La trasformazione dell’agricoltura fra capitalismo ed ecomafie [di Il Barbuto]
La Città futura 4 maggio 2019. In Puglia, col pretesto della Xylella, si sperimentano rivolgimenti che abbatteranno le tutele sanitarie, ambientali e storiche e favoriranno il grande latifondo, la speculazione, la bioeconomia e le agromafie. L’agricoltura sta cambiando profondamente. È in atto un passaggio da un modello di produzione agricola (artigianale, semi industriale, industriale) volto a soddisfare dei bisogni alimentari primari, seppur dominato da logiche di mercato, ad un modello volto alla mercificazione delle risorse naturali nell’ottica della c.d. bioeconomia, con la progressiva spoliazione di grosse fette di terra a danno delle piccole attività agricole, complici anche quelle associazioni di categoria che, solo formalmente, tutelano i piccoli produttori ma che, nei fatti, permettono alle grosse aziende di ottenere, dallo sfruttamento indiscriminato della terra, il massimo profitto. Sul piano nazionale la Puglia, per svariate ragioni, rappresenta un campo sperimentale e la questione Xylella è il cavallo di Troia utile per provare come, in un regime politico-normativo manipolato dal mercato, si possa poi raffinare ed adottare in maniera organica, ove occorra su altre zone del territorio nazionale, un sistema emergenziale, di volta in volta adottato con il pretesto dei cambiamenti climatici e delle fitopatie [1], finalizzato a superare i vincoli normativi e addirittura costituzionali, le opinioni delle comunità locali, i rilievi mossi dalla comunità scientifica indipendente e, più in generale, ogni forma di opposizione a quella visione dominante in grado di sconvolgere l’ambiente, la biodiversità, le culture basate sul rapporto con la terra, le comunità, le economie locali. Il tutto seguendo il modello della (falsa) green economy, sul paradigma del rispetto verso l’ambiente e i territori, così come vorrebbero i movimenti ambientalisti globali. È un controsenso? Di facciata lo è, ma nell’intimo si sta generando un modello perverso in cui dietro la parola chiave bio- si palesa la costituzione di un nuovo latifondo, il depauperamento dei suoli agricoli con finalità energetiche e industriali e il superamento di tutti i vincoli normativi che limitano le grandi iniziative economiche. In Italia, da oltre 40 anni la superficie agricola utilizzata (SAU) si sta riducendo (complice soprattutto la cementificazione selvaggia), ma non in proporzione alla diminuzione delle aziende agricole: Nel 1971 avevamo 16,5 milioni di SAU e poco più di 4 milioni di aziende agricole. Oggi abbiamo circa 1,6 milioni di aziende agricole e 12,4 milioni di SAU, dunque meno aziende agricole, sempre più grandi, gestiscono più terra [2]. La crescita dimensionale e la diminuzione delle piccole aziende agricole è una diretta conseguenza delle politiche europee e dell’andamento dei mercati, che tendono a rendere non competitive le piccole realtà, a danno della perdita di tipicità, di biodiversità, di produzioni di elevata qualità, di espressione delle tradizioni locali, nonché da un’intensificazione delle monoculture, specie a produzione intensiva, che provocano impatti dannosi sull’ambiente. Il fenomeno di accentramento della terra nelle mani di sempre meno aziende e sempre più meccanizzate ha però incontrato nella storia numerosi ostacoli di tipo sociale e normativo: basti ricordare, per esempio, che con lo smantellamento del latifondo, con il processo di redistribuzione delle terre e con l’ulteriore frammentazione dovuta all’istituto giuridico della successione sono sempre più numerosi gli attori sociali che detengono la terra, specie al Sud [3]. Inoltre diverse normative di carattere ambientale e culturale pongono dei vincoli all’uso intensivo e indiscriminato della terra [4]. In questo quadro s’inserisce la questione Xylella in Puglia. La Xylella Fastidiosa è un patogeno inserito nella lista A/1 dell’EPPO (Organizzazione intergovernativa euro-mediterranea per la protezione delle piante), ma numerosi studi condotti in California (luogo dove colpisce viti ed agrumi) evidenziano che la sub specie Pauca del batterio ritrovato in Puglia (e che ad oggi risulta presente nel 2% delle piante campionate) non colpisce gli ulivi, se non associato alla presenza di altri patogeni (Zeuzera pyrina, funghi parassitari, ecc.), i quali sono sicuramente responsabili dei disseccamenti che nella Puglia meridionale hanno iniziato a manifestarsi ben prima della scoperta del batterio [5]. Nessuno studio ha dimostrato a