La falsa idea di normalità e i femminicidi [di Daniele Pulino]

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La Nuova Sardegna,  5 gennaio 2018. Nel corso dell’ultima settimana la morte di Michela Fiori ha dato vita a un ampio dibattito sui giornali e sui social network, dal quale emergono almeno tre temi.

Il primo è relativo all’opportunità di introdurre pene specifiche e maggiormente severe, quando non un vero e proprio trattamento differenziale degli autori. Il secondo ruota intorno al sistema di tutele per le donne vittime di violenza, ovvero alla proposta di politiche maggiormente efficaci. Il terzo tema si concentra sul ruolo del gioco patologico nella situazione specifica che ha portato all’omicidio di Alghero.

Credo sia utile inquadrare questa discussione anche alla luce del lavoro di ricerca sulla violenza in Sardegna che portiamo avanti come Osservatorio Sociale sulla Criminalità.

Se ci si sofferma sulla questione della pena, forse è vero che, come sostengono alcuni, un reato specifico eserciterebbe una funzione simbolica di riconoscimento pubblico della violenza di genere. Tuttavia, in termini di deterrenza o di prevenzione, l’aumento della pena non avrebbe probabilmente alcun ruolo, se non quello di appagare l’opinione pubblica. Specie se si pensa che molti di questi fatti si concludono con il suicidio dell’autore.

Per contro, di fronte allo sgomento che questi omicidi suscitano, una riaffermazione dell’operato delle istituzioni esistenti appare fondamentale per affrontare l’angoscia collettiva. Sul piano delle politiche, infatti, è doveroso sottolineare i meriti della rete dei centri antiviolenza diffusi in tutto il territorio nazionale.

Questa rete – che nasce da esperienze con una storia ormai quarantennale legata ai movimenti delle donne – non solo ha contribuito a estendere la consapevolezza rispetto alle violenze di genere, ma allo stesso tempo ha consentito la costruzione di metodologie di intervento efficaci, anche nell’Isola. Per questo sarebbe utile concentrare l’azione pubblica sul potenziamento di queste esperienze, visto che in molti casi la solitudine della donna pare un elemento comune nel processo che conduce al delitto.

C’è qualcosa di più sul quale dovremmo orientare le nostre riflessioni. I dati sono noti:  circa il 50 % degli omicidi di donne sono compiuti da partner o ex partner, mentre nel caso degli uomini solo il 3,5% si consuma all’interno di una relazione. Pertanto i femminicidi nascono all’interno dei frammenti di relazioni amorose, quelle che nell’immaginario sentimentale degli italiani, come mostrato da Gabriella Turnaturi, occupano lo spazio dell’unica esperienza accessibile a tutti.

È questa una delle ragioni per cui i femminicidi ci colpiscono profondamente, spingendoci però ad allontanare da noi l’idea che possano essere parte di ciò che consideriamo umano. Anche per questa ragione occorre considerare un’ulteriore questione, sottolineata più volte da Antonietta Mazzette, secondo la quale esiste un monopolio maschile della violenza.

Vale a dire che la violenza viene agita dagli uomini in modo imparagonabile rispetto a quella posta in essere dalle donne. A questo proposito appare utile ricordare quanto sostenuto da Pierre Bourdieu in un noto saggio sulle disuguaglianze tra i generi.

Così come le donne vengono sottomesse attraverso un lavoro di socializzazione che le addestra alle virtù negative dell’abnegazione, della rassegnazione e del silenzio, dice Bourdieu, “anche gli uomini restano prigionieri, e subdolamente vittime, della rappresentazione dominante”, il che li spinge a dover continuamente dimostrare di essere veramente uomini imponendo, tra l’altro, un’attitudine diffusa all’esercizio della violenza.

Piuttosto che pensare all’esistenza di mostri, potrebbe essere utile ripartire da qui per lavorare al cambiamento culturale di una falsa idea di normalità.

*Ricercatore Osservatorio sociale sulla Criminalità, Università di Sassari

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