Che fastidio le donne che parlano di sesso [di Cristina Da Rold]

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L’Espresso.it 18 gennaio 2019. Usare lo stesso linguaggio maschile è una forma di emancipazione o no? Anna Salvaje lancia la provocazione:  «Giocare con le parole esplicite, ridicolizzarle e riderne è un modo di togliere loro potere. E anche questa è politica.».

Monica Lanfranco: «Il linguaggio patriarcale non si dissacra facendolo nostro». «Non avevo alcun intento politico. Stavo vivendo una storia amorosa clandestina con un ragazzo molto più giovane di me. Il blog e i profili sui social erano una dedica a lui, un gioco fra me e lui. E mi eccitava l’idea che altri, del tutto sconosciuti, leggessero di noi. Le reazioni hanno sorpreso anche me. In qualche modo loro sì che sono “politiche”: mi insultano e scrivono con gratitudine in centinaia.»

Che lo si consideri un bene o un male, un reale dibattito o semplicemente rumore confuso, la partecipazione alle discussioni sui social network, quando è massiccia come nel caso dei profili Twitter e Facebook di Anna Salvaje non può lasciare indifferenti. Sono centinaia le donne, giovani, giovanissime e meno giovani, femministe e non, che ogni giorno commentano i tweet e i post di Anna, che da qualche anno, prima con il blog e poi sui social, condivide i dettagli più intimi della sua avventura sessuale. Al centro dei posto di Anna c’è la narrazione e l’esaltazione del proprio piacere con un linguaggio che molte definiscono troppo scurrile per una donna, altre troppo banale, altre ancora denigratorio, altre addirittura dannoso per la lotta contro il patriarcato.

Di fatto la constatazione comune è che oggi esistono ancora tante zone vietate a chi è nata femmina. Ma basta parlare di sesso, in qualsiasi modo lo si faccia, per essere donne più libere? Autodefinirsi puttana, zoccola, troia può essere una strada produttiva per privare questi termini secolarmente diffamanti della valenza denigratoria che indossano? Usare su noi stesse parola “cazzo”, per esempio, ci rende più libere? «Utilizzo spesso, riferendoli a me stessa, termini secolarmente diffamanti, per tentare di privarli della valenza denigratoria che indossano» spiega Anna. «Secondo me, giocare con queste parole, ridicolizzarle e riderne è un modo di togliere loro potere. Parlo di sesso perché mi piace e mi piace farlo a quel modo. E in tanti ne sono disturbati. Pretenderebbero di impormi come ne dovrei parlare e con che parole. Questa è politica.»

Nel suo famoso “Il corpo delle donne” Lorella Zanardo scriveva che siamo su un filo di lama quando utilizziamo stereotipi per divertimento. “Penso che parlare di performance oggi non basti: è necessario riprendere a parlare di desiderio femminile in rapporto al potere” commenta invece a L’Espresso Monica Lanfranco, giornalista e formatrice. «La donna libera sessualmente può ancora diventare merce, se mentre lavoriamo sulla narrazione del desiderio femminile non facciamo lo stesso anche sul linguaggio che utilizziamo. Proviamo per esempio a ragionare sul perché il termine usato per dire a una donna che compie del sesso orale ha valore di offesa, ma non si offende un uomo dicendogli che fa lo stesso a una donna.»

La risposte delle donne, anche sui social, sono dunque molto diverse. Da una parte c’è l’argomentazione che ruota intorno al concetto secondo cui “perché vergognarsi di parlare anche noi in quel modo mentre dall’altra la questione di fondo è che il linguaggio patriarcale non si dissacra facendolo nostro come donne, ma decostruendolo, mettendo il luce la sua origine fondata ancora una volta sull’oppressione del maschio sulla femmina. «Sono quarant’anni che le femministe riflettono sull’utilizzo del linguaggio comune e su come questo sia stato utilizzato per l’oppressione patriarcale sulle minoranze oppresse, non solo sulle donne, e diverse sono le esperienze che hanno mostrato che assumendo noi stesse quel linguaggio non andiamo lontano» spiega Monica.

Le capita molto spesso di organizzare a dei corsi nelle scuole per fare riflettere i ragazzi sul linguaggio sessista che utilizzano anche inconsapevolmente e ogni volta – ci dice – si rende conto di quanta sia ancora la strada da fare con le nuove generazioni. «I due termini denigratori più utilizzati dai giovanissimi sono per esempio frocio per offendere un uomo e troia per offendere una donna. Anche la scelta di questo binomio rifletta una concezione patriarcale: solo il termine troia ci abbraccia potenzialmente tutte e connota una visione servile della donna rispetto all’uomo. Anche la comune frase “hai le tue cose?”- ci spiega – non è leggera come sembra se pensiamo che fino al 1965 proprio in ragione della presunta instabilità delle donne dovuta al ciclo mestruale non era loro permesso accedere alla magistratura e diventare giudici».

Il pomo della discordia è quindi linguistico ma, di fondo, politico, anche se non è facile capire se è il politico che crea il linguaggio o viceversa. Anche il sesso riflette infatti lo scontro ideologico intorno all’etica della libertà personale come massimo valore da perseguire, con tutte le conseguenze contraddittorie che ne derivano, come dimostrano la libera volpe e la libera gallina. In quest’ottica che potremmo definire “liberista” l’autodeterminazione della donna (anzi, delle donne) contro il patriarcato non deve passare attraverso l’imposizione di regole, seppur poste da altre donne.

«Una donna ha il diritto di fare del proprio corpo quel che vuole: godere del porno o farlo, portare il velo, affittare un utero, fare sex working o entrare in convento. Dettare regole alle donne è becero e maschilista anche quando sono le donne a farlo» commenta Anna Salvaje. Sono molte le donne che la pensano in questo modo, una visione opposta a quella di grossa parte del femminismo, secondo cui la liberazione della donna dal patriarcato significa renderla libera ma responsabile per le altre che sono oppresse, magari senza rendersi conto di esserlo. Che la libertà femminile si ottiene solo con una strategia di lotta comune.

Forse, alla fine, il vero nocciolo della faccenda è che oggi non tutte le donne concordano sul fatto che la lotta al patriarcato sia una fra i generi storicamente determinati, come invece mostra chiaramente l’etimologia delle parole che utilizziamo. «Io non voglio combattere ‘gli uomini’» precisa Anna. «L’unica guerra è quella che le persone (uomini e donne) che rispettano gli altri e le loro scelte devono combattere contro le persone che non lo fanno.»

Viene da chiedersi se siano davvero maturi i tempi per abbandonare una posizione di genere e abbracciare una “lotta” al patriarcato che vada oltre il genere. «Stando a quando vedo da come parlano i ragazzi oggi e di quanto poco si rendono conto di utilizzare parole sessiste – risponde Monica – assolutamente no».

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