Identità e modernizzazione: modernità riluttante [di Pietro Soddu]

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«Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,/ le cortesie, l’audaci imprese io canto,/ che furo al tempo che passaro i Mori/ d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto /…» [Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, canto I, 1-4]. Il bellissimo incipit dell’Orlando Furioso mi è venuto stranamente in mente pensando a come iniziare il discorso sullo stato attuale dei piccolissimi comuni di cui parlano Salvatore e Vincenzo Ligios e più in generale a come commentare il tempo che ha visto la Sardegna impegnata a gestire la modernizzazione, (i “mori” provenienti dal mare che ai sardi “nocquer tanto” come sostiene la vulgata che da diversi anni domina il dibattito in Sardegna).

I libri di storia, di economia, di geografia, di sociologia, di politologia, di psicologia, di psichiatria, di criminologia, di musicologia e persino di gastronomia e in generale tutti i libri che trattano i temi della modernizzazione della società sarda, la descrivono come una violenta intrusione di elementi estranei al tessuto culturale, sociale e produttivo, intrusione alla quale la società ha tentato di resistere quasi sempre senza successo, soprattutto per colpa della politica.I vari elementi della modernizzazione, soprattutto l’industria, come i mori dell’Ariosto venuti dal mare, sarebbero i responsabili di tutti i mali di cui soffre oggi la Sardegna, compresa l’inarrestabile processo di decadenza dei paesi di cui parla il libro.I più sconsolati commentatori della realtà sarda ripetono in coro che la Sardegna deve tornare sui suoi passi, deve fare a ritroso il cammino percorso per correggere gli errori commessi cedendo senza reagire alle forze della modernizzazione.

Solo pochi osano affermare che ogni volta che siamo rimasti indietro nel cammino della storia per paura del mare aperto la nostra condizione non è migliorata ma peggiorata.Fermandosi a contemplare se stessi e la propria storia si evitano forse molti traumi provocati  dal cambiamento ma si aggrava la decadenza perché si rimane fuori dalla storia, fuori dal tempo a sognare donne, amori, cavalieri e audaci imprese mai realmente esistiti e vivere in solitudine, rancore, lutti, assoggettamento, sconfitte e lamenti, sempre lamenti per quello che potevamo essere e non siamo stati, per quello che potremmo essere se resistessimo alle influenze esterne e che invece non saremo se continuiamo a cedere come è fino ad oggi avvenuto.

Questo modo di pensare emerge nelle parole dei sindaci e nelle fotografie contenute nel libro; ma lo troviamo a tutti i livelli  e in tutti i luoghi della politica e della cultura. Lo troviamo negli scritti sulla questione sarda e quando sottovalutiamo che intorno a noi tutto cambia tumultuosamente e ci impone volenti o nolenti i modi, le forme, le regole e le strutture di una modernizzazione inarrestabile, “in polvere” come la definisce un noto antropologo indiano [Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Roma, Meltemi 2001] oppure  “liquida” secondo la definizione di un illustre sociologo polacco [Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Roma – Bari, Laterza, 2003].

La condizione dei paesi di cui si occupa il presente libro più che modernità in polvere, o modernità liquida si potrebbe definire modernità riluttante oppure tradizione in polvere e in frantumi, che però è l’altra faccia della stessa medaglia.

Guardando allo stato attuale della società sarda viene da pensare che la condizione originaria della sua cultura, la sua natura primaria più antica e profonda sia non di opporsi e contrastare il nuovo, ma di accoglierlo con riserva e solo temporaneamente, con l’intento di tornare allo stato di prima non appena possibile.Questa qualità, che potremmo chiamare “resilienza”, è ben diversa da ciò che chiamiamo “resistenza”. Con la resilienza il soggetto ricevente si adatta e si conforma temporaneamente secondo le esigenze di ciò che riceve, per tornare allo stato precedente appena viene meno la forza della presenza estranea. La resistenza è diversa, essa porta a rifiutare, contrastare, opporsi, combattere per avere la meglio, a cercare di non soccombere perché quando questo succede fa diventare tutti infelici.