oggi la diretta correlazione tra disseccamenti degli ulivi e batterio. Nonostante le incertezze nell’ambiente scientifico, le numerose sperimentazioni ancora in corso, l’intensificarsi dei disseccamenti a fronte di una scarsissima diffusione del batterio, si è subito parlato di milioni di piante infette, generando allarmismo nella popolazione e si è trovata una soluzione priva di supporto scientifico ma ricca di prospettive di lucro. Sin dal 2015 sono stati adottati provvedimenti di carattere europeo e nazionale (questi ultimi emergenziali) [6] che hanno portato all’abbattimento di migliaia di piante, anche centenarie e monumentali e di tutta la vegetazione in un raggio di 100 metri dal singolo ulivo positivo, indipendentemente dallo stato di salute. Queste azioni, derivanti dal principio di precauzione, sono accompagnate da un massiccio uso di fitofarmaci, notoriamente dannosi per la salute umana, animale e vegetale, da utilizzare su circa 700.000 ettari di terra, dalla Provincia di Bari al Capo di Leuca [7], azione per cui il principio di precauzione, per qualche strana ragione, non viene applicato. L’uso di pesticidi è previsto sugli alberi, su tutti i terreni e persino nei centri urbani per la c.d. lotta al vettore del batterio, individuato in tre determinati insetti [8]. Indipendentemente dalle ragioni fattuali che hanno portato il patogeno in terra pugliese [9], vanno evidenziati gli effetti e le ragioni per cui in Puglia ci si accanisce per abbattere e irrorare di veleni le terre senza tener conto di soluzioni scientifiche alternative che prevedono un approccio olistico anche al fine di rigenerare i suoli e le piante e la coesistenza con un batterio che con molta probabilità è ampiamente diffuso in buona parte d’Europa. Da decenni, le associazioni di categoria lamentano la scarsa industrializzazione del settore olivicolo, l’eccessiva frammentazione della produzione e la presenza di vincoli normativi a tutela degli ulivi secolari, che impediscono la competitività sul mercato globale [10], esigenza fatta propria anche dal Decreto Emergenze. Curiosamente sin dall’inizio dell’emergenza dette associazioni hanno iniziato a parlare di piante resistenti al batterio le cui sperimentazioni di campo (durate dal 2015 al 2018, su piante giovani), seppur prive di riscontro scientifico, sono state facilmente recepite nel Decreto Emergenze, prevedendo ampi finanziamenti per i reimpianti o gli innesti [11]. Le piante definite resistenti (le uniche a poter essere reimpiantate per legge) sono: Leccino, una cultivar non autoctona ed FS-17 (anche detta Favolosa), un portainnesto di olivo brevettato, le quali si prestano a coltivazioni intensive o superintensive e necessitano di trattamenti fitosanitari e abbondanti risorse idriche. Dunque non sono coltivazioni alla portata di piccoli olivicoltori né ambientalmente sostenibili. Tale soluzione, legata ai massicci abbattimenti e al divieto di reimpianto delle specie infette imposto dalla normativa vigente, obbliga di fatto gli olivicoltori o a reimpiantare tali cultivar [12] oppure a lasciare libero il terreno, con conseguente deprezzamento del valore fondiario e successivo riutilizzo per altri scopi [13]. In questo quadro s’inserisce la questione bioenergetica, inserita nel più ampio contesto della bioeconomia, promossa dalla Commissione Europea attraverso il documento Innovating for Sustainable Growth: A Bioeconomy for Europe (2012) che trova le sue radici nell’Agenda strategica della CE degli anni Novanta e il cui obiettivo è di creare una società più competitiva, efficiente e innovativa, che riconcili la sicurezza alimentare con l’uso sostenibile delle risorse rinnovabili per fini industriali, tutelando l’ambiente. Il giro d’affari annuo in Europa, secondo alcune stime, sarebbe di circa 2,1 mila miliardi di euro, mentre in Italia il fatturato complessivo annuo è già di circa 250 miliardi di euro. Dalle premesse e dagli obiettivi, la bioeconomia sembra essere la panacea di ogni male e una delle soluzioni ai sempre più invasivi squilibri climatici, all’esaurimento delle fonti fossili e alla produzione di rifiuti. Nel 2012 è stato costituito il Bio-Based Industries Consortium (Bic) formato da circa 200 membri tra cui multinazionali, cluster, università, associazioni e compagnie petrolifere per rappresentare il settore privato nella Bio-Based Industries, ossia una partnership pubblico-privata fra UE e Bic, con 3,7 miliardi di euro messi in campo [14]. La presenza degli stessi attori che hanno finora monopolizzato le