Sovranismo, abbaglio senile della sinistra [di Pierfranco Pellizzetti]
MicroMega.it 19 aprile 2019. Il sovranismo, alimentandosi della bolla di privilegio creata dai “quarant’anni ingloriosi” di neoliberismo, diffonde la menzogna secondo cui ci sarebbe stato un tempo in cui il popolo, inteso come semplice sommatoria numerica della popolazione che abita un territorio, era davvero “il padrone di casa”, tanto da avere titolo per decidere autonomamente sulle questioni che lo riguarderebbero. Quel che bisogna proporre è al contrario un illuminismo democratico per una società civile mondiale inclusiva e solidale. «Lo Stato sovrano che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuori di quei limiti, è oggi anacronistico e falso» Luigi Einaudi «Il patriottismo è l’estremo rifugio delle canaglie» Samuel Johnson La favola bella del popolo sovrano Il 4 marzo 2019, partecipando a Otto e Mezzo, il talk di Canale 7, la politologa più amata dagli italiani, Lorella Cuccarini, proclamava il proprio sovranismo “senza se e senza ma”, motivato dalla sottile intuizione che la sovranità del popolo è sancita dalla Costituzione. Poi – però – scivolava su una buccia di banana inaspettata per una studiosa di tale vaglia, denunciando lo scandalo nazionale dell’arresto delle consultazioni elettorali da una decina di anni… Resta comunque agli atti del dibattito pubblico odierno la mirabile sintesi cuccariniana in materia di concettualizzazione sovranista, che oscilla tra due palesi luoghi comuni mendaci; ripresi alla grande dall’odierno farfugliamento semplificatorio: “padroni in casa nostra” e “decide il popolo”. Slogan entrati ormai da tempo a vele spiegate negli arsenali argomentativi della Destra ribalda, recepiti pedissequamente da una certa Sinistra titubante; ancora una volta ricaduta nel vizio che da un due/tre decenni la condanna all’insignificanza: la strategia autolesionistica (leggi: Terza Via blairista) di inseguire l’avversario sul suo terreno recependone toni e tematiche, nell’illusione di intercettarne i consensi (quando – in effetti – si sta ottenendo sistematicamente il contrario: la perdita per strada dei propri, di consensi). Anche perché nell’arte di contare balle demagogiche e fake news la Destra non la batte nessuno. Nel caso, la bufala che ci sia stato un tempo beato – o, meglio, un’età dell’oro – in cui il popolo, inteso come semplice sommatoria numerica della popolazione che abita un territorio, era lui “il padrone di casa”, tanto da avere titolo per decidere autonomamente sulle questioni che lo riguarderebbero. Ma quando mai, visto che la prima preoccupazione del Potere (inteso come capacità di indurre comportamenti a mezzo del comando appannaggio di pochi) è sempre stata quella di tenere a bada tale moltitudine, circoscrivendola in recinti mentali o materiali che ne riducessero la pericolosità da mandria imprevedibile, a costante rischio di imbizzarrirsi. Sicché, stando ai fatti, l’ipotetica “volontà generale” è sempre risultata una finzione smaccata, a fronte della natura babelica di quell’aggregato informe che chiamiamo “opinione pubblica” (in mancanza di adeguate sintesi, prodotte vuoi da norme regolative della rappresentanza, vuoi da processi politici di identificazione condivisa, che diano vita a soggetti collettivi in grado di svolgere la funzione unificante che renda intellegibile l’estrema polifonia del sociale, tendente a diventare rumore). Soprattutto oggi, mentre siamo nel bel mezzo di un revival che pretende di tradurre in abrakadabra elettorale la grave fase involutiva che affligge il progetto in itinere permanente di unificazione europeo; a partire dal fatidico 2008 e relativa crisi, con il suo carico di attese e speranze (che – ad esempio – facevano dell’Italia il paese più euro-entusiasta del continente) adesso rivoltatesi nel loro contrario. E – così – si è diffuso il mood ancora una volta bassamente semplificatorio che la salvezza consisterebbe