La piccola chiesa segreta [di Maria Antonietta Mongiu]
L’Unione sarda 29 gennaio 2019. La città in pillole. Vincent Van Gogh, di Julian Schnabel, è film visionario che pare dire che per trasfigurare la realtà non è necessario chiudere gli occhi. Se infatti si sbattono le palpebre il cervello non smette di rimandare immagini. Gli “occhi della mente”, con l’immaginazione, prolungano la visione dei luoghi e costruiscono persino rappresentazioni autonome dal visibile. E’ degli umani vedere fuori di noi persone, luoghi, oggetti persino inesistenti o occultati, giacché, come fu chiaro ad Aristotele, l’uomo pensa per immagini e moltiplica tale possibilità con la conoscenza e la consapevolezza. Solo così immaginare eventi e persone che li hanno abitati inerisce assai nella ricostruzione e nel racconto comunitari. A differenza di altri paesi la didattica della cultura, materiale e immateriale, è infrastruttura assente nei nostri luoghi pubblici e il sapere sull’urbano è relegato all’estemporaneità. Malgrado ciò, può accadere anche a Cagliari di inciampare in storie inedite e insolite dove il respiro della lunga durata s’intreccia con l’oggi. Accade quando risuonano le parole precise, eleganti, di calviniana asciuttezza di un prete, colto quanto portatore di comunanza, in un’insegretita chiesa a due navate. Una tradizione di studi collega l’ apparecchiatura architettonica ai Vittorini di Marsiglia che, nell’XI secolo, abitarono anche San Saturnino. Fondata tra il 1100 e 1120, a ridosso della strada romana a nord dell’Anfiteatro, trasformato in habitat rupestre, è nota con i titoli di San Pancrazio, Vergine del Buon Cammino, San Lorenzo. Il primo è il Sanctum Brancasium della visita pastorale di Federico Visconti, Arcivescovo di Pisa, che nel 1263 vi sostò prima di entrare nel Castel di Castro diventato fulcro politico e religioso del giudicato. All’interno della chiesa, oggi San Lorenzo, la luce non attutisce la suggestione millenaria dei conci calcarei che i monaci costruttori prelevarono dalla cava intorno. Le due navate, separate dalle arcate con schematici capitelli, poggiano su tozze colonne, hanno copertura a botte in cui si riconoscono restauri e il riuso di clasti, densi di alveoli per i bacini maiolicati, che formavano l’originaria facciata romanica a due ingressi, sostituita nel Seicento dall’attuale porticato. Gli archi doubleaux col bel linguaggio provenzale, riassumono, come nel Van Gogh di Schnabel, la densità culturale che vuole conservare il suo senso.
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