Nuove strategie possibili per il patrimonio culturale [di Franco Milella]
Il Giornale dell’Arte marzo 2019. Esiste un’«Italia interrotta» fatta di una lunga storia di opere ed edifici incompiuti, di cui è disseminato il territorio nazionale, da tempo oggetto di un nutrito confronto sulle pagine di «Il Giornale dell’Arte», ma esiste anche un’«Italia abbandonata», fatta di patrimonio pubblico, ma anche privato, e di grande parte del patrimonio culturale cosiddetto «diffuso», quello che costituisce la densità e la ricchezza culturale del nostro Paese, che ne ha segnato la storia e la sua ricca differenza, che ha costituito baluardo di senso e valore d’uso per le società locali. Differentemente dall’«incompiuto», che costituisce «rovina anticipata» senza memoria d’uso, l’abbandono dei beni culturali è «annullamento» di senso, non solo cesura della memoria di quel che è stato, ma dissipazione di valore sociale e culturale, rovina della memoria. Così, questa situazione coinvolge un po’ tutte le categorie del patrimonio culturale che non ricadano nei «grandi attrattori»: la molteplicità di beni architettonici e artistici, musei locali e regionali, i numerosi ed estesi archivi storici, fondi e collezioni, persino rilevanti beni paesaggistici. I numeri parlano chiaro: ad esempio, degli oltre 110mila beni culturali architettonici censiti nella Carta del Rischio del 2012, oltre il 60% è in stato di abbandono, di degrado, di inaccessibilità alla fruizione, o, come oggi si dice in maniera molto più aulica, «in condizione di grave sottoutilizzo». Anche il patrimonio pubblico dello Stato, per oltre il 76% detenuto dagli Enti locali, non gode di sorte migliore. I beni pubblici fisici, compresi i beni del paesaggio, hanno una superficie complessiva nel nostro Paese pari al 17% dell’intero territorio nazionale. Nel 2017 l’Istat stima il valore economico-patrimoniale dei soli edifici pubblici intorno al 360 miliardi di euro, ma è ancora una stima parziale, in assenza del completamento del censimento avviato più di dieci anni fa: oltre 400 milioni di metri quadrati che, detratti quelli in uso per fini istituzionali, costituiscono innumerevoli (e per la loro grande parte) detrattori e vuoti urbani, interruzioni nei connettivi sociali delle popolazioni, ferite aperte e, insieme, dimenticate. Basta passeggiare nelle nostre città, tutte. È questo un primo paradosso di questo scenario pullulante di «res derelictae»: un bene abbandonato non è soltanto un bene che non esplicita il proprio valore ma diventa il suo esatto contrario, un disvalore, un valore negativo. Si tende quasi a rassegnarsi all’inesorabile, lenta e progressiva dissipazione di tanto patrimonio. Non ce la facciamo, troppi beni, qualcosa dovremo pure perdere per strada data la limitatezza di risorse disponibili… In verità, a ben guardare, buona parte del problema risiede nell’incapacità delle politiche pubbliche nazionali, e di quelle che ne discendono a livello locale, di essere «pertinenti», cioè coerenti ai fenomeni che intendono regolare, e sono invece basate su accezioni ideologiche, infondate o monche, del concetto di «valore del patrimonio». E poiché le politiche pubbliche «parlano» attraverso norme, queste risultano perlopiù inefficaci. Ad esempio, l’apparente buon senso che ha sancito, a partire dal 1993, il «principio di fruttuosità del patrimonio pubblico», che impone alle Pubbliche amministrazioni di gestire il proprio patrimonio in modo da ottenere la massima redditività possibile, ha generato un approccio operativo tutto centrato sul valore economico-patrimoniale dei beni pubblici immobiliari, orientato a logiche «mercatiste», dismissive e di alienazione a terzi, che nei fatti impedisce la sottrazione dall’abbandono degli innumerevoli beni pubblici in questa condizione. Per due questioni di fondo. La prima è data dalle dimensioni del mercato immobiliare nazionale dei beni pubblici. Negli ultimi 18 anni la tendenza della domanda del mercato ci dice che ci vorrebbero (nel caso migliore) oltre 300 anni perché il patrimonio pubblico nella sua totalità possa essere alienato. Ma questo è un dato teorico. La seconda questione, ancora più rilevante, è che solo il 2,5% dei beni del patrimonio pubblico è da considerarsi appetibile per il mercato (fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze, Rapporto sul patrimonio pubblico, 2015). Si è dunque perpetrata una politica pubblica orientata «in fin dei conti» al 2,5% dei beni