nell’abbandonare il Titanic di Strasburgo/Bruxelles al proprio destino, per ritornare alla situazione precedente: gli staterelli e le piccole patrie del tutto impossibilitati a fronteggiare, con i modesti mezzi a disposizione e i loro confini asfittici, le sfide spaziali imposte dalla globalizzazione; dal protagonismo incontenibile di competitori a dimensioni continentali: i veri e unici player in questa fase storica. La fuga dal presente in un ritorno a un passato (la catastrofe bellica della trentennale guerra civile europea che ha sbalzato l’intero Vecchio Continente ai margini di quel sistema-Mondo di cui era stato il centro per mezzo millennio), da cui si era fuggiti proprio sposando il “sogno di Ventotene”, compatibilizzato in versione mercantilistica: l’obiettivo tendenziale degli Stati Uniti d’Europa; seppure con meno democrazia e più interessi verticistici (gli scambi coperti all’ombra del cosiddetto “cartello di Bruxelles”, che «distribuisce i benefici tra i propri membri sulla base di regole oggetto di negoziati senza fine»[1]). Risposta perfettamente in linea con la natura retroversa del pensiero di destra: una “chiusura identitaria” (dalla “preferenza nazionale” di Viktor Orbàn al “prima gli italiani” leghista), terapeutica a fronte dello smarrimento risentito per la crisi materiale e la ferita ansiogena da fine incombente del proprio mondo (patriarcale, cristiano, di pelle chiara). Tradimento del proprio patrimonio ideale se formulata da una Sinistra che per principio dovrebbe essere orientata al futuro. Intanto, a seguito del maremoto d’oltre Atlantico, avviato dal crollo di Lehman Brothers, andavano allargandosi le crepe in una costruzione europea ripiegata nell’austerity e nella difesa delle corporazioni dei succitati vertici. Una minaccia montante, di fronte alla quale gli spiriti animali del privilegio economico, politico e mediatico correvano ai ripari mediante il richiamo in funzione di un Golem concettuale dormiente; quale contenitore di tutte le tendenze centrifughe da sconfiggere per la sopravvivenza dello status quo. La riapparizione di un antico personaggio dal profilo sfuggente e dalla natura indefinita: il Populismo. Così – da qualche anno – assistiamo al formarsi di una bolla mediatica che persegue il cambiamento del senso comune ridisegnando il campo politico nella contrapposizione tra “responsabili”, rispettosi delle compatibilità e ben attenti ai cavalli di frisia del possibile (la verità/naturalità dell’esistente), e “populisti”, in preda al complottismo e ossessionati dal moralismo astratto; quindi propugnatori della fuga nel vogliamo tutto subito più irrealistico. Ovviamente mediatizzato, dati i tempi. Insomma, benpensanti vs. malpensanti? Il trucco sempreverde di rappresentare il proprio avversario come pura negatività da esecrare, quale mossa per un posizionamento efficace nell’arena degli interessi.Non certo una novità. Lo si è applicato da tempo immemorabile contro tutti “i disturbatori storici delle quiete pubblica”; si trattasse di Dolciniani, Lollardi, Hussiti, i contadini ribelli di Müntzer, la canaille delle jacqueries e all’assalto della Bastiglia, Luddisti e altri ribelli insorti contro l’ordine costituito di Lorsignori. Gli indignati. La secessione del privilegio Dunque – con il ritorno in auge del termine “Populismo” – ancora una volta si assiste a una clamorosa distorsione linguistica; né più né meno di quanto si era deliberatamente provveduto a creare cinque lustri fa con il lemma “giustizialista”, nato per designare i sostenitori argentini di Juan Perón e stravolto a pratica punitiva del potere giudiziario. Allo stesso modo, “populista” perde ogni aggancio storico con gli iniziali titolari del termine: i russi di Terra e Libertà, i militanti americani del People’s Party. Due soggetti “populisti” che neppure sarebbero giudicati tali secondo i parametri odierni. Dunque, un imbroglio lessicale che mette assieme tutto e il suo