È stato il carattere “resiliente” quasi certamente a consentire a queste piccole comunità di attraversare il tempo senza ribellarsi, senza dannarsi l’anima anzi adattandosi alle condizioni imposte da altri e a volte assecondandone la volontà e assumendo le apparenze più vistose del nuovo. Le strutture sociali, le regole, le abitudini, gli usi, i valori, le leggi comunitarie, le azioni, i giudizi, tutto ciò che si è formato nel tempo rimane e si adatta senza opporsi alle forze esterne, soprattutto a quelle che pretendono obbedienza anche quando sono in contrasto con le credenze e i modi di essere e agire delle varie comunità consolidati da lungo tempo.

Ma, una volta cessata la spinta innovativa, la società sarda con la stessa facilità è pronta a disporsi secondo le tendenze prevalenti e tutto torna come prima e, se non proprio come prima, in forme e modi compatibili con la cultura più antica e la precedente consolidata visione della società.

Il cambiamento provvisorio e spesso superficiale risponde non a una convinzione ma all’esigenza di non rischiare, di non apparire troppo in contrasto con le forze dominanti o attardati in posizioni anacronistiche, cioè  fuori del tempo.Molti comportamenti e strutture concettuali o sociali hanno resistito; ma la diposizione prevalente della società è sempre stata caratterizzata da un atteggiamento “resiliente” piuttosto che resistente. Questo appare chiaro ed evidente, e aiuta a spiegare come sia stato possibile alle vecchie categorie culturali di sopravvivere persino agli assalti della globalizzazione.

II

Quelli che criticano il processo di modernizzazione, sia quello avvenuto nella seconda metà del novecento sia quello in corso, lo dipingono come una catastrofe antropologica che ha corroso  l’identità, reso tutto uniforme e pregiudicato gravemente il futuro della società sarda. Il contrario di quanto sostiene l’antropologo indiano Appadurai, autore di “Modernità in polvere”,  il quale afferma che l’attuale processo di modernizzazione consentirebbe diversamente da  quelli del passato di mantenere ognuno la propria identità perché nessuna identità è obbligata ad assumere l’identità culturale  dei paesi più evoluti perché le tecnologie della comunicazione, lo sviluppo dei nuovi media, la forte crescente mobilità e altri importanti elementi dell’oggi, consentono a tutti di conservare la propria cultura senza integrarsi né subire egemonie  culturali che non esistono più. La nuova modernizzazione si limita infatti sempre secondo Appadurai, ad imporre le sue strutture tecniche, comunicative e strumentali, che sono totalmente indifferenti e neutrali rispetto alle diverse identità.

Questo carattere neutro della seconda modernizzazione consentirebbe a tutti di entrare pienamente nella nuova modernità senza tradire le vecchie identità, i vecchi codici, le vecchie lingue, i vecchi riti e le vecchie produzioni, le fedi religiose e tutto ciò che fa di un gruppo sociale un popolo, una comunità, una nazione.Tutti possono entrare nella rete usare la tecnologia adottare le strutture finanziari capitalistiche moderne senza dover cambiare la propria natura originaria.

Questa qualità neutra della nuova modernità renderebbe più facile il compito di realizzare ciò che tutti chiedono; fermare il declino della vecchia società e delle comunità locali, comprese quelle di cui si occupa questo libro, evitando allo stesso tempo di fossilizzarle, di museificarle, di trasformare antiche espressioni culturali in puro folclore o in anacronismi radicali come quello delle comunità Amish americane che rifiutano qualsiasi elemento e forma di progresso tecnico e continuano a vivere, pensare e produrre come se fossero ancora nel diciottesimo e diciannovesimo secolo. Il carattere della seconda modernizzazione eviterebbe di volere una cosa e il suo contrario, consentirebbe di entrare nel processo con la propria anima identitaria per competere da pari a pari con tutte le altre identità secondo le leggi della tecnica e non secondo canoni estetici, culturali, etici o religiosi imposti da altri. Questo perché non essendoci più canoni dominanti, ciò che conta è la qualità tecnica, la perfezione esecutiva, l’eccellenza del prodotto e non il suo contenuto e i suoi significati valoriali. Se la sfida è sostanzialmente solo tecnica, non religiosa, non ideologica,  ciò rende più semplice mettere d’accordo sostenitori radicali dell’identità e modernizzatori senza riserve.

