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Il Giornale dell’Arte numero 392, dicembre 2018. Storico dell’arte, allievo negli anni Settanta di Giulio Carlo Argan, Luigi Ficacci, romano, classe 1954, ha lasciato la Soprintendenza di Lucca e Massa Carrara, che guidava (per la seconda volta) dal 2015, per assumere il 20 agosto la direzione dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro, orfano dal primo maggio di Gisella Capponi andata in pensione.
«La prima volta che sono entrato all’Icr (come si chiamava allora, Istituto Centrale per il Restauro, Ndr), ricorda Ficacci, era la fine del 1972, con Brandi, anche se mi ero appena iscritto a Lettere con Argan. Mentre stavamo guardando un restauro, un affresco staccato di Assisi, venne il direttore Pasquale Rotondi e strinse la mano a tutti noi studenti, una quarantina. San Francesco di Paola, dov’era allora l’Istituto, aveva una logistica indimenticabile: ogni stanza, ogni corridoio corrispondeva a un tema, una scienza, una conoscenza. E a una persona. Era una specie di cartografia metodologica, casuale naturalmente, però funzionava così».
Che cosa porta con sé dalle sue precedenti esperienze lavorative? Come possono aiutarla nella guida di un istituto così complesso, dove ogni funzionario è a capo di un progetto su materiali, periodi storici e territori tanto diversi?
Mi ispiro a Michele D’Elia, soprintendente della Basilicata dal ’77 e direttore dell’Icr dal 1982. Lui portava con sé la consapevolezza del territorio, le sue esigenze, specialmente quantitative: sapeva di arrivare in un luogo di alta specializzazione, cui opponeva l’urgenza della geografia italiana del patrimonio culturale, che vuol dire una «pressione» quantitativa e temporale assolutamente incomparabile con i tempi e i modi di un Istituto superiore, che decanta i problemi. Come lui diceva, il soprintendente ha a che fare con eserciti di santi e madonne, e al restauro si deve chiedere di far fronte a questa quantità, alla sua urgenza.
Quindi lei porta l’urgenza dei problemi e i modi di organizzarla e risolverla.
Solo la tutela territoriale ti abitua a questa urgenza, che è sia quantitativa sia tipologica e, poiché questo è un Istituto superiore, anche qualitativa, mentre il servizio territoriale ti obbliga a intervenire su tutto ciò che ha una valenza culturale. La consapevolezza di D’Elia nasceva dal sisma della Lucania del 1980, dove si era impegnato a costituire un ricovero per le opere danneggiate che funzionasse anche da laboratorio di restauro e da scuola di formazione. La sua angoscia era che l’alta formazione, e i numeri esigui che sfornava, non riuscisse a rispondere al fabbisogno del Paese. Per questo mi fa piacere l’attività molto selettiva dell’Istituto: non una conduzione diretta dei restauri ma consulenze e cantieri di formazione, per far sì che tutte le istituzioni, compresi i privati, abbiano le capacità, in termini di qualità e competenza, per poter intervenire in proprio.
Pubblico e privato virtuosamente insieme…
I cantieri sono variegati, non esclusivi: quelli di alta professionalità sono allo stesso tempo cantieri scuola, possono essere anche un’alternanza pubblico-privato, come a Treviso, dove l’Istituto ha molte attività. È lo specchio di una realtà che risponde alle esigenze dell’opera, alla formazione e all’aggiornamento di manodopera qualificata, alla diversità dei temi: dalla sala capitolare di Tommaso da Modena, a una facciata dipinta di inizi ’500 su cui stiamo per intervenire, ai rapporti con istituti locali come il Museo Bailo e la raccolta Salce, da cui un manifesto di Marcello Dudovich sta arrivando a Roma per la classe di restauro della carta.
Un legame forte col territorio.
Sì, anche da parte di molti funzionari, che venendo dalle Soprintendenze hanno portato qui le loro esperienze, selezionate per superiorità d’interesse e interdisciplinarietà. Ogni interferenza formativa dà al cantiere una motivazione e vitalità incomparabili, perché i cantieri sono fatti anche di psicologia, entusiasmo, fascinazione. È la conferma di ciò che ripeteva Michele Cordaro, e il senso originario del suo maestro Brandi: la manualità del restauro, e anche gli aspetti maggiormente scientifici e tecnologici, altro non sono che momenti di storia dell’arte.
Il che è fondamentale, perché riconduce ogni elemento alla condizione di ipotesi interpretativa, liberando le scienze dal loro scientismo, cioè dalla presunzione di risolvere tutto. Questo per gli allievi fa la differenza dalle altre scuole e ci salva dalla convenzionalità delle norme da applicare. L’Istituto si chiama «superiore» ma tra di noi lo chiamiamo ancora «centrale» perché questa è la sua vera natura: raccogliere dal territorio, elaborare, restituire. Una centralità non autoritaria, ma funzionale.
Che cosa le piacerebbe cambiare, o migliorare?
Due cose. Una peculiarità dell’Istituto, come dell’Opificio delle Pietre Dure che è il nostro gemello, è di essere strutturalmente una scuola. L’insegnamento ha modalità gestionali sue proprie. A un certo momento però ci si è trovati in una situazione di ritardo rispetto al riconoscimento abilitante del titolo di studio, nei confronti di altri soggetti come le Università o le Accademie di Belle arti.