contrario: Vladimir Putin e Donald Trump con Pablo Iglesias e Ada Colau, Bernie Sanders con Matteo Salvini, Thomàs Piketty ed Ernesto Laclau con Carlo Formenti e Diego Fusaro… Operazione perfetta per polemiche a casaccio che ci impediscano di capire “la cosa”; o meglio, “cosa” davvero succede. Il tutto confezionato in una terminologia di rara vaghezza, agitata come fantoccio polemico diversivo, per bloccare sul nascere una presa di coscienza disincantata (in attesa di soggettivarsi politicamente). Appunto, “il cosa”. E – in effetti – questo non è altro che la conseguenza drammatica della mutazione nel corpo sociale avvenuta durante gli ultimi decenni; prima sottotraccia, come fenomeno carsico, poi inarrestabile, ad andamento alluvionale. Il fenomeno della defezione del vertice privilegiato dal resto del corpo sociale, trasformatasi in vera e propria secessione. Una rivoluzione regressiva che ruota attorno a tre momenti chiave: 1973, 1989, 1999. La prima data corrisponde tanto agli effetti economici della guerra del Kippur, con la crescita esponenziale del prezzo del petrolio che determinava il viraggio dell’accumulazione capitalistica dal mondo materiale a quello virtuale (finanziarizzazione) e il conseguente avvio di quella de-industrializzazione che avrebbe emarginato il lavoro come soggetto costituente, ma anche del colpo di stato in Cile; prova generale della costruzione di un nuovo ordine mondiale, che presto troverà la propria declinazione politica nell’inversione di marcia dalla solidarietà alla possessività impersonata dal nuovo corso thatcheriano-reaganiano. La seconda si identifica nel crollo dell’Unione Sovietica, oltre che “impero del male”, di fatto contrappeso alle pulsioni egemoniche di un Occidente tendenzialmente senza freni nella sua ricerca di arricchimento attraverso lo sfruttamento. La terza – che coincide con la presidenza di Bill Clinton – sancisce il trionfo definitivo della cosiddetta “rivoluzione conservatrice” nel sistema-mondo: l’assiomatica dell’interesse speculativo liberato da ogni freno attraverso l’atto altamente simbolico con cui veniva abrogato il Glass-Steagall Act del 1933: la legislazione promossa dal presidente Franklin Delano Roosevelt al fine di riformare il sistema bancario americano e tenerne a bada le tentazioni più irresponsabili. La data d’inizio della globalizzazione finanziaria. L’epoca che qualcuno ha definito “i trenta INgloriosi”[2]. Poi diventati una quarantina… Queste le tappe attraverso le quali il Capitalismo amministrato, emerso negli Stati Uniti con il New Deal e nell’Europa del secondo dopoguerra, frantumava le gabbie del Welfare mutando in Turbocapitalismo deregolato. Una formidabile idrovora di ricchezza che ha prosciugato la società a vantaggio di esigui strati avvantaggiati. Determinando diseguaglianza a livelli indicibili. Per cui ora – facendo un po’ di conti – qualcuno si chiede: «nel periodo tra il 1995 e il 2016, la quota di ricchezza dell’1% più ricco della popolazione adulta è passata dal 18 al 25%, quella del 10% più ricco dal 49 al 62%: l’andamento, quindi, è cominciato vari anni prima della crisi economica. Il problema era strutturale. Possibile che la politica ha impiegato 20 anni per capire che, persino in una società capitalistica, quel trend era insostenibile?»[3] Eppure, già in precedenza, di avvisaglie ce n’erano state. Guarda caso messaggi provenienti proprio dal centro del sistema-mondo. Nel 1991 l’economista di Harvard Robert Reich, neo Secretary of Labor nel primo governo Clinton, pubblicava un ponderoso volume (The Work of Nation. Preparation Ourselves for 21° Century Capitalism) dedicato a un’interpretazione originale della fase in avvio nell’economia globale: il manifestarsi di forze centrifughe che suddividevano le società post-welfariane in vincitori e vinti. I primi in grado di mettere a frutto le proprie dotazioni di creatività e competenza cogliendo le nuove opportunità che andavano