Sversamenti sull’orlo della catastrofe [di Nicolò Migheli]
Prevista da tempo alla fine la rivolta dei pastori è arrivata. Autoconvocata sulle reti sociali, senza leader riconosciuti, una sorta di gilet gialli in versione vellutino. Lo stesso movimento organizzato dei pastori, le stesse organizzazioni tradizionali, sorpassate da una rabbia sorda che fa sversare il latte sulle strade. Un atto estremo perché nessuno vuol vedere il frutto del suo sacrificio buttato nelle fogne. In quei gesti una richiesta d’aiuto da parte di chi non ha riconosciuta la propria fatica. Il latte a 60 centesimi di euro vuol dire che migliaia di imprese pastorali sono destinate alla chiusura. Il problema è centenario, legato alla monocultura di un’unica tipologia di formaggio: il Pecorino Romano e alla grande volatilità del prezzo del latte sui mercati internazionali. Su circa 12.000 imprese pastorali sarde 10.093 producono latte per il Romano. Quel formaggio rappresenta 81,54% dei pecorini dop prodotti in Italia, il 52% di quelli Ue. Il Roquefort francese è il 28%, il Mancego spagnolo il 20%. 198.116.000 litri di latte, compreso Lazio e provincia di Grosseto, nella campagna 2017-18 sono stati utilizzati per produrre Romano. Lazio e Grosseto hanno solo 297 aziende pastorali conferitrici. Il punto di pareggio per tenere il prezzo alto è di 270.000 quintali, oltre la remunerazione del prodotto e del latte precipita. Il Pecorino Romano si trova con un’eccedenza di oltre 100.000 quintali di pasta di formaggio. Si è passati dai 9,39 € a chilogrammo del maggio del 2015, con il latte pagato a 1,20€, ai 5,59€ al chilo di questo febbraio. Quel formaggio in Sardegna rappresenta il 60% di tutti i pecorini prodotti, di conseguenza determina il prezzo di tutto il latte ovino e dei derivati. Il 50% del Romano è fatto dalle cooperative, quindi dagli stessi pastori che ne sono soci. Con produzioni così imponenti: 3 milioni di pecore per 1,6 milioni di abitanti compresi nascituri e moribondi, la Sardegna è obbligata ad esportare. Nel mercato internazionale la domanda di latte ovino cresce dell’8% all’anno, altri ne traggono vantaggi ma non noi. Il mercato Usa, principale sbocco del Romano, si contrae da anni con ricadute pesanti sulla remunerazione. Quote che vengono guadagnate dal Manchego. Se si dà uno sguardo ai prezzi europei se ne ha conferma, anche se questi mostrano tendenze al ribasso rispetto a qualche anno fa. In Francia per il prezzo del latte ovino nel 2018, è andato dagli 80 cent a 1,20. Quest’ultimo per il Roquefort. In Spagna, dati di settembre ‘18, il latte è stato pagato in una forbice che va dai 78 agli 88 cent. In Grecia la media dell’ultimo decennio è stata di 97 cent. In questi giorni si è favoleggiato di importazioni in Sardegna di latte dal resto d’Europa, soprattutto da Romania e Bulgaria. Questa voce è stata messa in giro perché il più grosso imprenditore caseario sardo ha un suo stabilimento a Timsoara. Chi l’ha diffusa non conosce quelle realtà o l’ha fatto ad arte. Romania e Bulgaria hanno allevamenti ovini da carne, il latte è un prodotto residuale. Peraltro in questo periodo le pecore sono in secca, i parti cominceranno tra un mese, le loro produzioni sono estive con i prezzi del latte tal quale sono più vicini alla media europea di quelli sardi. Anche in Sardegna però alla fine ci sono comportamenti che variano da azienda trasformatrice all’altra. La CAO di Siamanna, la più grossa cooperativa ovina della Sardegna e d’Italia, 800 soci, nella stagione scorsa compreso il latte estivo, ha pagato 88 cent. a litro e per quest’anno ha già annunciato che darà un anticipo di 70 cent. Le ricette per uscire da uno stato così disastroso sono vecchie di anni e mai applicate. Occorre diversificare si dice, in parte lo si sta facendo però le altre due dop: Pecorino Sardo e Fiore Sardo non vengono valorizzate. Quest’ultima, sia detto per inciso, dovrebbe essere prodotta principalmente negli ovili, così come era stata pensata a suo tempo. Molti trasformatori preferiscono i marchi aziendali, con una proliferazione di etichette che non aiuta le commercializzazioni. Dieci anni fa si è pure visto un formaggio destinato al mercato siciliano chiamato Bunga Bunga. Il