La società sarda è in qualche modo un esempio importante, una prova vivente di come questo possa avvenire nella vita delle comunità e soprattutto dei moderni leader che usano l’identità come espediente retorico che ingloba tutto, dalle sagre della grande tradizione religiosa (Sant’Efisio, i Candelieri, Santu Antine, San Salvatore di Cabras, San Paolo di Monti, San Mauro del Mandrolisai, la Madonna di Gonare, i Martiri di Fonni, San Francesco di Lula, i riti magici di San Giovanni e i fuochi di Sant’Antonio) ai festival di musica jazz, alle sagre turistiche, alle cortes apertas,  a Sardegna canta, alle esibizioni dei cantanti di “Amici”, perché tutto è moderno e allo stesso tempo identitario.

Una cosa però è riconoscere che non esistono più canoni vincolanti  o che la civiltà e la cultura sono tante quante sono le comunità e che non esiste più l’obbligo di adeguarsi ad una egemonia temporanea, a una moda, un atteggiamento tollerante, rispettoso, inclusivo di ogni identità e di ogni cultura, altro è dire che non esiste uno spirito del tempo, una visione del mondo dell’uomo e della storia, una sensibilità a temi come la natura, gli animali  la diversità della specie, delle religioni, dei regimi politici, delle espressioni artistiche, della vita e della morte, della famiglia, della patria, dello stato dell’onore, delle passioni, dell’esistenza di Dio, del senso ultimo della vita, dell’eguaglianza, della giustizia sociale, del danaro, dell’essere e dell’avere, della poesia, della solidarietà, dell’accoglienza e tutto ciò che unisce e divide, che riempie di soddisfazione e o di dolore gli uomini di oggi, da ciò che secondo lo spirito del loro tempo univa gli uomini di ieri, li divideva, gli dava felicità o sofferenza.

Lo spirito del tempo è evidente in tutto, ma in modo più forte nel mondo dell’arte. Nella pittura questo spirito per quanto riguarda il primo novecento si trova in Biasi, Figari, Delitala, Dessy, Floris, Pietro Antonio Manca, i due Ciusa, Melis, Cabras e molti altri ma se guardiamo al secondo novecento lo spirito del tempo si trova meglio rappresentato nelle opere di Nivola, Mauro Manca, Aldo Contini, Maria Lai, Rosanna Rossi e Zaza Calzia, solo per citarne alcuni tra i più noti. Tutti quelli della prima metà e della seconda raccontano l’identità e la cultura sarda ma secondo un diverso spirito.

Se parliamo della letteratura chi può dire che la Deledda e Sebastiano Satta non siano identitari? Ma lo spirito del tempo della più attuale modernità e meglio rappresentato nelle opere di Sergio Atzeni o di Salvatore Mannuzzu o di Marcello Fois,  di Peppino Fiori o di Flavio Soriga o di Capitta, per non dire di Salvatore Satta.Lo spirito del tempo non è più quello di Deledda o Sebastiano Satta o dei murales dietro le fotografie dei sindaci ritratti nel libro, ma piuttosto quello rappresentato dai lavori dei più giovani scrittori e pittori, come Michela Murgia o Pastorello.