creandosi, gli altri marginalizzati in posizioni statiche. Si determinava così – a detta di Reich – una nuova meritocrazia cosmopolitica che andava scindendo il proprio destino da quello dei compatrioti. Faceva capolino la parola “secessione”, seppure in un’accezione soft: «la secessione in modi diversi, ma trova la sua base nella stessa realtà economica che sta emergendo. Questo gruppo di americani non dipende più, come in passato, dalle prestazioni economiche degli altri americani»[4]. Di seguito: «gli individui che costituiscono una società sono disposti a sacrificare il loro personale benessere soltanto se si sentono legati a quella società a quella società in modo tale che ‘il bene più grande’ ha per loro un significato vero. Se, venuta a mancare la minaccia sovietica, l’identità dell’America appare un po’ più indistinta e la sua determinazione un po’ meno irresistibile di prima, gli americani saranno più riluttanti a fare sacrifici»[5]. Analisi da cui traspariva palese ammirazione per le figure sociali emergenti, protagoniste nel nuovo mondo dell’economia globalizzata. Secondo il linguaggio reichiano, “intermediari strategici” e “analisti simbolici” (tradotto: broker e futuri Master of Univers di Wall Street). Solo tre anni dopo riprendeva la materia lo storico di Rochester Christopher Lasch, posizionandola sotto tutt’altra luce: la composizione sociale determinatasi nel declino dello Stato-nazione e la conseguente asportazione delle sue funzioni regolative/redistributive ha invertito il corso della storia novecentesca; a partire dal suo ultimo quarto, che «non va più nella direzione del livellamento delle distinzioni sociali, ma si orienta sempre più decisamente verso una società bipolare in cui pochi privilegiati monopolizzano i vantaggi della ricchezza, dell’educazione e del potere»[6]. Qui non siamo più innanzi a pacifiche migrazioni interne, bensì a quella che nel suo saggio omonimo Lash definisce alla Ortega y Gasset una vera “ribellione delle élite” (The Revolt of the Élite and the Betrayl of Democracy), che minacciano la sopravvivenza dell’ordine democratico promuovendo la propria “insularità”: «le élite politiche e intellettuali hanno perso i contatti con la realtà in cui vivono e si muovono in un mondo falsamente cosmopolita di consumi assurdi e di mode fini a se stesse. Hanno rinunciato al loro ruolo civico e rifiutano gli obblighi che nella democrazia partecipativa sono legati allo status e al potere. La crisi spirituale e l’impoverimento morale della vita democratica hanno origine qui, nel solco sempre più profondo che separa le élite dalle masse, nella divaricazione crescente tra ricchezza e povertà, nell’inconsapevole egoismo che ha travolto quell’etica del rispetto che, nel secolo scorso, sembrava ancora il perno di ogni speranza di democrazia»[7]. Un distacco totale, psicologico, economico, sociale e politico, che all’inizio del nuovo millennio offrirà il destro al politologo Robert Putnam per sintetizzare le sue considerazioni più generali sull’invecchiamento dello spirito civico americano e il dilagare del disimpegno nella cosiddetta “generazione post-civica” in una battuta amarissima: «l’errore del paradiso pluralista è che il coro celeste canta con un forte accento altoborghese». Il risveglio: 2011 Voci comunque isolate, coperte dalla predicazione dell’individualismo possessivo come migliore dei mondi possibili (imprenditorializzatevi!) e le sue promesse mendaci dell’avvento di una nuova età dell’oro; in cui l’arricchimento sarebbe stato generale, una volta sbaraccate le burocrazie pubbliche e azzerate le tassazioni. Nella ridondanza dei marchingegni comunicativi del marketing politico, tipo la metafora ecumenica della crescita applicata alla nautica (se si alza la marea tutti i navigli salgono. E quelli che naufragano?) o il paradosso fiabesco della “curva di Laffer” (più si riducono le imposte dirette e più aumentano le entrate fiscali. Boom!). Economia