fonti fossili lascia presagire che si applicherà lo stesso modello neo-liberista anche in tal campo e non si possono non considerare le economie di scala o le intensificazioni dei cicli produttivi che gravano sulle popolazioni locali e la visione globale dell’accaparramento delle risorse naturali al fine di ottenere combustibili e semilavorati industriali secondo una prassi ormai consolidata dal capitalismo mondiale. Tra l’altro, si sta delineando un modello (ormai classico) per cui la gestione è accentrata e la domanda proviene da zone tecnologicamente più avanzate e in cui si concentra l’alta borghesia con alta capacità di spesa (Nord Europa, Stati Uniti, Giappone) mentre i centri produttivi sono concentrati nelle zone ad alta densità di terra, a bassa conflittualità sociale e dove le condizioni climatiche consentono maggior produttività (Europa meridionale, Africa, America Latina, Asia). È chiaro che una visione globale e capitalista della bioeconomia produce una filiera lunga, processi di deterritorializzazione con sparuti episodi di conflittualità locale (facilmente gestibili con provvedimenti normativi emergenziali, anche a causa dell’annientamento scientifico dei movimenti di massa portato a termine ormai da diversi decenni), con impatti significativi sulla biodiversità e sull’ecosistema e a processi di accentramento delle terre nelle mani di chi dispone di immense risorse economiche. È con questa chiave di lettura che va vista la questione Xylella in Puglia. Gli elementi fanno capire che produzioni olivicole intensive e biomasse rappresentano la nuova frontiera dell’agricoltura. Da questa logica parte il Decreto Emergenze, il quale all’art. 8.3 prevede l’esclusione della Valutazione d’Impatto Strategica per tutti i provvedimenti fitosanitari emergenziali, che permetterà qualsiasi azione svincolata da controlli e limiti in materia di ambiente e salute, ciò oltre alle numerose deroghe in materia di vincoli paesaggistici, idrogeologici, storico culturali che limitano l’iniziativa economica privata a danno dell’ambiente. La Puglia è solo un campo sperimentale e di forte appoggio alla riconversione in senso capitalista da parte dell’industria e delle associazioni di categoria, quindi non stupisce che si parta da lì per mettere a punto la metamorfosi agricola secondo le logiche della bioeconomia e con le larghe maglie concesse dalle istituzioni. Non va sottaciuto in questo quadro anche il ruolo delle c.d. agromafie [15]. La criminalità organizzata, figlia del sistema capitalista, pone la sua longa manus su tutto ciò che è economicamente proficuo, gestibile in modo antidemocratico e oligarchico e dunque i rapporti tra mafia e politica neo-liberista sono al pari dei rapporti tra quest’ultima e affarismo locale e internazionale. Per citare l’ultimo caso di cronaca, Paolo Arata e Vito Nicastri sono due soggetti legati al settore della green economy ma soprattutto, stando alle fonti giornalistiche, legati al boss Matteo Messina Denaro e hanno fatto inserire nel contratto di governo di Lega e 5S un punto sullo sviluppo del biometano, argomento molto caro alle associazioni di categoria pugliesi e, chiaramente, e ai gruppi petroliferi [16]. Nicastri era il re dell’eolico e quest’affare (che ha coinvolto anche Armando Siri, braccio destro di Salvini), accanto a quello del fotovoltaico, è solo una fetta del gigantesco business della green economy associata alla logica della bioeconomia. Non è infondata, in questo quadro, la paura espressa da molti ambientalisti circa l’estrema pericolosità sanitaria e ambientale nel caso in cui le mafie entrassero direttamente o indirettamente nel ciclo produttivo della bioenergia, poiché, per esempio, in questo modo si potrebbero bruciare, in un regime di legalità formale, i rifiuti speciali insieme alle biomasse vegetali, con conseguenti minori costi e più alti profitti [17]. Con ciò s’intende evidenziare le distorsioni che si verificano puntualmente ogni volta che una prospettiva economica dalle potenzialità ingenti si concretizza all’interno di un sistema neo-liberista in cui le risorse economiche e gli allacci politici sono in mano a poche persone. In questo sistema è evidente che si predilige l’accumulazione del capitale a scapito delle risorse naturali, della salute umana, della giustizia sociale o della dignità dei lavoratori nonché di tutte quelle norme costituzionali e ordinarie poste a tutela della collettività e dell’ambiente. È questa la nuova frontiera della bioeconomia? Note: [1] Si v. i vari considerando del