Moda della moda: massificazione o esclusione? [di Pierfranco Pellizzetti]
MicroMega.com 13 dicembre 20128. «Nietzsche dice che nessuna donna ha mai preso ilraffreddore indossando il vestito leggero e scollato di un grande sarto»[1]. Ennio Flaiano. «Gli esempi tratti dalle società tribali dimostrano chiaramente che i beni di lusso tendono a essere utilizzati come armi di esclusione»[2].Mary Douglas e Baron Isherwood. Georg Simmel, La moda, Mondadori, Milano 1998. Saverio Zavaglia, Fenomenologia della distinzione, Mucchi, Modena 2018. Una pratica del presente. La moda ha invaso con tutti i suoi diktat gli immaginari collettivi della nostra epoca, ergendosi a primario criterio di apprezzabilità e inducendo comportamenti di massa oltre il limite del maniacale. Eppure in un recente saggio – segnalato anche in questo sito – si lamentava «la tenace diffidenza della filosofia nei suoi confronti», nonostante essa sia «uno dei più importanti fattori di promozione e plasmazione del gusto nell’età dell’esteticità diffusa, ovvero dell’estetizzazione della realtà»[3]. Con la precisazione di intendere “filosofia” in quanto attività intellettuale specifica e forma di sapere organizzato, aventi per oggetto le condizioni generali della conoscenza (quella che Aristotele chiamava “filosofia prima”, in quanto dedicata ai “principi primi”: le strutture dell’essere); poi, nella dizione dello storico della filosofia Kuno Fischer, “l’auto-conoscenza dello spirito umano”. Disinteresse perdurato per larga parte della modernità novecentesca, a meno di non accreditare dello status filosofico un economista (Thorstein Veblen, per la sua riflessione sul “consumo vistoso” e la relativa teorizzazione della “classe agiata”: «le élite dominanti utilizzano sempre di più il sovraprodotto per inseguire bisogni di emulazione invidiosa»[4]) o un sociologo (Georg Simmel, riferendoci oltre che al tema specifico di cui parleremo, anche alle analisi dei processi sociali a seguito dell’urbanizzazione; con particolare attenzione al fenomeno psichico, irriducibilmente circoscritto alla metropoli, definito del blasé, «conseguenza di quella rapida successione e di quella fitta concentrazione di stimoli nervosi contraddittori», che diventa «incapacità di reagire a nuove sollecitazioni»[5]). In effetti la spiegazione di una tale indifferenza teorica è abbastanza semplice: il fenomeno moda non rientra logicamente nelle categorie permanenti dello spirito; collocandosi – semmai – nello spazio delle pratiche esteriori del presente. Eminentemente comportamentali; seppure considerando le loro poste in ballo e il gioco dei rapporti di forza retrostanti come sintomi; ma senza la pretesa di buttarla sullo speculativo. Oggetto dell’indagine – appunto – da parte della sociologia; insieme alle discipline affini/contigue (come l’antropologia culturale e la semiologia; certamente la ricerca storiografica) e dell’economia. Dunque, la questione “essere alla moda”, che si incrocia senza sovrapporsi con le problematiche della “segmentazione sociale”. Come ribadiscono entrambi i testi a cui oggi facciamo riferimento; sebbene distanti tra loro di oltre un secolo. Il primo, pubblicato nel 1911, opera di quel grande esploratore novecentesco della «rete complessa di interrelazioni e di interdipendenze che costituisce l’essenza della società e, più in generale, della realtà»[6]; l’altro, in uscita questi giorni, con la firma di un giovane imprenditore del ramo assicurativo, specializzato nel settore fashion e con una marcata attenzione alle tematiche dell’immagine. L’atteggiamento estetico in quanto espressione distintiva di una posizione privilegiata nello spazio sociale, il cui valore si determina oggettivamente nel rapporto con altre espressioni, risultanti da condizioni diverse. Come ogni altra specie di gusto esso unisce e separa, sicché «gli orientamenti e gli interessi diventano giudizi e idee prevalenti in un gruppo di persone reali; che si impegnano a promuoverli facendoli diventare sentire condiviso, comune. L’ennesimo effetto della comunicazione nelle faccende umane, che ci consente di concordare quel tanto di certezza necessaria per non avere l’impressione di aggirarci in permanenza tra le sabbie mobili dell’opinabile. Convinzioni fondate su sensibilità e criteri che si trasformano nel tempo. Storiche»[7]. Da qui il filo di ragionamento, che andremo ad affrontare