vudu, la definì il repubblicano Nelson Rockefeller quando venne presentata la reaganomic. Ma a lungo gran parte di un corpo elettorale assetato di certezze se la bevette; e perfino buona parte della Sinistra (opportunista) pensò bene di transumare nel campo dei vincitori (la finanza egemone) sotto gli stendardi della Terza Via. Aspetti della strategia illusionistica con cui venne destrutturato il blocco sociale che per decenni (dagli anni Trenta del New Deal in America, i “Trenta gloriosi” del dopoguerra in Europa) aveva sostenuto i modelli di Stato Sociale welfariano. Nel frattempo, sotto la coltre di questo nascente consenso popolare beatamente acritico, le tecnostrutture al servizio della classe dominante mettevano a punto il marchingegno che l’antropologo della City University of New York David Harvey definisce “accumulazione tramite esproprio”[8], nelle sue diverse modalità: privatizzazione, mercificazione, finanziarizzazione, rendite di posizione (gatekeeping). Tanto da far dire che «l’accumulazione è diventata il motore del nuovo capitalismo, più del profitto»[9]. E la speculazione. Per cui in una fase storica tendente alla stagnazione (come tutte le fasi dominate dalla finanza) il mercato mondiale dei derivati vale dodici volte il pil mondiale. Dunque, l’aumento delle disuguaglianze sociali di cui si diceva inizialmente (oggi settanta milioni di persone detengono tanta ricchezza quanto il resto della popolazione mondiale, avviata a raggiungere gli otto miliardi), creato dal continuo sequestro di ricchezze da parte delle oligarchie al vertice, a fronte dell’inarrestabile declino sistemico di questa fase storica, viene ulteriormente accelerato da due fenomeni con effetti moltiplicativi: l’isolazionismo insulare dei ceti dominanti assume gradatamente un profilo castale: corporazioni autoreferenziali e al tempo stesso colluse tra loro nel perseguire l’accaparramento di posizioni e nel saccheggio di beni; il perseguimento di politiche anti-cicliche che presuppongono investimenti strategici sono applicate nella modalità del cosiddetto “keynesianesimo privatizzato” (il prelievo di risorse a carico non dello Stato, come da classica ricetta, bensì del ceto medio e delle famiglie, sotto forma di precarizzazione e impoverimenti). Non è un caso se «a partire dagli anni Settanta del XX secolo le disuguaglianze all’interno dei paesi ricchi – in particolare gli Stati Uniti, dove nel primo decennio del XXI secolo la concentrazione dei redditi ha raggiunto, o leggermente superato, il livello record del decennio tra il 1910 e il 1920 – si sono di nuovo accentuate»[10]. È a questo punto – siamo alla fine della prima decade del terzo millennio – che il sonno ipnotico del corpo sociale, perso nel sogno di vivere “nel migliore dei mondi possibili”, termina in un brusco risveglio: le promesse sono state smascherate dalle dure repliche di una realtà assediata dai processi di impoverimento, mentre si susseguono gli esempi sempre più intollerabili di protervia e di lusso ostentativo della plutocrazia che presidia i varchi attraverso i quali scorrono i flussi materiali e virtuali della ricchezza; dell’oligarchia che controlla i processi decisionali della politica. La parola d’ordine la fornisce un vecchio partigiano francese di novantadue anni – Stéphane Hessel – che nel 2010 pubblica un libello di trenta pagine intitolato Indignez-vous, con cui invita alla resistenza contro “le illegalità della ricchezza”. L’anno dopo, all’inizio di primavera, troviamo accampamenti popolati in prevalenza da ceti medi riflessivi che manifestano tutto la loro indignazione contro l’irresponsabilità dei padroni della finanza globalizzata e i loro misfatti; venuti alla luce già in precedenza, con l’esplosione delle bolle finanziarie di Wall Street. Una mobilitazione all’opera in 950 città di ben 80 Paesi. Dall’esito sconvolgente: alla fine dell’anno i vari governi si premuravano di correre in soccorso