Il Diritto alla Città Storica [di Vezio De Lucia]
Ecco l’intervento di Vezio De Lucia al Convegno Il Diritto alla città storica promosso dall’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli. (NdR) 1.Nella seconda metà del secolo scorso l’Italia ha fondato la cultura della conservazione e del recupero dei centri storici. Fu Antonio Cederna a capire per primo che la città antica è un complesso unitario, non un assortimento di edilizia minore e di architetture più o meno importanti. Leggo solo qualche riga da quel testo fondativo dell’urbanistica moderna che è l’introduzione a I vandali in casa, del 1956: Il pensiero di Cederna fu profondamente innovativo quando ancora prevaleva il convincimento che la tutela dovesse essere limitata agli edifici di rilevanza monumentale (chiese, palazzi, eccetera) mentre il tessuto edilizio di base era disponibile a demolizioni e sostituzioni per ragioni d’igiene, di traffico, di estetica. Era sempre in voga la teoria del “diradamento” di Gustavo Giovannoni (Vecchie città ed edilizia nuova del 1931), né va dimenticato che nel 1925 Benito Mussolini aveva impartito la direttiva che “i monumenti millenari devono giganteggiare nella necessaria solitudine”. Ai tempi della mia formazione universitaria era di moda l’“ambientamento”, metodo mai univocamente definito, volta a volta riferito a limiti volumetrici o a una sorta di mimetizzazione della modernità in ambiente antico. Quattro anni dopo I vandali in casa, l’intangibile unitarietà dei centri storici fu proclamata in occasione del 1° convegno dell’Ancsa – Associazione italiana centri storico artistici – a Gubbio nel 1960 (relatori Cederna e Mario Manieri Elia). In sintesi estrema: i centri storici non sono solo contenitori di monumenti ma sono essi stessi monumento, interi pezzi di città, vissuti e consumati, devono essere considerati monumento. Non molti sanno che la Carta di Gubbio fu ripresa dalla cosiddetta legge ponte del 1967 voluta dal ministro socialista Giacomo Mancini – uomo politico i cui meriti sono stati finora sottostimati – dopo la frana di Agrigento del luglio 1966. Pensate un po’, Governo e Parlamento danno forza di legge a un principio di tutela radicalmente nuovo, che solo pochi anni prima era stato elaborato sul piano teorico. Un altro grande merito della legge ponte – l’unica riforma urbanistica dell’Italia repubblicana – fu l’introdurre, fra i contenuti del piano regolatore, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici (per la prima volta la parola paesaggio compare in una legge ordinaria). La legge ponte subordina i nuovi interventi nei centri storici all’approvazione di appositi piani particolareggiati. Una soluzione all’apparenza labile e semplicistica che però, con il passare degli anni, dimostrò una sorprendente efficacia, in particolare perché i piani particolareggiati non furono mai approvati, mentre maturava la cultura del recupero. Anche per questo l’Italia è stata il solo Paese europeo che per decenni ha in larga misura salvato i propri centri storici, mettendo fine alle gravissime alterazioni, se non alle vere e proprie distruzioni avvenute nel primo dopoguerra. Dall’innovazione teorica alla legge, alla pratica operativa. All’inizio fu il piano del centro storico di Bologna dei primi anni Settanta, noto in mezzo mondo. Ma anche altre esperienze si svilupparono nei decenni scorsi, fra le quali non dimentico Taranto (che con Franco Blandino affrontò il recupero della Città Vecchia, addirittura prima di Bologna) e Venzone, magistralmente ricostruita dopo il terremoto del 1976, come sanno bene Marisa Dalai e Pierluigi Cervellati che ne hanno scritto. In seguito, fino alla fine del secolo scorso, si sono sviluppate le esperienze di grandi e piccole città, da Como a Brescia a Venezia a Palermo a Napoli. Fu l’età dell’oro dell’urbanistica italiana. Intendiamoci: allora, come sempre, in gran parte d’Italia, dettavano legge gli energumeni del cemento armato, ma fu un’età dell’oro perché era diffusa la speranza che le cose potessero cambiare, e la speranza era alimentata soprattutto da Bologna e dintorni. È in onore di quella stagione che oggi premiamo Pierluigi Cervellati che n’è testimone supremo. 2. Di tutto ciò restano oggi solo macerie, materiali e ideali. Non penso di andare fuori tema se dico che il disastro è cominciato quando Margaret Thatcher dichiarò che non esiste la società, esistono gli uomini, le donne e le famiglie. Che, nella nostra lingua, è come dire che non esistono le città, esistono le case; non esiste l’urbanistica, esiste l’architettura. La regressione non fu certo repentina, il primato italiano nel recupero è diventato a mano a mano ingombrante, è stato accantonato, poi rinnegato. Si è infine tornati alle pratiche selvagge del primo dopoguerra come quando Milano – sempre efficiente e frettolosa – rase al suolo il suo centro storico. La ferita più dolorosa viene proprio da Bologna e dall’Emilia Romagna che hanno negato la tutela dei tessuti edilizi storici per soddisfare la presunzione degli architetti di lasciare il segno nella città antica (vedi sulla locandina l’immagine dello scempio autorizzato grazie al piano regolatore del 2009). Da autorevoli uffici governativi e regionali fu stabilito che la ricostruzione dopo il terremoto del 2012 andava bene dov’era non com’era. Una via crucis la cui ultima stazione è la pessima legge urbanistica dell’Emilia Romagna approvata nel dicembre dell’anno scorso. Per