a spiegare di che trattasi.   Fare buona politica  mai come adesso significa avere una genuina capacità propositiva, ma non c’è buona politica senza cultura.

 

Detta  in modo un po’ brutale la parola  “declino”  dal punto di vista culturale  vuol dire che stiamo diventando più ignoranti.  Le abilità aumentano, ma all’incremento delle abilità  non necessariamente corrisponde  una crescita culturale, intesa come capacità di comprendere il mondo e di rapportarsi ad esso, agli altri. In un universo plurimo solo la cultura, la mediazione culturale, può costruire una prospettiva di pace  tra diversi che hanno o vogliono avere per destino l’integrazione.  Bisogna  tener conto  criticamente di alcuni sviluppi recenti. Innanzitutto la perniciosa rinascita del populismo identitario che si salda con il cinismo dei veto player, dei professionisti del NO. Le narrazioni identitarie non sono neutre.

 

Possono servire a costruire la consapevolezza di noi stessi e della nostra naturale plurima e concentrica  cittadinanza locale, regionale, europea, mondiale. Oppure a fondare i miti populistici del sangue e della terra, della diffidenza e dell’odio verso l’altro. Dell’ isolamento e dunque del declino economico e culturale. Quando sentiamo risuonare un NO localistico non dobbiamo porci solo domande di carattere economico o ambientale, ma soprattutto culturali.  Ad esempio dovremmo  chiederci  che tipo di cultura esprime chi pensa di poter derivare le sorti del mondo da sessanta chilometri di ferrovia.

 

La nostra cultura deve essere più coraggiosa, misurarsi senza esitazioni con le nuove separazioni, i nuovi stridori.  Le donne prevalgono negli studi e nei lavori  qualificati. Il 60% dei laureati sono donne, come il 60% dei medici, dei magistrati, dei funzionari  pubblici. Si deve essere lieti che cadano antiche discriminazioni, ma vuol dire anche che il versante maschile delle nostre società  vive una grande crisi culturale. I ragazzi tra calcio, fanta calcio, video giochi, ludopatie , pornopatie  e altre dipendenze, di cui le ragazze fortunatamente soffrono molto meno, sono in piena fase involutiva. La deculturalizzazione delle nostre società si addensa soprattutto sul versante maschile. Esse, anche per questa ragione, stanno diventando sempre più rozze, violente e pericolose soprattutto per le donne. Ci sono troppe ipertrofie e troppe atrofie.

 

Oggi il lassismo e i vincoli del politicamente corretto sono amici degli squilibri e nemici della cultura. Senza cultura non c’è buona politica e non si arresta il declino. La rete nel bene e nel male cambia la nostra antropologia, ma non è scritto da nessuna parte che in nome del bene dobbiamo prenderci anche il male.

 

*Costituzionalista. Giurista Università di Cagliari.  Intervento tenuto nella Tavola Rotonda Le tre culture . Orizzonti formativi per lo sviluppo della Sardegna: La Formazione giuridico- amministrativa- economica nel corso dell’iniziativa Sardegna: Terra della conoscenza e della comunità educante, organizzata il 27 gennaio alla MEM di Cagliari dall’ Associazione LAMAS.

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