degli istituti bancari contestati attraverso erogazioni di pubblico denaro (in larga parte convertito in benefit a favore dei vertici manageriali di tali istituti). Da qui il diffondersi crescente di frustrazione e risentimento, che fino ad oggi ha trovato canalizzazioni insufficienti. Forse l’indignazione si avvia a diventare conflitto sociale, come nel caso tuttora confusamente magmatico dei gilets jaunes francesi. Quello che appare certo è la messa in circolazione, nel pur caotico (e dopato) dibattito pubblico, del discredito maturato nei confronti dell’establishment; ossia l’aggregato di corporazioni del potere, irresponsabili e tra loro colluse. Che calpestano sistematicamente la promessa di farsi carico delle sofferenze popolari, della domanda di condizioni più eque, giuste e solidali. L’istanza di AltraPolitica, di un ethos democratico rinnovato dopo le involuzioni della Post-democrazia (il confronto elettorale ridotto a gara tra marchi intercambiabili promossi da politici diventati imprenditori di se stessi), a rischio di ulteriori scivolamenti nella Democratura (riduzione della democrazia a guscio vuoto che occulta derive autoritarie). Questo e non altro è ciò che attualmente viene definito Populismo: per dirla con Lash, lo smascheramento della dittatura di oligarchie plutocratiche irresponsabili, per la riaffermazione della Giustizia e della Libertà; valori di una democrazia risanata. Per dirla con Barak Obana (che si definisce “populista”), la difesa delle persone comuni contro gli interessi delle grandi corporation economiche e politiche. Con Pierre Bourdieu, la guerra di liberazione «contro il clero politico»[11]. Nazionalismo come menzogna consolatoria Tornando ab ovo, se un Populismo correttamente inteso non può che essere di sinistra (e quello che viene chiamato impropriamente “Populismo di destra” è soltanto demagogia) il suo primo messaggio ci riporta a una visione “di classe” della società; all’idea di “conflitto di classe”. Un patrimonio antico della Sinistra sociale rimesso a nuovo, che dovrebbe far riflettere i Sovranisti di sinistra; che non si capisce a quale idilliaca sovranità-patria facciano appello, visto che non abbiamo bisogno di ricorrere a ser Macchiavelli per scoprire che il primo tratto distintivo della patria/nazione/città è la disunione, superabile solo attraverso la dialettica politica: l’immaginaria unitarietà del corpo sociale, che dovrebbe ragionare e decidere come un’intelligenza collettiva intenta a un unico obiettivo, si scontra con il dato fattuale che pone l’essenza del politico nella categoria di hostis-amicus. L’antagonismo come stato superabile nelle pratiche deliberative della democrazia; fermo restando che – afferma Jürgen Habermas – «l’ordinamento democratico non è per nulla legato al radicamento mentale in una ‘nazione’ come comunità prepolitica del destino»[12].. Magari le formule alla David Graeber, portavoce di Occupy Wall Street, tipo “siamo il 99%”[13] suonano terribilmente ingenue; magari occorrerà riflettere sulla costruzione di blocchi sociali democratici ben più articolati nel declino di soggettività della classe operaia. E – visto che, nelle attuali interdipendenze mondializzate, gli interessi in ballo fuoriescono abbondantemente dai confini dello Stato-nazione – parrebbe doveroso ragionare in un’ottica sovra-statuale; se non si vuole usare l’espressione desueta “internazionale”. Come non si stancava di ripetere ai sindacati italiani Luciano Gallino, riflettendo sulle lotte per i diritti del lavoro nell’attuale contesto; in cui lo sfruttamento e l’emarginazione a Occidente utilizzano come dumping sociale il ripristino di forme schiavistiche nel modo di produrre a Oriente[14]. Resta fermo il fatto che l’idea patriottica insita nell’opzione sovranista (il mito del popolo sovrano) suona depistante e falsa. Soprattutto per chi dovrebbe ricordare come e quanto la sirena del nazionalismo in passato abbia prodotto