La negazione delle donne [di Maria Antonietta Mongiu]
L’Unione Sarda 3 gennaio 2019. Il Commento. L’adagio del “Giorno del giudizio” di Salvatore Satta sull’esserci solo perché c’è posto, riferito alle donne ma in realtà a tutti perché tutti inessenziali, scava come un fiume carsico e non smette di interrogarci. La statistica che vede la Sardegna al quarto posto per violenza sulle donne scardina, irreversibilmente, retoriche e luoghi comuni su matriarcati e matricentricità; e riassume un humus di negazioni profonde, ancestrali, antropologiche, sottolineate persino dalle modalità degli ultimi femminicidi. L’emergenza impone, in prima istanza, di interpellare chi opera negli spazi pubblici e privati: dai centri antiviolenza alle forze dell’ordine; dalle amministrazioni statali agli enti locali; dalle iniziative culturali, disseminate nel territorio, all’educazione sentimentale. Che fare, accertata l’interdipendenza tra violenza e desertificazione pedagogica, di cui raccontano Invalsi, Ocse Pisa, Istat, Censis? Cosa aspettarsi da luoghi deprivati di pedagogie se non accadimenti tragici che spazzano via consolidati paradigmi sulle nostre comunità? Perché se la violenza agisce in Sardegna contro le donne e, a ritmi compulsivi, contro gli amministratori locali, a maggior ragione, la negazione delle donne, di cui il femminicidio è gesto finale, interpella, in forme dirimenti quanto dirompenti, la politica. La sovrasta come un macigno perché della negazione delle donne la politica è il convitato di pietra se non addirittura il pontefice massimo con officianti che vanno moltiplicandosi. In Sardegna è sintomatica persino l’estetica delle prossime elezioni, referente com’è dell’invisibilità e dell’ininfluenza delle donne nel massimo luogo della decisione, la politica appunto. Se ne deduce che un’iconografia che cancella oltre metà della popolazione consegna alla storia l’ètos malato della Sardegna e la sua latente disfunzionalità. Fallita ogni operabilità dei decisori politici, esageratamente disponibili verso le donne negli slogans, urge scomodare le categorie gramsciane. Rinvengono, in Sardegna, nella crisi culturale le ragioni della crisi della politica che non ha ancora capito l’assunto di Simone de Beauvoir che «donna non si nasce, lo si diventa» e che percepisce le donne sospese tra inadeguatezze di alcune, replicanti modi e ruoli maschili, e di altre che agiscono una femminilità accattivante e in vendita per un niente di potere o di credibilità. A manca e a destra, perché quando si tratta di negare l’alterità, sfumano le differenze tra visioni ideologiche. In entrambi gli schieramenti di norma le donne sono vissute, indistintamente, ancillari, costrette come sono a subire la coazione del disconoscimento. Si pensi a come Berlusconi cercò di salvare la faccia garantendo quote rosa, persino più del richiesto. Ma plus e selezione, secondo i tribunali, erano degni del backstage di cui #MeToo ha squarciato il velo. La rappresentanza di quella fase fu la migliore espressione della donna ridotta a “femmina”, per dirla sempre con Simone de Beauvoir. Non tutte le donne transitavano per luoghi innominabili, ma la percezione costruì un imprinting che ha segnato politica e cultura e il rapporto con partiti e istituzioni. Non fu esente la sinistra, tanto che nella resuscitata “TV delle ragazze” compare la “sconosciuta del Pd”, impossibile nel PCI dove c’erano la “gregaria” e, anche, la “groupie” ma insieme al corrispettivo “gregario”. La mutazione dei partiti ha messo in crisi lo schema che nell’isola ha resistito se la stessa invenzione, nella XIII Legislatura, del listino di donne fu in realtà la foglia di fico di uno schema correntizio, suggestivo mediaticamente quanto inefficace nel mutamento del punto di vista. Ci si chiede pertanto se la vexata quaestio della mistica di genere e della solidarietà tra sorelle abbia ancora domicilio e se le donne di diversa sensibilità, comprese le cooptate a vario titolo, abbiano pari autorità. E’ un caso se la rappresentanza femminile più cospicua oggi in Parlamento è del M5Stelle, senza le battaglie campali che hanno stremato le donne di altre appartenenze su cursus honorum, gregarietà, selezioni variamente organizzate o curricula? Basta un clic degli