Altrettanto si dica della musica e del canto: le launeddas, il canto a tenore, il ballo tondo, le gare di poesia estemporanee sono senza dubbio identitarie. Ma è nel modo e nelle forme inventate con molta intelligenza e un po’ di astuzia  berchiddese da Paolo Fresu che ha risolto il problema unendo vecchio e nuovo, luoghi simbolici, monumenti archeologici, boschi ed altre espressioni artistiche del passato con la musica jazz interpretata da lui e da altri grandi artisti internazionali. L’identità secondo lo spirito del nostro tempo si esprime meglio, per fare un altro esempio, nella canzone  “hotel Supramonte” di Fabrizio De Andrè che non in  “Mamoiada ses tue immaculada” dei Tazenda. Se poi dalla pittura, dalla letteratura e dalla musica passiamo al campo della moda l’identità la troviamo certo negli antichi  costumi sardi e nelle più antiche maschere ma lo spirito del tempo è quello interpretato secondo la grande moda internazionale, da Antonio Marras.

La temuta e inarrestabile decadenza dei piccoli centri non si ferma pertanto difendendo il valore della vecchia identità e neppure seguendo quella parte che vive lo spirito del tempo nel senso della civiltà del consumo che vorrebbe trasformare comunità vive  in espressioni fossilizzate di un tempo che non è più e che sopravivrebbe in forme quasi museali.Non può quindi non apparire per lo meno strano e singolare, che siano proprio gli artisti a denunciare con forza i cambiamenti e le innovazioni tecniche nei processi di produzione materiale, a non volere che lo spirito del tempo da loro interpretato, influenzi anche gli agricoltori, i pastori, gli artigiani, i pescatori, gli industriali, tutto il mondo dei servizi e la qualità dei processi e dei prodotti del lavoro umano.

È possibile che essi possano credere che una società da loro stessi condotta verso costumi di vita, preferenze e giudizi in coerenza con lo spirito del tempo, resista agli stimoli, alle domande e alle provocazioni e alle onde del cambiamento che la investono da tutte le parti? L’idea di stare fermi mentre tutto il mondo cambia sotto la spinta della seconda modernizzazione appare non solo assurda ma anche molto pericolosa per il futuro non solo di queste comunità minori ma per il futuro dell’intera società sarda che per salvarsi devono entrare dentro l’onda del nuovo tempo, devono cercare un approdo che salvaguardi la loro natura identitaria e allo stesso tempo eviti la fossilizzazione. Devono adottare una visione rispettosa del passato ma aperta al futuro, preoccupata della sorte del vecchio patrimonio culturale, civile e materiale ma soprattutto devono promuovere l’ampliamento di tutte le forme di libertà offerte dal mondo moderno e post moderno e perciò diventando non un soggetto inerte e museizzato ma un soggetto vivo e operante che si confronta alla pari con gli altri mondi e con i possessori di codici anche molto lontami dai loro.

Questa è la lezione che viene dall’esperienza e questo ci dicono le ragioni dell’economia, le espressioni dell’arte e le conquiste della tecnica.  Tutto si tiene e si lega. Ogni cosa va esaminata in un orizzonte più largo che ci comprende e non esclude nessuno.

III

Aidomaggiore, Albagiara, Allai, Armungia, Assolo, Asuni, Baradili, Bessude, Bidonì, Birori, Boroneddu, Borutta, Bulzi, Curcuris, Elini, Esporlatu, Flussio, Genuri, Goni, Gonnoscodina, Ittireddu, Las Plassas, Lei, Loculi, Lodine, Martis, Modolo, Monteleone Rocca Doria, Nughedu Santa Vittoria, Onanì, Osidda, Pau, Pompu, Sagama, Semestene, Senis, Sennariolo, Setzu, Simala, Sini, Siris, Soddì, Tadasuni, Tiana, Tinnura, Ula Tirso, Ussaramanna, Villa Sant’Antonio, Villa Verde, Villanova Truschedu, che compongono con altri una galassia uniforme e differenziata allo stesso tempo, devono e possono essere salvati.