danni incalcolabili alle posizioni di sinistra. Intorbidando le acque e confondendo le idee con l’appello al patriottismo. Nella declinazione del mito dello Stato sovrano, che Luigi Einaudi aveva definito “idolo immondo” già nel lontano gennaio 1945, in un intervento apparso sulle pagine di Risorgimento Liberale. Nelle pratiche comunicative con cui il potere riconduce ai propri voleri, ammantandoli di verità-naturalità, i gruppi sociali più recalcitranti; anche contro gli specifici interessi materiali di costoro. Perché – come spiega lo storico François Furet – «l’homo oeconomicus ha un ruolo centrale sulla scena della società moderna. Ne è il primo attore, ma da questo non consegue che ne sia l’unico personaggio o che non possa nutrire passioni e calcoli diversi dall’interesse. Il capitale ha le sue responsabilità nelle disgrazie del XX secolo. Ma non dev’esserne il capro espiatorio»[15]. Come si verificò nel fatidico 1914, quando i circoli bellicisti europei avviarono greggi di popoli consenzienti all’immane mattanza del primo conflitto mondiale grazie all’appello patriottico al bene supremo della comunità nazionale; «una sorta di plebiscito di quell’invenzione europea per antonomasia che è la nazione», opera dei secoli e dei re. I secoli hanno plasmato la lingua, i costumi, l’abitudine a vivere insieme. I re hanno lentamente costruito l’autorità pubblica che ha dato corpo alla nazione nascente, riunendo popoli diversi. Sempre di invenzione si tratta; a vantaggio dei detentori del potere che ne piegano ai propri fini la capacità di indurre identificazione. La formidabile escogitazione delle classi superiori con cui sfruttare l’energia dei ceti inferiori per perseguire i propri scopi. Non di rado con l’azione depistante di canalizzare risentimenti e indignazioni popolari verso nemici esterni. In parte o del tutto simulati Un po’ quello a cui stiamo assistendo ancora una volta. Ancora una volta nella diffusa dimenticanza che buona parte delle tradizioni a cui riteniamo di ispirarci non sono altro che invenzioni. Lo pensavo leggendo con simpatia il contributo “patriottico” di un giovane collaboratore apparso settimane addietro in questo sito. In cui si invita – niente meno – a «immaginare un’identità italiana che sia includente e progressista, basata sulla storia migliore del nostro paese. Che ricordi con orgoglio la storia dei nostri nonni che diedero la vita per la libertà, contro i fascisti che distrussero il nostro paese. Un’identità italiana che non dimentichi che gli italiani sono stati un popolo migrante, e che l’accoglienza e l’ospitalità italiana sono valori impressi nella nostra storia e di cui dobbiamo andare fieri. Un’Italia che ami il suo passato e la sua cultura, nella consapevolezza che la storia va avanti e le tradizioni evolvono. Un’Italia internazionalista e inter-culturalista, consapevole che una comunità nazionale sana ha tutto da guadagnare dall’incontro tra i popoli».[16] Mi prefiguro grandi delusioni in arrivo per questo nostro amico, nell’Italia intimamente familista, dunque reazionaria e codina; come la storia patria dimostra, a partire dagli abbagli suicidi dei mazziniani di Carlo Pisacane e da un’unificazione calata dall’alto, realizzata dalla casta militare sabauda e osteggiata da larga parte degli “unificati” (ben prima del Non expedit con cui papa Pio IX sanciva nel 1874 la defezione delle masse cattoliche dal nascente Stato italiano). Il Paese in cui solo 12 professori universitari (su 1200 accademici) rifiutarono il giuramento al Regime fascista e alla proclamazione dell’Impero si confermava largamente mussoliniano. Tanto che la lotta al fascismo della Resistenza fu opera di un’esigua minoranza, condannata a essere emarginata subito dopo la Liberazione; in primo luogo ad opera del partito leader delle Sinistra antifascista: il PCI di Togliatti. Un popolo che sino a ieri si auto-incensava ostentando lo stereotipo “Italiani brava gente”; che