amici. Sul merito la macchietta della “sconosciuta del Pd” mette al bando moralismi e critiche perché comunque il numero delle donne in Parlamento è aumentato come mai prima. Cambierà la politica? E’ avvenuto nelle professioni e in Europa nei piani alti della politica perché statistiche e massa critica hanno fatto la differenza. Aumenteranno insieme le contraddizioni sulla definizione di genere e su quel grumo, sempre sottaciuto, del rapporto tra donne e potere. Un irrisolto anche per intellettuali come Rosa Luxemburg o Hannah Arendt, che fece in tempo a vivere il 68 e, nel suo melting pot, intravvide l’irreversibile e planetaria rivoluzione femminista, pacifista e, finalmente, nella forma organizzata e politica. Quella che vuole mettere in piazza il “problema senza nome” tuttora all’ordine del giorno. Si chiama assenza di una necessaria presenza. Solo un diffuso femminismo infatti che oltrepassi il ruolo di genere, non meno oppressivo e prevaricante del paradigma che vuol ribaltare, e la questione di genere come un problema di minoranze, consente protagonismo e rappresentanza, condizioni necessarie per cambiare sguardo di donne e di uomini. Perché quando le pari opportunità non saranno concessioni o improvvise cooptazioni sull’onda di estemporanee emotività si sconfiggeranno disconoscimento e negazione delle donne, terreni di coltura del muliericidio di massa, ancora più devastante del femminicidio. |
C’ è una cosa che mi lascia più sbigottito del vento cosiddetto identitario che va gonfiando le vele d’ogni partito d’”ordine” d’Europa ( per tacere del Nord e Sud America, i Trump e i Balsonero), ed è la risposta che i maschi del mondo stanno dando al sacrosanto tentativo che le donne vanno finalmente facendo per minare alle radici il totem marcio del Paternalismo che ha sin qui dominato le sorti del nostro pianeta, con esiti a dir poco non esaltanti. Le massacrano, le riempiono di botte, poi le uccidono. In Pakistan, paese dei “puri” (dal persiano pàk) va molto il lancio in faccia di acido solforico. Ora, mi direte, che da che mondo è mondo è sempre andata così, ma a mio avviso, il fenomeno si sta dilatando a mò di diga crepata che minaccia inondazioni più mortifere ancora. Se ne accorgono persino le Istituzioni. Nella nostra Lombardia in ogni provincia c’è finalmente un centro antiviolenza, nel 2018 (fonte “la Repubblica” del 13 novembre) sono 4.000 le donne che hanno suonato i loro campanelli. Prima erano passate dai pronto soccorso per farsi curare fratture, lividi, morsi. Procurate loro da “compagni”, “mariti”, “amanti”, per lo più. A uno di quei corsi che i giornalisti sono tenuti a seguire per la professione professionale ( 6 crediti formativi, mi pare si debba arrivare a 20 annuali) ti dicono che, sempre per lo più, queste donne sono di bassa scolarità, hanno lavori precari, spesso figli a carico. Ma anche che a prendere le botte sono borghesi laureate, da mariti con altrettanti titoli di studio. Insomma a massacrare sono maschi d’ogni tipo e professione. Non c’è un tipo classificato dalla scienza psichiatrica che ne certifichi la “malattia”, ma spesso questi soggetti, i “maltrattatori”, hanno caratteristiche comuni: sono “seduttori seriali”, tendono ad isolare le loro vittime, il loro “amore”, manifestano una gelosia fuor del comune, non riescono a controllare scatti di collera improvvisi (per una pasta scotta può partire un ceffone). Per passare dalla parte delle maltrattate non occorre patente, basta essere donne. Ora: una delle cose che ho sempre fatto fatica a capire (ma alora g’avevi vint’ann) quando una delle mie aspiranti fidanzate si ostinava a stare con un tipo che, a giorni alterni, le faceva un occhio nero, era la “spiegazione” che me ne dava: “Sergio, il legame sado-masochistico è uno dei più forti che ci sia”. Lei studiava da psichiatra, il suo ganzo era già ingegnere. Del legame servo-padrone di hegheliana memoria oggi ne so qualcosa di più ma, da maschio, mi rendo conto che il Paternalismo che mi pervade mi rende in qualche maniera ancora cieco al fenomeno a cui guardo con orrore, ma con un senso di impotenza altrettanto grande. Certo finché anche i giornalisti davanti ai sempre più numerosi femminicidi (mi sono convinto ad usare questa orrendo neologismo