patrimoniali immobiliari pubblici dimenticandone il restante 97,5%. E nonostante questa lapalissiana evidenza ancora oggi si favoleggia sulla possibile riduzione del debito pubblico attraverso campagne di dismissioni straordinarie e si dà fiato a meccanismi di «cartolarizzazioni immobiliari» sulle future «vendite». Tutta la normativa successiva alla statuizione del principio di «fruttuosità» è declinata secondo un principio di scambio economicamente rilevante. Persino il Codice del Terzo settore prevede la concessione di beni culturali a enti del Terzo settore (il mondo del volontariato, fondazioni, associazioni e imprese sociali con finalità sociali e culturali e senza scopo di lucro), a canone agevolato e non in comodato d’uso, arretrando rispetto a normative preesistenti. Sui beni del patrimonio culturale diffuso, anch’esso per massima parte ricadente nel patrimonio degli Enti locali, esiste una ulteriore peculiarità che ne favorisce l’abbandono. In primis l’evidente mancata comprensione di che cosa sia attivare un processo di «valorizzazione» del patrimonio culturale. L’art. 6 del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio definisce la valorizzazione come «esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso». Questa declinazione della valorizzazione appare monca e nelle sue interpretazioni operative, alla prova dei fatti, ha, nei casi migliori, generato coincidenza tra fruizione e valorizzazione, nei casi intermedi fruizione intesa come mera accessibilità, nei casi più diffusi recupero e restauro senza fruizione e accessibilità (solo negli ultimi 10 anni in Italia sono stati investiti oltre 5 miliardi di euro nei cicli 2007-13 e 2014-20 dei Fondi strutturali: scarsità di risorse? Non sembra…) e, al peggio, rinnovato degrado dopo il recupero. Il punto di partenza dell’art. 6 del Codice del 2004 non appare coerente con strategie compiute di valorizzazione, come peraltro dimostra la limitatezza della sua declinazione operativa nei cosiddetti «servizi aggiuntivi». La valorizzazione di un bene culturale richiede principalmente non il «ripristino di quel che era» ma la generazione di servizi che restituiscano valore d’uso alla Comunità, addensamento di riusi culturali e sociali innovativi per dare qualità urbana e territoriale alle popolazioni e finalmente comprendere che nessun bene pubblico può aver valore se non sia riconoscibile e appartenente alla comunità di cui è bene. Per i tanti beni culturali, impropriamente appellati come «minori», non vi è strategia possibile di valorizzazione alternativa a una forma di restituzione di valore d’uso contemporaneo alle comunità dei contesti in cui tali beni sono collocati. I beni culturali abbandonati sono invisibili alle proprie comunità come ai turisti. Essi non hanno valore percepibile. Garantire l’uso di tali beni è non solo la via per riportare all’attenzione della comunità l’evidenza di un valore sociale e culturale, ma anche la possibilità di farne effettivamente leva anche di produzione di valore economico. Beni vivi e vitali, in grado di essere ri-conoscibili come risorsa territoriale mobilitando innovatori sociali e culturali, di espandere nel presente il loro valore storico, artistico e funzionale e contribuire a rivolgere lo sguardo al futuro non come narrazione di glorie del passato ma come leva di coesione sociale, sviluppo e scambio di valori con le comunità prossime e più lontane. Occorrono, dunque, nuove politiche, fiduciarie e generative, che sappiano distinguere ciò che serve ai «grandi attrattori» da ciò che è indispensabile per valorizzare il patrimonio culturale diffuso e che siano in grado di mobilitare risorse locali, in assenza o limitatezza di risorse pubbliche, e di prendersene cura. Prendersi cura e farsi carico. Introduce un concetto diverso di valore in cui la mobilitazione di soggetti introduce e prelude la consapevolezza di agire non solo per interesse proprio ma in una logica di interesse generale delle comunità di cui si fa parte. Invece, la regolazione dei processi di valorizzazione dei beni pubblici è da sempre orientata alla distinzione tra interesse pubblico, agito e rappresentato dai soggetti pubblici proprietari dei beni, e interessi privati, declinati esclusivamente nell’accezione del diritto esclusivo allo sfruttamento economico dei beni. Uno degli strumenti cardine di questa inefficace impostazione, ispirata al principio «mercatista», è la «concessione di valorizzazione» unico