Angelo Del Boca fa risalire alle nostre maldestre avventure imperialiste, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Smentito già da allora, senza aspettare i razzismi anti-meridionali degli anni ’50; anticipatori delle paranoie xenofobe di questi anni salviniani: «dietro questo paravento protettivo di ostentato e falso buonismo, si sono consumati negli ultimi centocinquant’anni, in Italia e nelle colonie, i peggiori crimini. Si pensi soltanto ai 100mila libici uccisi tra il 1910 e il 1932 […] ai 2mila preti e diaconi assassinati nella città conventuale di Debrà Lbanos […] alle bonifiche etniche nei Balcani»[17]. Una stridula sinfonia sullo spartito patriottico. Ingannatore. Specie per una Sinistra in preda dell’autolesionismo da confusionismo. Come risalta in tutta evidenza da un piccolo apologo che si raccontava dalle parti del mio luogo natio: il porto di Genova. Si era nella fase iniziale della Grande Guerra e i partiti operai delle varie nazioni contendenti si dividevano sul che fare: mantenere la barra dritta sull’ortodossia internazionalista, propugnando posizioni pacifiste, oppure inseguire la sirena nazionalista precipitandosi armi in pugno nell’immenso massacro consumato tra fraterni compagni proletari inquadrati in eserciti contrapposti? La stessa questione che si poneva ai camalli genovesi, una delle componenti più avanzate della classe operaia italiana di allora. Per cui, agli inizi del 1914, quando ormai appariva chiaro che il dibattito pubblico nazionale inclinava verso l’entrata in guerra, si riunirono nella sede della loro Camera del Lavoro per decidere come posizionarsi politicamente. E subito ci si divise: “internazionalisti” contro “risorgimentali”, in un confronto che talora sfiorò la rissa. Soprattutto riprodusse lo stallo che impedirà ai lavoratori di svolgere un ruolo civilizzatore nel campo politico europeo, presto occupato da forze oscurantiste e reazionarie. Ora come allora. Stretto nella morsa di un conservatorismo cieco e ottuso (le corporazioni del privilegio che hanno perfino dimenticato la cinica lezione del Gattopardo sull’uso del cambiamento a scopo di mantenimento) e la demagogia reazionaria di quanto taluno chiama “fascismo 2.0”, è ormai sempre di più a rischio di soffocamento il progetto dell’illuminismo democratico per una società civile mondiale inclusiva e solidale. L’idea così bene espressa il 22 febbraio 1768 da Denis Diderot nella sua lettera all’amico Hume: «mio caro David, voi appartenete a tutte le nazioni e non chiederete mai a un infelice il suo certificato di battesimo. Io mi vanto di essere come voi, cittadino della grande città del mondo». Populisti entrambi, seppure non nazionalisti? NOTE [1] M. Castells, Il potere delle identità, Università Bocconi Editore, Milano 2003, pag. 291. [2] T. Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014, pag. 154. [3] F. Barca, “Il Capitalismo? Va ridiscusso, ora serve radicalità” micromega.net 1aprile 2019. [4] R. B. Reich, L’economia delle nazioni, Il Sole24Ore, Milano, pag. 306. [5] Ivi pag. 387. [6] C. Lasch, La ribellione delle élite, Feltrinelli, Milano 1995 pag. 32. [7] Ivi, pag. IV. [8] D. Harvey, Breve storia del Neoliberismo, il Saggiatore, Milano 2007, pag. 182 e sgg. [9] P. Leon, Il Capitalismo e lo Stato, Castelvecchi, Roma 2014, pag. 155. [10] T. Piketty, Il Capitale, cit., pag 33. [11] P. Bourdieu, Proposta politica, Castelvecchi, Roma 2005, pag. 93. [12] J. Habermas, La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano 1999, pag. 53. [13] D. Graeber, Progetto democrazia, il Saggiatore, Milano 2013, pag. 47. [14] L. Gallino e Maurizio Landini, “Lavoro, diritti e cittadinanza”, micromega.net 24 gennaio 2011 [15] F. Furet, Il passato di un’illusione, Mondadori, Milano 1995 pag. 50 [16] J. Custodi, “L’Italia siamo noi. La sinistra e l’identità azionale”, micromega.net 25 marzo 2019. [17] A. Del Boca, Italiani, brava gente? Neri Pozza, Vicenza 2005, pag. 51 |