latte sardo negli anni è cresciuto in qualità, tanto da essere uno dei migliori al mondo, è principalmente da pascolo, ma questa caratteristica positiva non entra negli standard industriali. Come qualità vengono registrati solo i parametri del grasso, caseina, proteine, cellule somatiche e carica batterica. Vengono tralasciati quelli che invece fanno la reale differenza come l’alta concentrazione di CLA, Acido Linoleico Coniugato, acido grasso polinsaturo che impedisce la crescita del colesterolo cattivo in chi si ciba di quel formaggio. Un imprenditore caseario produce formaggio certificato con quelle caratteristiche con ottimi risultati di mercato. Un strada da seguire. Negli anni i pastori sardi sono diventati imprenditori, è stato chiesto loro di migliorare le greggi, con il risultato di avere macchine da latte e nel contempo però alti costi di gestione. Una tendenza che forse andrebbe rivista, puntare più sulla qualità che sulla quantità. Però si insiste, anche in Sardegna stanno entrando razze iperproduttive come Assaf -300 litri a pecora- e la Lacune– 350 litri ad animale-; anche se il loro latte non può essere utilizzato per la produzione di formaggi dop, accresce la quantità totale. L’altro aspetto, quello più urgente, è che va totalmente rivista la struttura commerciale che non può essere lasciata a una moltitudine di soggetti, imprenditori e cooperative che si fanno la lotta tra di loro abbassando i prezzi. La crisi attuale è forse l’ultima chiamata. Altre realtà nel mondo si stanno muovendo per accaparrarsi la domanda di latte ovino. La Nuova Zelanda sta riconvertendo il suo patrimonio ovino da lana e carne a latte con un investimento di 400 milioni di dollari. Il mercato dovrebbe essere quello del latte in polvere per la Cina. La Turchia oggi produce carne e lana ma potrebbe convertire gli allevamenti, L’Iran aspetta solo che qualche imprenditore europeo insegni loro le tecniche di caseificazione. Gli incentivi agli allevamenti sardi sono solo palliativi, occorrono strumenti nuovi e tecnici preparati ad affrontare i mercati internazionali. Siamo sull’orlo della catastrofe che travolgerà produttori e trasformatori. Possiamo evitarla, però è l’ultima chiamata.
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A queste argomentazioni bisognerebbe aggiungere anche il controllo dei costi di produzione, gli aiuti dati ai produttori, siano, gli aiuti, europei, nazionali o regionali, sono vanificati dall’aumento dei costi, mangimi, concimi e quant’altro serve per produrre latte, praticamente questi aiuti vengono dati, passano sulla testa dei pastori ed atterrano nelle tasche delle multinazionali fornitrici,
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Il RUOLO del PECORINO SARDO nel PRESENTE e nel FUTURO del COMPARTO CASEARIO della SARDEGNA
Riconosciuto come formaggio a Denominazione di Origine nel 1991 e come formaggio DOP nel 1996, il formaggio più antico ed emblematico della Sardegna non è mai riuscito ad emergere all’interno del comparto caseario della Sardegna.
Eppure, sin dalla sua costituzione, il Consorzio di Tutela, trovatosi ad operare in un contesto di totale incertezza, ha dato a questo formaggio un’identità riconoscibile, gli ha dato visibilità, regole di produzione certe e soprattutto un sistema efficace di salvaguardia, controllo, riconoscimento e rintracciabilità. Con gli strumenti e le esigue risorse a sua disposizione il Consorzio ha fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità per valorizzare il marchio della DOP e farlo conoscere ad ogni livello: progetti nelle scuole, formazione degli addetti al banco formaggi delle catene di vendita, concorsi e collaborazioni con grandi chef, fiere ed eventi congiunti con i più importanti Formaggi DOP in Italia e in Europa…
Grazie agli enormi sforzi compiuti, oggi le produzioni certificate si attestano intorno ai 20.000 quintali annui, per un totale di circa 650.000 forme, ma è veramente troppo poco per fare la differenza e avere un qualche peso all’interno di un settore in cui si producono oltre 500.000 quintali di formaggi ovini ogni anno e in cui a fare veramente la differenza nel bene e nel male è il Pecorino Romano che assorbe il 60% del totale.