strumento regolativo comune di intervento destinato sia al patrimonio pubblico disponibile sia al patrimonio culturale. È una forma di partenariato pubblico-privato (Ppp) che consente di dare in concessione per 50 anni a privati, a titolo oneroso, beni immobili di proprietà pubblica. In cambio degli investimenti di recupero e riqualificazione, i concessionari ottengono il diritto esclusivo di sfruttamento economico del bene e facilitazione nei cambi di destinazione d’uso. Introducendo la normativa, si disse che gran parte del patrimonio culturale in abbandono o in grave sottoutilizzo avrebbe avuto opportunità di recupero e valorizzazione, in assenza di risorse pubbliche da destinare. Così, ovviamente, non è stato. Appaiono evidenti due questioni, nel caso in cui tale forma di Ppp abbia riguardato beni culturali del patrimonio diffuso. La prima è la evidente difficoltà di orientare gli investimenti di recupero a finalità culturali essendo abbastanza raro che queste finalità consentano la redditività in tempi medio brevi degli investimenti, spesso di notevole entità, necessari ai recuperi e riqualificazioni, oltre che per la presumibile scarsità di risorse proprie da mettere in gioco da parte degli operatori culturali. L’altra è evidentemente che la «mera convenienza economica» dell’investimento dissuade anche gli operatori di altri settori con maggiori disponibilità di risorse, dati i vincoli e il grado di incertezza determinato dall’intervenire su un bene culturale. Non a caso, dal 2001, sono ben poche le concessioni di valorizzazione realizzate su beni culturali e tutte o quasi hanno finalità non culturali. Quel che accade, peraltro, è che per 50 anni questi beni sono sottratti alla fruizione pubblica e chi vi accede lo fa in qualità di cliente consumatore dei servizi caratteristici attivati (resort di lusso, ristoranti stellati, centri benessere…). Siamo al paradosso del principio mercatista. Si accetta di rinviare per 50 anni la fruizione pubblica di un bene culturale in cambio del suo recupero e, forse, di qualche servizio accessorio di natura culturale e ordinariamente si chiede agli operatori culturali di pagare dei canoni anche significativi qualora utilizzino beni pubblici concessi per le finalità culturali prevalenti qualora, per sostenere tali finalità, attivino servizi complementari e ridotti di «valore commerciale». Con il recente Decreto del ministro Bonisoli del 20 ottobre scorso di istituzione del «gruppo di studio e di ricerca sulla disciplina dei rapporti tra pubblico e privato nel settore dei beni culturali», coordinato da Alfredo Moliterni, consigliere giuridico del ministro, e i lavori propedeutici all’istituzione di un tavolo tecnico richiesto dal presidente dell’Anci, il sindaco Antonio Decaro, sembrano consolidarsi nuove prospettive di sottrazione all’abbandono di tanta parte del patrimonio culturale diffuso, per la massima parte nel patrimonio degli enti locali e, soprattutto, dei Comuni italiani. Artefice, la prima sperimentazione di un partenariato speciale pubblico-privato (Pspp), attivato ai sensi di quanto disposto dall’art. 151, c.3, del D.lgs. n. 50/2016 (Nuovo Codice degli appalti e dei contratti pubblici) dal Teatro Tascabile e dal Comune di Bergamo in ordine al recupero e valorizzazione dell’ex Convento del Carmine, uno dei beni culturali più significativi di Bergamo Alta, in struggente abbandono da oltre 40 anni. Il terzo comma dell’art. 151 è una norma «aperta» e, in quanto tale, suscettibile di sperimentazioni. Il caso di Bergamo letteralmente rovescia i paradigmi consolidati in ordine ai rapporti di partenariato pubblico-privato,come consolidati, ad esempio, nel modello delle «concessioni di valorizzazione». Il caso di Bergamo è esemplare di questo capovolgimento di paradigma: dopo due tentativi dell’Amministrazione comunale di attivare concessioni di valorizzazione del compendio del Carmine, attraverso gare andate deserte, il Teatro Tascabile di Bergamo (Ttb) ha proposto al Comune la costituzione di un «partenariato speciale pubblico-privato» per collaborare in tempi medio lunghi al recupero dell’intero complesso. Obiettivo comune è restituire valore d’uso all’ex convento, per farne un luogo integrato di produzione, consumo e innovazione culturale di rilevanza internazionale. Il Ttb non si riserva un diritto esclusivo di sfruttamento economico ma agisce come referente del Comune per la progettazione, la realizzazione per lotti dei lavori