riguardo al nostro tema, il cui presupposto è l’inopportunità di criteri etici o estetici; previlegiando ragioni assai più “pratiche”. La moda come sensore. Semmai, parlando di moda ci imbattiamo in un fenomeno economico dal peso estremamente rilevante; appurato come – stando ai dati forniti dalla McKinsey – nel 2017 il fashion system globale abbia fatturato qualcosa come 2,4 trilioni di dollari. Solo per l’Italia, «il settore moda allargato, che comprende non solo l’industria tessile ma anche quella dell’abbigliamento, delle calzature, della gioielleria e dell’occhialeria, nel 2017 ha dato vita a una produzione di 94 miliardi di euro»[8]. Dato altamente rivelatore di alcune delle più significative tendenze del tempo. Con uno spostamento di focus avvenuto nel corso della seconda metà del secolo scorso: dal ruolo “espressivo” svolto nelle dinamiche del potere e relative simbologie, primario terreno di caccia e riflessione del sociologo, a quello finalizzato alla riproduzione della ricchezza attraverso la riattivazione di mercati tendenti al saturo; oggetto di costante attenzione da parte delle branche più direttamente consulenziali/aziendalistiche (valga l’esempio mass-market) della pratica economica. Con una costante: la percezione della moda come fenomeno ambiguo, carico di aspetti inconfessati/inconfessabili. E qui veniamo al punto. Perché nonostante il costante riferimento all’estetica, siamo in presenza di una questione riguardante il posizionamento nella società come connotazione di appartenenza, in cui l’imposizione di un certo comportamento “alla moda” svolge – al tempo – funzioni di garanzia, che certificano ed evidenziano chi lo assume, e di consigli per gli acquisti assolutamente impositivi. Quindi un fenomeno storico di comportamenti indotti in materia di opzioni materiali, secondo obiettivi mutati nel tempo. Appunto, passando da ragioni retrostanti di tipo sociale a quelle – affermatesi nella seconda metà del Novecento – eminentemente mercantili. Un’evoluzione delle logiche che meglio si comprende evidenziando le differenze tra concetti che di solito vengono sovrapposti come equivalenti. In particolare tra moda e distinzione. La moda è un processo imitativo imposto dai signori del fashion, mentre la distinzione (un mix di gusto, stile e tono, produttivi dell’immagine percepita) riguarda le modalità di avvicinamento/distanziamento attraverso le scelte che incorporano gusti/disgusti per perimetrare la propria personale collocazione nello spazio sociale; che – al tempo stesso – diventano un messaggio di chiamata rivolto agli affini e una barriera di esclusione nei confronti di quanti si intende tenere a distanza, perché estranei. Se ogni epoca ha conosciuto modelli di eleganza oggetto di ammirazione – a cominciare da quello classico di Petronio “arbiter elegantiarum” – la moda come oggi la intendiamo ha una data e un luogo d’origine: la società di corte che Luigi XIV – il Re Sole – riunì nella struttura monumentale di Versailles. Per una ragione sostanzialmente politica, come ha ricostruito da par suo il sociologo tedesco Norbert Elias: nella Francia alla fine del XVII secolo un monarca consapevole dei rischi corsi dal trono durante la ribellione dei Grandseigneurs, detta “della Fronda” (1649-1653), trasforma la corte nel centro del potere assoluto e – al tempo stesso – nello strumento per tenere sotto controllo l’aristocrazia. Difatti la corte di Versailles comprendeva un complesso di edifici in grado di ospitare circa 10mila persone. «Soprattutto l’alta nobiltà, conforme ai desideri del re, dimorava quasi costantemente a corte»[9]; impegnata in permanenza nel gioco costosissimo di tutelare il proprio rango attraverso le pratiche del fasto – il feticcio del prestigio attraverso i simbolismi dell’etichetta – tendenti a riprodurre il modello regale. Con i relativi indebitamenti e i conseguenti esiti fallimentari, cui solo il favore del re poteva porre rimedio. Il lusso alla moda dagli effetti rovinosi per i grandi casati. Sicché, sul finire dell’ancien régime, il duca di Croy disse che «sono state le ‘case’ a distruggere la maggior parte delle grandi famiglie»[10]. Per quanto riguarda il fronte contrapposto, un dominio ottenuto attraverso l’accompagnamento strategico al consumo vistoso. Alla moda. Caduto l’antico regime, la società aristocratico-cortese fu sostituita da quella professionale-urbano-industriale; senza che venisse meno il ruolo “politico” dell’induzione di scelte estetiche espressive quale baluardo delle gerarchie vigenti. Continuando il ruolo dei vertici sociali nella promozione dei criteri di apprezzabilità. Il cosiddetto “trickle down”: la diffusione delle mode alle classi inferiori attraverso lo sgocciolamento da quelle superiori.