Però state facendo progressi.
Molti, dopo un periodo drammatico addirittura di chiusura della scuola. Ora è in corso un recupero, grazie a un sistema abilitante misto Miur-Mibac che verifica la possibilità per i laboratori di restauro di essere qualificanti. C’è un controllo di contenuto, quindi di sostanza, che è periodico e soggetto a verifiche costanti. Intendo completare il percorso, coordinare i tempi ed eliminare le contraddizioni, per far recuperare a una serie di figure professionali la qualifica che meritano.
La seconda cosa che le piacerebbe cambiare?
Nell’Icr dell’immediato dopoguerra i riferimenti più intensi erano con i musei europei. Gilberte Emile-Mâle nei primi anni ’50 telefonò al suo amico Brandi, conosciuto quando il padre era direttore dell’Ecole française di Roma negli anni Trenta, per chiedergli delle restauratrici da lui formate all’Istituto per il laboratorio del Louvre. Oggi i Paesi europei non hanno più molto bisogno dell’Iscr, perché in molti casi, per forza di sistema, hanno organizzato bene il riconoscimento della professione in ambito sia pubblico sia privato. Lo scientismo però prevale spesso sull’aspetto umanistico creando una frattura, in cui la storia dell’arte si ferma e inizia il «positivismo» della diagnostica, della conservazione, dell’intervento di restauro, che in qualche modo porta a un nuovo pregiudizio. Il senso dell’Iscr invece, fin dalle origini, è nella collaborazione pienamente paritetica di tutte le discipline, nella parità operativa tra scienza, manualità e storiografia sulla concretezza dell’opera. È questa la rivoluzionaria impostazione voluta dai fondatori Argan e Brandi, con il sostegno del ministro Bottai, nel 1939.
Vuole esportare collaborazioni con altri Stati?
Abbiamo molti rapporti con Paesi extraeuropei, dall’Africa al Vicino ed Estremo Oriente, all’America Latina; spesso vengono richieste consulenze in nome e sulla base proprio di queste ragioni fondative. È il problema della postmodernità, superare la frattura tra i settori scientifico e umanistico: l’orizzonte che si apre è quello delle nuove connessioni e l’Iscr può farlo rinnovando l’attenzione sui criteri fondativi proprio nella concretezza del cantiere, nell’esecuzione del restauro. Questo porta con sé molto altro: per esempio, la messa in valore.
Che cosa ha in mente?
C’è una cosa importante che caratterizza l’Istituto: non c’è niente da inventare, c’è solo da mettere in valore il lavoro fatto, il pieno di esperienze. E agire sulle connessioni, che è la necessità del nostro momento postmoderno, dove non si chiede l’invenzione di qualcosa di nuovo ma la connessione di ambiti separati, che è in sé un’invenzione. In tutti i campi, anche nell’economia, nella moda… Affrontare questo problema generale dallo specifico della superiore qualità del restauro, vuol dire dargli concretezza. Ma ciò richiede una grande forza di gestione e organizzazione in tutte le attività afferenti a un cantiere: diagnostica, progettazione, manualità, studio, messa in valore, comunicazione. Ognuno di questi ambiti dev’essere ben organizzato, perché da questo riemerga il senso di unità come in una specie di geometria che si ricompone. Una multidisciplinarietà che dev’essere ricondotta a unità, a sistema, come già sosteneva Bottai.
Ha avuto degli scambi di opinione con il ministro?
Lo vedrò tra qualche giorno, sono stato chiamato da lui dopo l’incontro avuto a Matera, dove ha mostrato una personale attenzione verso la nostra scuola. Il ministro, che viene dalla direzione di un’Accademia, ha subito dichiarato di voler insistere molto sulla formazione, riconoscendo nella scuola di alta formazione Iscr di Matera una delle realtà su cui puntare per far sì che Matera 2019 non sia qualcosa di effimero, ma lasci strutture permanenti. Strutture come la nostra scuola, che lega volontà locale (è finanziata al 90% dalla Regione) al lavoro e al contributo del Ministero.
Che cosa gli chiederà?
Di insistere nel rafforzare con risorse umane la nostra capacità formativa, le professioni che l’Istituto comprende, con assoluta libertà di riverificarne la necessità. Di puntare su strutturalità delle iniziative e formazione, due aspetti che nel nostro caso si identificano. Una formazione che sia pure di prevenzione e manutenzione, in controtendenza rispetto alla perdita di committenza e sorveglianza pubblica che ha caratterizzato gli ultimi venti anni, probabilmente per scarsità di fondi e l’avanzamento di nuovi soggetti, per esempio la Chiesa e gli enti locali, che hanno ristretto le competenza dello Stato. È bene che questa pluralità di soggetti sia capace di garantire in proprio ciò che prima garantiva il solo Ministero. Ma non deve accadere a discapito di prevenzione e manutenzione, come è successo con l’indebolimento delle Soprintendenze.
Gli spazi al San Michele?
L’Istituto qui ha una logistica complessa. Gli spazi sono tanti e difficili, bisognerà dar loro leggibilità, una ragione architettonica.
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