di recupero, la selezione di altri soggetti di qualità che possano «coabitare» il Carmine, l’attivazione di campagne di fundraising delle risorse da destinare agli investimenti. Il partenariato è stato approvato all’unanimità dal Consiglio comunale di Bergamo nel luglio scorso e, successivamente, è stato sottoscritto l’Accordo di partenariato che lo disciplina. I primi esiti della sperimentazione in corso sono straordinari: è già pronto il primo lotto di intervento, si è attivato un sentimento diffuso di «cura civica» del bene contestualmente all’apertura dei primi spazi alla pubblica fruizione, si attivano fondi dedicati di sponsor e donor, è stato istituito il Tavolo tecnico del partenariato a cui partecipa anche la Soprintendenza competente. In ultima analisi la restituzione del valore d’uso del Carmine è già avviata e va benissimo attendere qualche anno in più per il recupero completo del bene; un tempo comunque minore (correlato alla durata dell’accordo di partenariato: 20 anni più altri 20 in caso di rinnovo) per la restituzione alla pubblica fruizione del bene qualora fosse stata attivata una «concessione di valorizzazione». La novità dei Pspp può essere racchiusa in un assioma evidente: non esiste solo l’interesse pubblico, di cui si fa depositario il soggetto pubblico, da una parte, e l’interesse privato, dall’altra, con cui promuovere uno «scambio», ma entrambi i soggetti concorrono per finalità di interesse generale, concetto oramai disperso in un Paese in cui la coesione sociale è in crisi e sembra chimerico inseguire il bene della Nazione o al più si riesce a parlare di «sussidiarietà». Dall’attivazione del caso di Bergamo, in tutta Italia si moltiplicano le ipotesi di attivazione di partenariati speciali pubblico-privati per la valorizzazione del patrimonio culturale degli enti locali ma anche per il riuso di beni pubblici del patrimonio disponibile se per finalità culturali e di innovazione sociale. Questa sperimentazione, realizzata nelle maglie interpretative di una norma originalmente non tassonomica-prescrittiva (non dice cioè prescrittivamente «a quali condizioni» e «come fare», ma lascia libertà di sperimentazione purché si conseguano le finalità indicate nella norma), come è invece consueto trovare nel nostro panorama normativo, ha originato un’attenzione significativa da parte del ministro Alberto Bonisoli, a cui va dato atto di aver colto la necessità del mutamento di paradigma per sottrarre gran parte del patrimonio culturale della Nazione dall’abbandono. Il gruppo di ricerca coordinato da Alfredo Moliterni è già a buon punto nella definizione di ciò che può essere utile per garantire la diffusione di buone pratiche e il consolidamento normativo. D’altro canto l’Anci, Associazione Nazionale dei Comuni italiani, ha presentato l’ordine del giorno «Una strategia di riuso del patrimonio culturale in abbandono o sottoutilizzato delle città italiane», elaborato dalla sua Commissione Cultura coordinata da Vincenzo Santoro, all’attenzione dello stesso ministro in cui, tra le altre, richiede con vigore che si possano «garantire per i beni del patrimonio pubblico disponibile in abbandono o grave sottoutilizzazione da almeno 3 anni, le forme più opportune di concessione d’uso a finalità culturali e sociali, ivi comprese quelle del comodato» e di «consentire che le forme speciali di partenariato previste dal terzo comma dell’art. 151 […] siano estese agli Enti locali e a tutti i soggetti pubblici proprietari di beni culturali» richiedendo a tali fini l’avvio di un tavolo tecnico Ministero/Anci. Il 15 gennaio si è svolto un primo incontro operativo dell’istituendo Tavolo tecnico che ha condiviso il contenuto del documento dell’Anci, prendendo atto che il Ministero è già in fase avanzata del lavoro avviato, per consolidare pratiche e profili normativi sui Pspp, che vanno nella direzione di quel documento. Il ministro Bonisoli, inoltre, fra i tre temi dei tavoli di lavoro con il Terzo settore convocati a Roma il primo marzo per l’iniziativa «il Mibac ascolta», ha affermato la centralità del tema della «gestione dei rapporti tra pubblico e privato nella valorizzazione». L’auspicio è che si definiscano nuovi istituti rilevanti e con ampia capacità di diffusione che consentano, in forme più semplificate ed efficaci, il recupero, il restauro, la manutenzione programmata, la gestione, l’apertura alla pubblica fruizione e la valorizzazione del patrimonio culturale diffuso. |