[11] Su cui nel 1911 Georg Simmel scriveva il saggio “Die Mode”, probabilmente il più celebrato testo in materia del secolo scorso: «la moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale. […] La ragione fondamentale della sua efficacia è che le mode sono sempre mode di classe, che le mode della classe più elevata si distinguono da quelle della classe inferiore e vengono abbandonate nel momento in cui quest’ultima comincia a farle proprie»[12]. Dunque, una sorta di comunicazione non verbale; ancora una volta avente per argomento il proprio rango da conservare e una distanza da mantenere; in cui – come scrive Zavaglia – «gli abiti sono le parole»[13]. Con tutte le ambiguità del caso, colte con grande chiarezza dal sociologo berlinese: l’esigenza di adottare un modello che appaga la necessità di integrazione nel proprio gruppo e – al tempo – «il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi»[14]. Appartenenza e personalizzazione: una sorta di ossimoro concettuale. Cenerentola alla festa. Tuttavia – come già accennato – nella seconda metà del Novecento (e con un’accelerazione crescente nell’ultimo quarto) si manifesta un cambiamento significativo; che nessuno – Simmel in primis – aveva previsto. A riprova che questo è il periodo in cui la riproduzione del capitale in una società di massa diventa prevalente rispetto al mero controllo sociale attraverso l’esteticità (ormai perseguito attraverso la predicazione mendace della fine delle differenze di classe). A seguito del radicale cambiamento dei riferimenti concettuali del gusto. Nel passaggio dall’elitismo alla massificazione. Operazione in cui la moda rivela per intero la sua attuale funzione ancillare del business, quale propellente (drogaggio?) di acquisti a fronte di una domanda cedente; come esplicitava una signora della moda novecentesca del calibro di Coco Chanel: «la moda è quello che passa di moda… La moda deve morire e morire in fretta, affinché il commercio possa vivere»[15]. Infatti se per secoli – dal Re Sole a Simmel – il soggetto accreditatore e il primo acquirente del gusto tradotto in fashion, il “in voga” del tempo, era rappresentato dai supremi vertici dell’upper class, a partire dal secondo dopoguerra assistiamo all’entrata in campo di un nuovo soggetto; che egemonizza l’attenzione dei creativi come primario cliente del look (che – quindi – va progettato a sua misura): la fascia generazionale degli under 25; configurata come vera e propria classe sociale e che ormai ha acquisito capacità di spesa in proprio. Un’entrata che apre opportunità impensate per il raggiungimento dei “grandi numeri” (i volumi di massa) nelle vendite di prodotti mirati al nuovo target. Sempre più socialmente border line. Cambiamento epocale (declinato nel commerciale) che ci è stato descritto in dettaglio dallo storico inglese Eric Hobsbawm: «gli adolescenti che entravano nel mercato del lavoro a tempo pieno, dopo aver lasciato la scuola dell’obbligo, avevano un potere d’acquisto assai più ampio dei loro predecessori. […] Fu la scoperta di questo mercato giovanile che, a metà degli anni ’50, rivoluzionò la musica pop e, in Europa, quel settore dell’industria della moda che si rivolge al mercato di massa. Il boom delle teen-agers»[16]. Insomma, «per la prima volta nella storia delle favole, Cenerentola divenne la reginetta del ballo proprio perché non indossava abiti meravigliosi». E il suo successo induceva i creativi del fashion a proporre fogge sempre più dipendenti dai modelli praticati nei quartieri periferici e marginali della città. Il graduale arretramento fino all’estinzione delle aristocrazie borghesi dei centri urbani, con relativa perdita della capacità di irradiare moda e costumi, favoriva la corsa al borgataro-trucido come brivido trasgressivo; con cui sconfiggere la noia fatalistica (spleen) di ceti declinanti e anestetizzare le paure da perdita di status mimetizzandosi nelle moltitudini presunte “pericolose”. Come nella recente diffusione dei tatuaggi e altre manipolazioni