Opus Gay [di Franco Meloni]

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Sempre salato. E’ impossibile mangiare un bacalhau come si deve. Prima, invece le trecentosessantacinque ricette sembravano poche. Poi il sale mi fa male. Ottant’anni, neanche uno scherzo. Il dottore mi ha avvertito, pochi strapazzi e piano con il vino. Non mi può vietare le donne, altrimenti lo farebbe. Mi conosce. Sa che non è il caso di parlarne. Qui fa schifo, tutto. Gente che non farei neanche avvicinare ai miei cani, dappertutto. Negri, colorati, insomma. Le luci del locale sono penose. Neon. Quando mai lampade così fredde. Non si conciliano con il cibo. Dicono sia uno degli ultimi ristoranti ancora con i mobili di quaranta anni fa. Il padrone è penoso, con la giacchetta verde e stinta, i camerieri sono indifferenti, uno puzza di vino, pure pessimo. Ma il prezzo è buono. Un amico mi ha detto che, in questi tempi terribili, è ancora un posto tranquillo. E io di tranquillità ne ho un gran bisogno.

A Macao era peggio, in Angola pure. Ma era lavoro e non si poteva discutere. Il prezzo per fare della mia Patria un Impero rispettato in tempi in cui tutto sembrava poter essere messo in discussione. Trecento scudi per lavare e stirare una giacca, l’unica che mi è rimasta. La cravatta abbinata? Forse, e ora aiuta, una volta tanto, il neon. Non c’era giorno in cui non cambiassi abito. Stirato a dovere, come quando, la prima volta avevo fatto dare una ripassata alla recluta che non distingueva la riga dei pantaloni da quella che gli ho fatto scolpire tra i capelli. Anche il vino sembra peggiorato. Ma cosa si deve fare per sopravvivere in questa città?

Il rientro è stato terribile. Non mi sarei aspettato tanta perversità. Mi avevano detto che qualcosa era cambiato, ma non avrei immaginato questo macello. I giornali. Incredibile, sono scritti come se tutto fosse lecito dire. E le ipotesi che vengono poste, dibattito aperto, lo chiamano. Che faccia questo inglese. Moglie sfatta, bambini insulsi che trasudano fritto e gelato. Razza decaduta. Senza stile nell’assaltare i tegami di riso con le vongole. Magari con birra.

Ora anche italiani. Che pena, non riescono ad essere moderni e non vogliono perdere il treno dell’Europa. Inaffidabili. Anche quando siamo stati assieme per schiacciare le cimici rosse, non erano mai convinti. Fascisti da barzelletta, ogni volta che gridavo Viva la Muerte! Facevano gli scongiuri. Quasi quasi erano meglio i brigatisti, anche se li preferivo sotto terra. Questi due si riempiranno di roba e protesteranno per il conto. Bei tempi quando nessuno pensava di portarcelo, bastava l’onore di poterci servire. Non ricordo quante casse di vino verde abbiamo demolito con i veri camerati. Magari anche con qualche salsiccia e mostarda, non era il caso di fare gli schizzinosi.

Forse non era il caso di tornare. Gli amici, sempre meno, mi avevano avvertito: i tempi sono cambiati. Ma anche gli amici, come i soldi, sono quasi terminati. L’aiuto è arrivato al termine. Tanto che quasi non potevo pagare il biglietto dal Brasile. In economica. Assurdo, ricordando le persone onorate di offrirmi un passaggio nel più comodo dei modi. Fa caldo, anche qui. L’impianto non funziona bene, si è scusato il pessimo cameriere. Hanno dovuto ripulire il locale: topi. Mi ha fatto sorridere. Anche io facevo esattamente lo stesso tantissimi anni fa, ripulivo il mondo da topi. In modo perfetto.

Perché ostentano? Pantaloni corti sulla vita. Magliette della sorellina. Provocano. Le avrei sistemate in un attimo, la cantina era più che efficace a far entrare le idee giuste e a togliere quelle perverse. Accostarsi ai Sacramenti deve essere poi fuori moda, come dicono loro. Le sardine sono passabili. L’ubriacone sembra le abbia cucinate lui.

Non sarei dovuto rientrare. Mi hanno assicurato un minimo di protezione, non si sa mai. Ma da chi dovrei proteggermi in un posto dove tutto è degenerato. Poliziotti da ogni parte, ma per chi? La mia direttiva unica è sempre stato: mai apparire. E tutto andava per il meglio. Mai, o quasi, disordini.

Diciamo che allora non avrebbero neanche immaginato di poter aprire un locale di pervertiti che solo lontanamente potesse richiamare il nome della nostra Santa Religione: Opus Gay, roba da non prendere neanche in considerazione. E hanno anche il coraggio di fare la pubblicità sui giornali. Cinque, anche quattro dei miei ragazzi avrebbero evitato uno sconcio simile. Il formaggio va bene, grazie.