per definirli in maniera militante) riempiranno le loro cronache di “raptus”, “follia amorosa”, e belinate di questo tipo, di passi avanti se ne faranno pochi, in consapevolezza. La televisione poi titola i suoi programmi di punta con ossimori tipo “Amore Criminale”, occorre davvero mettersi d’accordo una volta per tutte: se in una coppia c’è amore lui non la uccide ne la picchia, mai, mai! Dalla Politica nostrana poco da aspettarsi, il ventennio che abbiamo alle spalle è complice di questa deriva culturale, inutile rimarcare il ruolo che il Boss di allora riservava alle donne, persino il Parlamento era stato indotto a tramutare, col voto di maggioranza e non con una bacchetta magica, lo stato di una povera minorenne marocchina che si prostituiva per fame, in quello della privilegiata “figlia di Mubarak”. Oggi il “governo del cambiamento” ha affidato il ministero della famiglia ( e della disabilità) a tale Fontana Lorenzo, leghista DOC, andate a leggervi sul web le dichiarazioni su quella che per lui è l’unica “vera famiglia” degna di esistere su questa terra, che dio ne scampi. E aiuti le donne a mantenere i diritti che le tutelano (aborto, divorzio). Come uscire da queste nebbie culturali che offuscano la presa di coscienza di uomini e donne insieme avvinti in questa follia di comportamenti, di rapporti malati che sfociano in delitti atroci dei più deboli, delle donne. Io che vedo nella letteratura un mezzo potente di fare luce nella realtà quotidiana, ho trovato nel libro “Tango Rosso” (golem Edizioni) di Maria Antonietta Macciocu, una risposta davvero illuminante. Maria Antonietta è di Sassari e benché viva a Torino da molti anni non ha perso l’accento sardo. E’ col suo libro alla festa dell’Unità lo scorso 28 agosto, “invitata inconsapevole” dice lei, e me ne regala una copia chè , in contemporanea, c’è Luigi Manconi col suo: “Non sono razzista, ma” (Feltrinelli). Non ho dubbi quale dei due sia più bello e utile in assoluto, Tango Rosso è la storia di un “amore malato” che si dipana per 170 pagine con un ritmo calmo e altrettanto inesorabile. Ricamato a filo d’argento da una scrittura ricca e densa, che non induce a melensaggini da “romanzo rosa” ma anzi ti squaderna una storia talmente normale, nella sua tragicità, da lasciarti col fiato sospeso. Una sorta di tragedia classica, dove gli dei che designano i destini degli umani, ritagliano alla donna del libro un cammino sempre più intricato, quale mosca nella tela del ragno che più cerca di muoversi e salvarsi più rimane invischiata. Il lui è quel tipo che vi dicevo sopra, gran seduttore, fantastico amante, ricco persino. Vuole il suo “amore” tutto per sé, non lo spartisce né con amici né con parenti. Non vuole che lavori, del resto non guadagna lui per tutti e due? Lei deve rimanere la “regina della casa”. La sua regina, per sempre. Davvero impeccabile nella descrizione di un rapporto che si dimostra sfociare nella patologia coi gesti quotidiani di una reiterata e mal interpretata volontà d’amare. Al di là persino dei comportamenti di violenza psicologica e fisica ( neanche numerosissimi questi ultimi) che pur dovrebbero mettere in guardia la protagonista del libro. Farla fuggire, salvarsi da una violenza che ti annienta giorno per giorno, che ti fa perdere la considerazione di te stessa. Finale neanche tanto scontato, persino improbabile date le premesse. Persino spiazzante. Impeccabili i dialoghi, i tipi psicologici che emergono, la scrittura che accompagna la tragedia tenendola per mano, col ritmo sincopato del cuore che accelera dinanzi al pericolo che si palesa improvviso, quasi un alieno che si materializza nel mentre la vita mantiene i ritmi di sempre. Scrive Laura Onofri nella post-fazione: “…SeNonOraQuando?Torino, associazione che combatte la violenza sulle donne con un lavoro di tipo culturale (la Macciocu ne è attivista), è convinta che il passo indispensabile per cambiare il paradigma della violenza sia abbattere gli stereotipi. Per sconfiggere una cultura sessista e maschilista che continua ad alimentare l’idea che una donna sia una cosa che possa essere posseduta, o una funzione: madre, moglie, sorella, fidanzata, ma non una persona libera, che si autodetermina…” (pag.172). Sono assolutamente d’accordo.