Perché il formaggio simbolo della Sardegna oggi rimane un simbolo o poco più; perché non riesce ad andare oltre la soglia dei 20.000 quintali?
La risposta è tanto semplice quanto ovvia: perché per far crescere la produzione occorre fare informazione, educare il consumatore e far crescere i consumi della DOP ancora ampiamente confusa con i pecorini generici prodotti in Sardegna, in altre parole…occorrono enormi investimenti sul fronte della comunicazione istituzionale. Il Parmigiano Reggiano lo ha capito da tanto tempo! Quest’anno dei 20 milioni destinati alla promozione per il 2019, il Consorzio di Tutela ne investirà più di 3 nel solo Medio Oriente allo scopo di far conoscere il vero Parmigiano Reggiano, differenziandolo dal Parmesan, erroneamente associato alla DOP dai consumatori arabi.
Detto questo pare del tutto evidente che il Pecorino Sardo potrà svolgere il ruolo che merita all’interno del comparto ovicaprino della Sardegna solo nel momento in cui il Sistema Regione dimostrerà di voler realmente investire nella diversificazione, vero antidoto alle crisi cicliche del Pecorino Romano, e capirà che per creare le condizioni del cambiamento deve avere il coraggio di dare avvio,immediatamente e senza alcun indugio, a un NUOVO CORSO, l’unico in grado di fare la differenza tra il passato e il futuro.
Buonasera,
Vi segnalo un articolo che può essere di Vostro interesse, In Italia sta nascendo un movimento di consumatori che vogliono cambiare gli stili di consumo vogliono essere ConsumAtori, forti dell’esperienza Francese c’est qui le patron , nasce anche in Italia La Marca del ConsumAtore. https://www.google.com/search?q=c%27est+qui+le+patron&oq=c%27e&aqs=chrome.3.69i57j0j69i61j69i59j0l2.7611j0j7&sourceid=chrome&ie=UTF-8
Ma ite at a fàere una Regione RAS de tappabuchi e pistadores de abba, cun sa mentalidade de is gopais e ‘amici’ de cambarada o de carrozza e a dónnia modu aintru de totu is gàbbias tricolores?
Su Nuovo Corso po su casu romanu totu s’àteru dh’at a fàere cun is centinajas de milliones de éuros chi s’Istadu NO dhi torrat (dhus nant ‘accantonamenti’) de totu su chi s’istadu italianu ordinariamente pinnigat in Sardigna e chi, segundhu is leis suas etotu depet torrare ma ordinariamente no torrat a sa Regione RAS?
Cun sa mentalidade e política maca de is Sardos, ispimpirallaos disunios tra noso po is afàrios nostos ma unios cun totu is uniones solu po ibertare sèmpere la calata dei santi protettori a nosi sighire a leare in giru cun is promissas da calzolaio, noso aus a sighire a prànghere e iscúdere sa conca a su muru bellu a tres colores de s’Itàlia! Ant a èssere custos is Barones de s’Innu regionale “Procurad’e moderare” chi pregant a moderare sa tirannia candho seus pranghendho e iscudendho sa conca a su muru?
La Sardegna riporta quasi 3 milioni di turisti all’anno. Ovviamente è un mercato piuttosto stagionale ma in molte realtà la produzione è assorbita dal turismo.
Inoltre l’Italia sta assistendo a una criminalizzazione dell’allevamento e relativi prodotti da parte di pochi soggetti, ben lontani dalla consapevolezza dei valori agricoli. Dovremmo riportare al concreto danno sul sistema produttivo le numerose onlus che paiono difendere animali ma li portano all’estinzione, prima o dopo di chi li alleva.