Per far questo occorre mescolare attentamente conservazione e cambiamento, modernità e tradizione, che come abbiamo visto non sempre sono in pacifica convivenza tra loro ma spesso, a causa di suggestioni antiche, interessi emergenti, nostalgie sentimentali, luoghi comuni e  stereotipi del folclore, entrano in conflitto e in crisi profonda come quella che avvolge molti di questi centri e minaccia di colpire l’intera Sardegna. Tutto questo richiama i giudizi che per lungo tempo hanno occupato le menti di politici intellettuali con le metafora della coscienza infelice, della costante resistenziale, della lingua tagliata, dell’universo di senso devastato dalla forme di una modernità imposta della forze economiche dominanti e dai poteri statali che hanno privato le comunità del diritto di decidere ognuna il proprio destino causando spaesamento, dipendenza, autonomia, perdita di ruolo e di prospettive future. Queste piccole comunità non possono rompere da sole il cerchio magico che le tiene rinchiuse e allo stesso tempo le conforta, le illude di sopravvivere e di avere un futuro che poi il tempo si incarica volta a volta di smentire.

Questo raccontano le immagini che ritraggono i sindaci circondati da oggetti, murales, bandiere, elementi naturali e ambientali specifici di ciascun paese, un misto di antico e moderno ancora irrisolto, simile alla condizione sarda descritta da S. Azteni, oscillante tra le antiche suggestioni nuragiche e i sogni di “bellas mariposas” oppure tra le suggestioni di “Paese d’ombra” e “Accabadora”, tra quelle di “Elias Purtolu” di Grazia Deledda e quelle di “Ferro recente” di Marcello Fois, tra quelle del canto dedicato ai rapsodi sardi di Sebastiano Satta e quelle contenute nei versi di Mannuzzu; tra quelle della tanca fiorita di Mura e quelle dell’ultimo Francesco Masala, oppure tra gli ovili del Supramonte e le stalle tecnologiche di Arborea, tra i telai manuali di Nule e di Sarule e sofisticate macchine tessili dell’ultima generazione; tra il cammino a dorso dell’asino e i viaggi con l’ultimo Suv super tecnologico.

Anche le immagini dei sindaci sono allo stesso tempo uguali e diverse, tutte segnate dalla stessa dominante malinconia ma anche da atteggiamenti e da atmosfere differenti e originali che comunicano messaggi diversi. Ne esaminiamo e commentiamo alcune cominciando dalla prima, da quella che riproduce l’immagine del Sindaco di Aidomaggiore. Una figura di donna allo stesso tempo antica e moderna; solenne, sacerdotale, quasi ieratica e fuori dal tempo, una Eleonora guerriera, giudice, legislatore e guida intellettuale e allo stesso tempo; una donna moderna, emancipata e colta, una donna che vuole conoscere prima di agire, di governare e di giudicare, stimolare, confortare, incoraggiare, unire, dare senso alla vita della sua comunità e al suo lavoro di Sindaco. Diverso è il senso della foto del Sindaco di Baradili, ritratto come se fosse un personaggio della vita agreste del grande murale alle sue spalle. Il Sindaco di Birori sembra anche lui un monumento nuragico come le pietre che gli stanno intorno e così anche i sindaci di Goni e Martis. Il giovanissimo Sindaco di Nughedu S. Vittoria esprime l’orgoglio del cavaliere pastore e la fiducia di un’economia fondata sull’allevamento. Il Sindaco di Onanì è la modernità scanzonata e quello di Osidda la modernità responsabile ma non realizzata se non nelle forme esteriori. Entrambi comunicano un’idea abbastanza chiara della malinconia di una modernità delle forme alla quale manca l’opera, il fare, manca l’essere dentro la storia che cambia. Diverso il messaggio della foto del Sindaco di Setzu. Una giovane madre con il suo bambino in braccio offerto allo sguardo di chi legge come la vera speranza dell’agire umano e politico. Oppure più semplicemente se non fosse lei la madre del bambino, il Sindaco che mostra a tutti che la vita deve continuare attraverso i nuovi nati. Il Sindaco di Sadali è l’energia della giovinezza che si presenta sola in tutta la sua forza e potenza. Quello di Tadasuni, in piedi al centro della strada sulla grande diga, sembra raccontare la fine delle illusioni che avevano accompagnato la prima modernizzazione e le grandi opere frutto del progresso e della tecnica del novecento. Lo stesso può dirsi del Sindaco di Elini, immobile e sconsolato in piedi tra due rotaie di una ferrovia dismessa. Infine il Sindaco di Tramatza, donna austera, forse persino troppo altera, ritratta davanti ad un murale di chiara derivazione rivoluzionaria, sembra richiamare tutti alla forza che viene dai movimenti popolari quando questi fanno proprie le idee di liberazione e di emancipazione che hanno quasi sempre accompagnato il cammino della modernità democratica. Tutte le foto hanno un fascino sottile e discreto, un senso mai troppo esplicito, com’è nello stile di T. Ligios che rifiuta il sensazionale, l’urlo, l’immagine di rottura e d’urto. Il lettore deve ricavare il giudizio con la calma della ragione che non rifiuta la suggestione ma la sottopone ad un esame severo fondato sulla realtà, sull’esperienza e sulla storia.