c.d. Decreto Emergenze. All’interno si parla non più di organismo specificato, per indicare un dato patogeno, ma genericamente di organismi nocivi ai vegetali. Qualunque patogeno vegetale può essere così un pretesto per misure emergenziali. [2] In media in Italia vengono gestiti 11 ettari per azienda (nel 2004 erano 7,4, fonte ISTAT). [3] Basti ricordare la redistribuzione delle terre conclusa negli anni Cinquanta e il fenomeno sociale degli emigranti che, rientrati al Sud, hanno investito i loro risparmi acquistando appezzamenti di terreno, da coltivare e dare in eredità ai figli. [4] Si pensi, ad esempio, ai vincoli paesaggistici o idrogeologici, al divieto di abbattimento degli ulivi, alle norme regionali che tutelano le piante simbolo del territorio e delle identità locali, all’istituzione di parchi e riserve per tutelare la biodiversità, ecc. ecc. [5] Si v. a tal proposito Linee guida per il contenimento della diffusione di Xylella Fastidiosa e la prevenzione e il contenimento del complesso del disseccamento rapido dell’olivo (CoDiRO), Regione Puglia, 2014. Le prime segnalazioni risalgono al 2004, mentre la letteratura storica riporta altre fasi di disseccamento nella seconda metà del Settecento e tra fine Ottocento e inizi Novecento. [6] Si ricorda: Decisione di esecuzione n. 87/2014, n. 497/2014, n. 789/2015, n. 2417/2015, n. 764/2016, n. 2352/2017, Delibera Di Giunta Reg. Puglia N. 2023/2013, DGR N. 1842/2014, D.M. 26.09.2014, D.M. 19.06.2015, D.M. 13.02.2018, Decreto Emergenze, ecc. [7] Basti ricordare la diretta correlazione, ormai pacifica, tra l’uso di pesticidi e la morìa delle api. La quantità stimata di erbicidi e insetticidi necessaria per coprire una superficie così vasta è di milioni di litri. È facile immaginare la portata dannosa sull’ambiente e la salute. [8] Si tratta di: Phiaenus spumarius, Neophiaenus campestris e Philanaeus italosignus, il primo di questi è il presunto vettore (anche se i test di inoculo dell’insetto sull’ulivo sono falliti) diffuso non solo nelle campagne ma in ogni tipo di vegetazione, anche urbana. [9] Su cui si sono scatenate numerose teorie che hanno distolto l’attenzione dagli effetti della gestione della lotta al batterio, creando quella confusione comunicativa, artatamente creata, che ha generato tifoserie da stadio nell’opinione pubblica, e impedito di far emergere il gigantesco giro d’affari che si sta concretizzando. Per approfondire v. II rapporto Eurispes sulle agromafie. [10] Si v. il rapporto sull’olivicoltura pugliese (Confagricoltura Puglia, 2012) in cui si propone di superare tutti i vincoli normativi a tutela degli ulivi secolari e monumentali nel nome di presunti benefici collettivi che ricadono sulle spalle delle aziende (sic!). [11] Si v. l’art. 8-quater del Decreto Emergenze, che dispone un piano straordinario per la rigenerazione olivicola del Salento prevedendo 300 milioni di euro per il 2020 e 2021 nonché ulteriori fondi, fino a 7 miliardi di euro, inseriti nel Fondo per lo sviluppo e la coesione. [12] Tali cultivar, se utilizzate con sistemi superintensivi (più di 1600 piante/ha) hanno un ciclo di vita di soli 12/15 anni, inserendosi perfettamente nella logica della bioeconomia circolare. [13] Giova ricordare, per capire meglio la questione, che la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha impugnato dinanzi alla Corte Costituzionale, la quale l’ha dichiarata illegittima, una norma della Regione Puglia (n. 41/2014) secondo cui i terreni interessati dagli espianti non avrebbero potuto cambiare destinazione d’uso per un periodo di sette anni. [14] Cfr Margherita Ciervo, UE Bio-based Policy: A Critical Economic-Geographical Point of View, in Open Agriculture (2016), pp. 131-143. [15] v. il III rapporto Eurispes sulle agromafie. [16] Per approfondire il ruolo di Nicastri e Arata v. articolo di Repubblica del 23.04.19, pag. 11. [17] Esattamente come accade oggi nella c.d. terra dei fuochi, ma senza il peso dell’illegalità e con costi minori. Si noti, per capire meglio il concetto, la prassi criminale di miscelare i rifiuti pericolosi con le frazioni organiche o di ridenominare formalmente un certo carico di rifiuti pericolosi come “non pericolosi”. In caso di destinazione ad una centrale a biomasse non sarebbe illogico supporre l’applicazione della medesima prassi nel riclassificare formalmente i rifiuti pericolosi come “vegetali”. *Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte. ** Foto Vincenzo Livieri – LaPresse
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