La campionessa e la passione per la Medicina [di Maria Francesca Chiappe]

Daniela Porcelli

L’Unione Sarda 13 gennaio 2019. Polvere di stelle. Daniela Porcelli ha partecipato alle Olimpiadi di Mosca. «Lo sport? Una parentesi della mia vita». Non ci voleva andare. «Digli di no». La maturità classica era la priorità, il resto veniva dopo. Pure le Olimpiadi.

Daniela Porcelli aveva 19 anni e un caratterino di quelli. «Aresti, mi chiamavano così». Selvaggia. E testarda. Aveva ottenuto il minimo per andare a Mosca 1980, i Giochi del boicottaggio. «A Palermo avevo corso gli 800 in due minuti, due secondi e nove centesimi».

Eppure non bastava. «La Nazionale mi chiedeva di confermare il tempo». E lo aveva fatto, ai campionati italiani, seconda dietro Gabriella Dorio. Ma era successo qualcosa, perché volevano un’altra conferma. Allora si era arrabbiata. «Digli che non ci vado». Pompilio Bargone, il suo allenatore, era distrutto: in meno di quattro anni l’aveva portata ai vertici dell’atletica nazionale e ora… In qualche modo l’aveva però convinta. «Dopo lo scritto di Greco la commissione mi ha anticipato l’orale». Ha preso il suo 56 su 60 ed è partita. «Ho corso malissimo, ero scarica, al traguardo avevo perfino le scarpe slacciate».

L’altra vita.  Nel salotto della casa che divide col marito Angelo conosciuto, manco a dirlo, in pista, i ricordi riemergono al centesimo di secondo: città, date, gare, record, medaglie, vittorie, sconfitte, infortuni. Niente è cancellato, anche se «lo sport non è più la mia vita». Medica di famiglia con 1.500 pazienti, non si allena neppure per sbaglio. E se conserva lo stesso fisico dei 15 anni è «solo costituzione o forse perché lavoro tanto, mattina e sera, visite a domicilio e ambulatorio, cinque giorni alla settimana. E non dicano bugie, i medici ci sono ma la Assl non li assume».

La neve. Le corse? Un ricordo. Lontano eppure vivo, vivissimo. La prima volta con la Nazionale in Canada coincide con il freddo della neve mai vista: «Mi ero lanciata con lo slittino ed ero finita in un bel buco. Ero la più giovane, avevo 17 anni ed ero stata presa in consegna dai marciatori. I pesisti, invece, sedevano vicino a me a tavola: mangiavo poco e quel che lasciavo era tutto per loro».

I cinque cerchi. Mosca, poi. «Ho visto quasi nulla, giusto la piazza Rossa, non ci potevamo muovere dal villaggio olimpico se non con i pullman. In compenso scambiavamo dollari con rubli a condizioni vantaggiosissime e c’era pure una borsa nera dove ho venduto i jeans di Malinverni, campione dei 400, a sua insaputa: l’ho costretto a levarseli». Olimpiadi strane, l’Italia c’era ma non c’era: aveva aderito a suo modo al boicottaggio Usa contro l’Urss. E allora con tutta la squadra Daniela Porcelli ha cantato a squarciagola l’inno di Mameli sopra quello del Comitato olimpico quando Pietro Mennea e Sara Simeoni hanno vinto l’oro, e per lei come per tutti è stata una delusione indossare la maglia del Coni invece di quella azzurra e non sfilare alla cerimonia d’inaugurazione. «Non ci hanno fatto partecipare a niente».

Il muro. Di quell’Olimpiade non dimentica le atlete dopate: «Hanno avuto gravi problemi di salute, vite spezzate da infarti e tumori per una medaglia. Per le ragazze dell’Est lo sport era il modo per scavalcare il muro, forse per loro è valsa la pena, per gli altri proprio no».

Il liceo. Ha iniziato per caso: una sua compagna al Dettori, Annina Demontis, l’ha vista correre e ne ha parlato con la sorella Rita, affermata velocista fidanzata con il coach del Cus Cagliari. «Mi sarebbe piaciuto il nuoto ma mia madre aveva detto no». Invece al campo Coni la aveva accompagnata, e dopo aveva detto sì. Ed è nata una stella. «Non ero troppo convinta ma era un modo per uscire.

Mio padre ripeteva: se prendi un brutto voto stai a casa». Ma se in pista volava a scuola era la più brava. «Stavo cominciando a divertirmi». Ha girato il mondo e dopo i Giochi ha detto basta. «Gradualmente, il ritiro definitivo è stato nel1988 quando mi sono laureata in Medicina». Il filo che la legava al mondo dello sport si è allentato ma non spezzato visto che i primati italiani juniores nei 400 e negli 800 sono ancora suoi. Quarant’anni dopo.

La Medicina. Sorride la dottoressa ex campionessa, e un filo di emozione supera la montatura degli occhiali per spandersi sul volto. «L’atletica è divertimento altrimenti diventa lavoro e va retribuito». Ma i suoi progetti erano altri: «Avevo i miei sogni, la Medicina, contro il parere di mia madre che mi voleva insegnante e di mio padre che vedeva in me una chimica». E la vittoria, il filo di lana, il podio, le braccia che non ha mai sollevato al cielo?

Un attimo e il pensiero è di nuovo sulla pista: «È vero, mettevo le mani sui fianchi, Pompilio mi diceva: “non hai dato tutto sennò ti saresti buttata a terra stremata”». Era solo timidezza. Oggi, invece? «Lo sport è una parte della mia vita». In altre parole: più dottoressa che campionessa. Anche se segue ancora tutte le discipline «tranne il calcio e il ciclismo». I suoi pazienti non sanno dei suoi trascorsi e quando lo scoprono la sua risposta è sempre quella: «Ma che devo fare? Mica ho un cartello con scritto, scusate, sono andata alle Olimpiadi».

L’impegno. Ride di cuore, sotto lo sguardo del marito Angelo, docente universitario di Geologia, al suo fianco da 29 anni. «Il matrimonio è come una gara, devi arrivare fino in  fondo». E lei fino in fondo è arrivata pure quando un’avversaria le ha piantato i chiodi delle scarpette sulla gamba. «Il talento non basta, devi metterci la testa. Ci vuole sacrificio, nulla ti viene regalato, ogni cosa devi sudartela e non solo fisicamente. Bisogna impegnarsi, niente è facile».

L’atletica le ha fatto almeno due regali: «Mi ha insegnato ad aprirmi verso gli altri, atteggiamento fondamentale nella mia professione». E a gestire il tempo: «Lo sport educa al rigore, insegna a far bene le cose». Tutte. Anche quelle divertenti.

 

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