IV

La maggior parte delle immagini di Ligios dicono che per sopravvivere non basta diventare oggetto di curiosità e consumo turistico. Occorre produrre cultura e beni materiali, occorre essere attivi, occorre non essere solo consumatori e tantomeno passivi.  Purtroppo in Sardegna ancora manca un’elaborazione progettuale all’altezza del problema. Esistono solo vaghe proposte dirette a trasformare beni identitari in beni turistici non in prodotti di una moderna economia dell’identità –per usare una definizione americana basata però fondamentalmente sull’identità di genere e condizione sociale – , un’economia dell’identità che per nascere e affermarsi richiede studio, ricerca, richiede soprattutto genio creativo e impegno convinto soprattutto dalle comunità interessate. Richiede talento imprenditoriale, senso del rischio, coerenza con il senso del tempo.

Non basta richiamare saperi, sapori e profumi antichi, non basta esaltare costumi e musiche tradizionali, non è sufficiente rimettere in circolo vecchi prodotti con nuove confezioni. Occorre una nuova creazione sempre. Occorre invenzione e fantasia poetica. Al momento nessuno ha sostenuto questa linea ma piuttosto quella del mercato; cioè che per risolvere i problemi che angosciano i sindaci e i loro amministratori basti seguire le sue elementari regole. Come spiegare diversamente l’assegnazione del “Sardus pater” all’Aga Kan dopo che era stato assegnato a Giovanni Lilliu, cioè all’inventore della “costante resistenziale”? Nella seconda scelta, non si è trattato solo di confusione e improvvisazione ma di scelta consapevole di una particolare forma di economia, senza rendersi pienamente conto che in ballo non era solo la crescita ma anche l’identità. L’assegnazione del Sardus pater a Lilliu si fondava nella difesa dell’identità attraverso la valorizzazione produttiva moderna della propria cultura e delle proprie risorse, quello all’Aga Khan sommerge il valore identitario nel grande mare del consumismo che forse ne conserva il corpo ma certamente fa morire la sua anima. Lo spopolamento delle aree rurali e la concentrazione in grandi agglomerati urbani sono fenomeni molto diffusi in tutto il mondo che nessuno finora è riuscito a bloccare né tantomeno a invertirne la tendenza.