Non mi piace parlare con la servitù, ma penso di dover tornare qui altre volte. E forse anche il padrone può essere stato dei nostri. Ha un viso indecifrabile, affidabile. La memoria non è più come quando bastava sfogliare foto sbiadite per risalire al colpevole. Incontrandoli, poi, bastava la puzza. Non ho sbagliato una volta.Questo davanti a me, per esempio: bianco, istruito, sessanta, decentemente vestito, giornale di sinistra: insegnante di qualcosa al liceo. Non smette di fissarmi. Ha un caffè da quando sono arrivato. Forse gli ricordo uno zio, potrei esserlo.

I debosciati del club di checche sarebbero stati induriti a sufficienza, qualche anno fa. Dopo un po’ di ammollo, come il baccalà. Tre ore di vasca toglievano la voglia di ostentare quella che è un segno di Dio. La visibilità del male, l’inutilità nel Grande Disegno. Come negri ed ebrei, per non parlare delle lesbiche, un segno per vedere chi veramente deve essere la guida della società. In Sud Africa hanno perso una grande occasione, storica. Impareranno, come stiamo facendo noi, che non si discute con gli animali senza Dio, si schiacciano.

Il Professore fuma, tutti i vizi. Ma è mancino, la destra gli pende morta dentro la giacca. Herivelto Costa, fisico, anarchico, preso nel 69. Ricordo perfettamente. Retata dopo la soffiata di un suo studente, un patriota. Il braccio è stato illuminante. Ha resistito un bel po’, anche alla frattura, poi è crollato nella vasca. Duro si, ma di testa. Inutile, con le sue stupide idee di spiegare quello che è chiarissimo nella Bibbia. Almeno facesse cannoni, no, solo teoria. Parassita. Godeva quando mi guardava all’inizio sostenendo l’utilità del dubbio. Un verme strisciante. Ecco perché mi guarda. Che guardi.

Melone, e caffè, e porto, poi il conto. Quasi quasi continuo a mangiare, vedere un lavoro fatto bene mi ringiovanisce. Il grande idealista ha spiattellato tutti i nomi che ci servivano. Gli abbiamo eliminati come mosche. Operazione pulita, la polizia non ha eccepito sui modi. Un giornalista francese è stato convinto che l’incendio nella casa fosse dovuto al gas. Quasi vero.

Guarda come mi fissa. Cosa vede? La sua debolezza. Un vero uomo non avrebbe parlato, neanche con me. Ricordo il nero che era con lui, mi ha tenuto testa fino alla fine. Mi è dispiaciuto quando è scivolato dal cornicione. Peccato, c’era un po’ di soddisfazione. Domani bisogna che verifichi. I Fratelli mi hanno assicurato che qui sarei potuto tornare senza problemi. Il governucolo ha altri problemi da risolvere. Questo qui, rotto e sciancato, non oserebbe altro che guardarmi. Guardare, mi guarda.

L’appuntamento per definire tutto, e soprattutto il contatto con il Maestro, sarà domani. Il melone è buono, il caffè pessimo, come se ci fosse cenere amara al posto dello zucchero. Guarda come il cameriere è contento. Non è stato mai fermo, ha sistemato i bicchieri sette volte, aggiustandone la posizione tra il mio tavolo e quello del professore, che non ha preso nulla. Solo un porto, che ha bevuto con uno strano sorriso verso di me.

Stupido e miserabile: il porto, stessa bottiglia, non mi posso ancora permettere di scegliere il meglio, non è paragonabile a quelli che bevevo prima. Vent’anni minimo, ora li offrono anche a quei due italiani, lei non ha toccato cibo, pensa alla figlia o a sciocchezze del genere, lui tiene anche se sembra a disagio. Gli inglesi, se Dio vuole, sono andati a portare le loro orride figure altrove.

Mettono le sedie sul tavolo. Non avrebbero mai osato fino a quando non avessi salutato il cuoco. Altri tempi. Il conto è assurdo. Domani devo alzarmi presto per l’appuntamento. Mi sarei aspettato un posto più adeguato: il Castello, fatto dal nostro Capo: si può vedere tutta la città. O al Barrio. Non certo ad Oriente in metropolitana. Fuori città, quella vera. Con stazioni decadenti e troppo vicine ai negri fatte per di più da uno sporco spagnolo. Troppa mescolanza. Ma il nome è bello “Centro Vasco da Gama”. Sarà sicuramente un luogo patriottico, come vogliamo tutti. Da lì poi, dicono sia vicino: il Mare Atlantico all’Ocenarium. Sarà un incontro prima che tutti gli sbragati visitatori, Mac Donald’s in mano, possano entrare e si avventino per vedere foche e delfini.

Farà caldo, anche alle otto. Ho le scarpe consumate, spero di non scivolare per l’umido. Odio gli acquari, anche se dicono che questo abbia la vasca più grande del mondo. Il conto.

 *Fisico. Università di Cagliari. Narratore atque Scrittore

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