del corpo a mezzo innesti; brillantini confissi nel naso come foruncoli luminescenti. Sicché, simboli un tempo esibiti da Yakuza, mafie siberiane e altre comunità “lombrosiane”, «sono diventato un bene di consumo simile ad altri»[17]. Per casalinghe di mezz’età e lampadati adiposi. Una subalternità psicologica con effetti a dir poco grotteschi. Come l’epidermide totalmente istoriata della star calcistica David Beckham; nella sua evoluzione da sportivo di successo a uomo-sandwich per loghi del consumo vistoso che ne trasforma l’immagine, un tempo icona della giovinezza glamour, in quella imbarazzante e vagamente sordida di un vecchiaccio malvissuto. Ci salverà la moda? Improbabile!. Una dinamica – al tempo definito “dell’esteticità diffusa” – che si intreccia con gli effetti di una fase storica in cui crescono i processi di ineguaglianza ed esclusione, mentre il nuovo potere si perimetra (e blinda nell’isolamento) ai vertici della piramide sociale. Da qui – seppure ritornato in modi sensibilmente diversi – il problema di evidenziare attraverso i gusti e le maniere il proprio posizionamento sociale. Non come elevazione bensì adeguamento conformistico al mainstream, che da mezzo secolo celebra i fasti del successo nell’ascesa sociale come accumulo purchessia di ricchezza. L’arrampicatore senza scrupoli che soppianta il gentiluomo vanesio e dolcevitaro. Per dirla all’italiana: dall’avvocato Agnelli a Silvio Berlusconi. Se dai tempi dell’antico regime fino al trionfo della borghesia l’appartenenza elevata era strettamente connessa alla nascita, ora – nella fluidità del formarsi delle nuove caste agiate non attraverso l’investimento, bensì tramite accaparramento ed esproprio – è la possessività dei nuovi ricchissimi a delimitare l’area del privilegio; che necessita di essere marcata mediante le pratiche del consumo vistoso come esibizione del rango conseguito. Lo spostamento di egemonia culturale per l’ascesa di nuove élites plutocratiche, anticipato da un’intuizione profetica di Charles Wright Mills risalente al 1956: «i gruppi installati al gradino più alto sono orgogliosi, quelli non ancora arrivati sono vanitosi»[18]. Lusso ostentativo irraggiungibile ma imitabile nei suoi surrogati, oggetto di deferente ammirazione (recenti sondaggi registrano il diffuso apprezzamento giovanile di modelli dell’arricchimento spregiudicato e di incerta origine alla Flavio Briatore). Concedendo a moltitudini crescenti di outsiders e NIP (not important person) l’opportunità passivizzante di omologarsi adottando modelli estetici “da outlet”, promossi dallo star system straccione mediatizzato. Gli eroi (ovviamente tatuati) delle Isole dei Famosi e dei Grandi Fratelli. Ancora una volta sia la distinzione che la moda non si rivelano né ingenue e neppure innocue. Così come i loro impatti sulle dinamiche sociali, tra esclusione e massificazione, a scelta. Secondo taluno l’effetto moda sarebbe l’aspetto meno inquietante, in quanto inclusivo, nei processi di ri-castalizzazione della società. Una sua ipotetica democraticità indotta dalla massificazione. Ma è proprio così? C’è da dubitarne, vista la problematicità di un assunto illusionistico che delegherebbe a processi di mercificazione il compito di promuovere una sorta di lookologia egualitaria; appunto, democratica. Quando – in realtà – siamo esposti a nuove manipolazioni delle propensioni di consumo attraverso l’imposizione di criteri estetici con (fasulle e diversive) pretese egualitarie; quando «è stato appena annunciato che gli otto uomini più ricchi del pianeta, nel loro insieme, possiedono un patrimonio pari a quello complessivo della metà più povera della popolazione mondiale»[19]. Mentre la presunta inclusione sta realizzandosi attraverso apparati di rimbambimento generale e di sterilizzazione dello spirito critico elevati a business. Proprio a partire dalle ultime generazioni, con indosso jeans griffati e accompagnate dal sound imposto al mercato globale dei teen dall’industria discografica anglo-americana. Come ebbe a dire Sir Iain Moncreiffe: «gente alla moda: i cretini di ieri con i pregiudizi di domani». Bloccati nell’odierno tempo immobile del giovanilismo. NOTE [1] E. Flaiano, Frasario essenziale, Bompiani, Milano 1986 pag. 106 [2] M. Douglas e B. Isherwood, Il mondo delle cose, il Mulino, Bologna 1984 pag. 143
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