Il caso Sardegna non fa eccezione, ma la sua modesta dimensione lo colloca in una posizione di maggiore accessibilità a soluzioni innovative, a progetti che includano tutte le parti dell’isola nei processi di modernizzazione dell’ultima generazione fondati cioè sulle nuove tecnologie nel campo della comunicazione, dell’energia, dell’agricoltura biologica, della ricerca scientifica, del turismo alternativo a quello balneare, e dei servizi di alta qualificazione, capaci di assorbire forza lavoro limitata nel numero ma molto qualificata e molto mobile sia nella scelta della residenza sia nell’impegno lavorativo, così come sia pure in forme generiche aveva iniziato a fare il Presidente Renato Soru, non cercando di salvare queste realtà riesumando un sistema di presenza diffusa in tutto il territorio di molti servizi pubblici con i relativi posti di lavoro qualificati ma puntando sulle possibilità offerte dai progressi tecnologici in tutti i campi, dall’agricoltura all’industria, dai servizi, alla ricerca e alla sperimentazione e infine anche dal turismo alternativo a quello balneare. La politica successiva non ha fatto nulla, salvo richiamare le meraviglie del mercato per un problema non limitato alla condizione dei circa 25000 abitanti dei 50 paesi più piccoli della Sardegna, ma alla condizione dell’intera isola, delle sue aree rurali e delle sue aree urbane, della sua agricoltura, della sua industria e del suo stesso turismo.

Ma come tutti sanno il mercato non basta. Occorre che la classe dirigente, a cominciare dagli intellettuali, esca dalla contemplazione inerte di se stessa e del proprio passato prossimo o remoto e abbandoni la maschera di Narciso infelice che ripete a se stesso guardandosi allo  specchio che è tutta colpa loro, tutta colpa dei mori venuti dal mare. Per uscire dal lungo sonno degli ultimi decenni occorre una nuova visione, occorre coraggio e determinazione, occorre uscire dall’alternativa “resilienza – resistenza” e diventare fonte di energia indipendente, capace di agire senza essere costretta da altri.

Occorre essere visionari, nel senso di saper immaginare un futuro apparentemente impossibile e recuperare il tempo perduto saltando i naturali ritmi evolutivi, impegnando una generazione anche prima che sia arrivata la sua ora, utilizzando quote di sovranità responsabile per cancellare per sempre l’alibi delle colpe altrui, dei mori citati all’inizio. Il futuro non si costruisce tornando al passato ma costruendo un nuovo orizzonte, seguendo una visione diversa da quella che opprime e mortifica l’oggi o lo assoggetta alla necessità di soddisfare le spinte imitative promosse dal capitalismo consumistico.

Il futuro deve nascere dall’ambizione di costruire un sistema non ancora sperimentato, che ha solo in parte le sue radici nel passato, ma sviluppa i suoi nuovi germogli nel tempo ancora a venire.

Molti obietteranno che nessun futuro può basarsi su profezie visionarie, ma deve essere costruito su basi reali sperimentate e verificabili, attuabili ed affidabili. Ma questo è quello che è stato fatto, con l’unica eccezione richiamata, negli ultimi decenni, cioè fermando lo spirito della prima modernizzazione per paura dei cambiamenti. Tutti sappiamo quel che è successo: i fattori negativi del cambiamento sono rimasti quasi tutti in campo e quelli positivi non hanno fatto in tempo a sviluppare interamente le loro potenzialità. La società sarda è andata avanti per forza d’inerzia che ormai sembra giunta alla fine.

La forza naturale che spinge il progresso del genere umano non è come il meccanismo inesauribile dell’universo. Essa va rinnovata di continuo, si basa sull’innovazione, la scoperta, l’invenzione, l’uso di tutti i fattori naturali guidati dall’intelligenza umana. La forza è l’intelligenza umana. I suoi modi di essere si devono però rinnovare di continuo. Tocca all’uomo scoprire i modi giusti nel momento giusto. Per questo è stato creato, questo è il suo compito e il suo fine nell’ordine naturale. Fermarsi vuol dire rinunciare alla natura umana, ridursi a un essere come tutti gli altri esseri.

Per essere pienamente umani occorre una totale disponibilità a mettersi in gioco e una grande ambizione alla conoscenza e al progresso simile a quella che Dante mette in bocca ad Ulisse:

«Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguire virtute e conoscenza».

*Da”Gli Atlanti. Tracce di Identità” di Salvatore e Vincenzo Ligios, litografie e video. Soter Editrice, 2013.

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