non dire degli scenari sinistri che incombono a causa dell’esasperazione dell’autonomia regionale, per esempio del Veneto in materia scolastica … 3. Abbiamo cominciato a pensare al convegno quando si seppe che a Roma era possibile la sostituzione dei villini di un secolo fa con ordinaria speculazione edilizia, e che a Firenze era in discussione una variante al Prg (poi approvata) che cancella il restauro e consente di sottoporre a ristrutturazione edilizia gli edifici storici anche vincolati. Notizie che facevano seguito all’allarmante aggravarsi della situazione veneziana (8 alloggi su 10 di proprietà di investitori). I centri storici – a cominciare da quelli delle città d’arte – sono tornati così pascolo della speculazione e del malgoverno e, più di ogni altro male, sono affetti da gravi fenomeni di spopolamento. Non dovunque e non nella stessa misura, ma sono drammatici i dati sulla progressiva diminuzione dei cittadini residenti, massicciamente sostituiti da turisti e da attività legate al turismo, mentre nei piccoli comuni delle zone interne del Mezzogiorno (l’“osso” di Manlio Rossi Doria) sono dissanguati dall’emigrazione e abbandonati (con l’inaudita eccezione di Riace del sindaco Lucano). Da tutto ciò deriva il titolo del convegno. A cinquant’anni dal libro di Henri Lefebvre abbiamo “specializzato” il diritto alla città in diritto alla città storica. Sembra che, alla fine, paradossalmente, la degenerazione dei centri storici a opera del turismo si trasformi in fattore di valorizzazione delle periferie. Potevamo mai sospettare una cosa del genere, che la salvezza delle periferie venisse dalla rovina del centro? Uno scenario straniante, che ci costringe a un generale ripensamento, che comunque dà forza alla necessità di restituire il centro alla vita ordinaria delle città. E a questo proposito mi piacerebbe soffermarmi sul Progetto Fori che ebbe inizio giusto 40 anni fa, nel dicembre del 1978, progetto che è stato la prima e unica, geniale proposta di riappropriazione popolare del centro storico di Roma, mentre, tra l’altro, a Tor di Nona e a San Paolino alla Regola si realizzavano – sull’esempio di Bologna – interventi di edilizia popolare. Non sembrano passati quarant’anni, sembra che la linea della storia sia tornata indietro. 4. Convinti che non basta la denuncia, e con l’intento di impedire gli scempi di Firenze, di Roma, di Venezia, di Bologna abbiamo messo mano alla legge per la tutela dei centri storici di cui si discute nel pomeriggio. Non anticipo qui la proposta che sarà ottimamente illustrata da Giovanni Losavio. È il prodotto di un lavoro collettivo, cominciato nella primavera scorsa con un vasto concorso di esperienze, discusso più volte in riunioni allargate, e ringrazio Patrizia Marzaro dell’università Padova per i preziosi suggerimenti e Salvatore Settis che ha studiato e apprezzato il nostro lavoro. All’inizio abbiamo recuperato e cominciato ad aggiornare un antico disegno di legge di esclusiva competenza statale degli anni Novanta (quello elaborato da Antonio Iannello, fatto proprio da Walter Veltroni, al tempo ministro, poi archiviato su richiesta dell’Inu), un testo volto a sottoporre a tutela ope legis tutti i centri storici italiani come individuati dagli strumenti urbanistici comunali. Abbiamo poi tenuto conto del duro intreccio che lega la tutela all’urbanistica, lo Stato a Regioni e Comuni. E, quindi, all’intervento diretto dello Stato (con la dichiarazione dei centri storici come “beni culturali d’insieme”, e con divieto di demolizione e ricostruzione e di trasformazione) sono stati aggiunti una serie di “principi” di buon governo del territorio che devono essere recepiti dalla legislazione regionale. Qualche parola in più solo riguardo al contenuto, secondo, me più audace della proposta di legge, l’articolo 5, che riguarda il programma straordinario dello Stato di edilizia residenziale pubblica nei centri storici. Lo proponiamo essendo assolutamente convinti che, per quanto rigorose ed efficaci siano le norme di tutela, se non si affronta con determinazione il nodo dello spopolamento, il destino dei centri storici è segnato. Perciò serve l’intervento diretto e straordinario dello Stato, come nei casi di gravi calamità naturali. Di questo si tratta: lo svuotamento residenziale di Venezia è peggio dell’alluvione del 1966. La proposta prevede perciò interventi molto determinati, dall’utilizzo a favore dell’edilizia pubblica del patrimonio pubblico dismesso, all’obbligo di mantenere le destinazioni residenziali con la sospensione dei cambi d’uso, all’erogazione di contributi a favore di Comuni in esodo per l’acquisto di alloggi da cedere in locazione a canone agevolato (norma che vale soprattutto per i piccoli paesi). Infine, ma meglio di me lo dirà Losavio, consideriamo il testo non un punto d’arrivo ma un punto di partenza da sviluppare coinvolgendo settori interessati dell’ambientalismo, delle associazioni culturali, della politica, dell’amministrazione statale e regionale, del mondo accademico, sperando soprattutto che sia raccolto dalle aule parlamentari. Concludo. Sappiamo bene che è una proposta radicale: provocatoria ma concreta, l’ha definita Pierluigi. Non spetta a noi l’esercizio della mediazione con il mondo politico e parlamentare. Ci spetta invece formulare una soluzione coraggiosa, adeguata alla gravità delle cose, ma tecnicamente fattibile, questo penso che sia il compito di un’associazione culturale.
|