La formazione umanistica e la flessibilità negata [di Veronica Rosati]

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Sono passati molti anni da quell’estate trascorsa in Canada, in uno sperduto villaggio nel nord dell’Ontario. Avevo appena concluso il primo anno del corso di Laurea in Filosofia. È quella stagione della vita in cui i sogni e gli ideali finiscono per fondersi gli uni con gli altri, al fine di farci sentire davvero una parte attiva ed importante del mondo. Ad un evento a cui ero finita per caso conosco un amico della famiglia che mi ospitava. Era un uomo di mezza età dai modi garbati e dall’inglese americano.

La conversazione di circostanza sugli usi e costumi dell’Italia si fa d’un tratto seria e vivace appena inizio a parlare dei miei studi e della filosofia. Dopo un paio di domande mirate, quell’uomo mi dice di essere uno dei più noti imprenditori di Toronto e mi offre un lavoro nella sua grande azienda. Mi spiega velocemente come le persone con una preparazione come la mia fossero rare da quelle parti e come sia cosa nota che molti top managers avessero nel curriculum proprio una laurea in Filosofia. Avevo appena concluso due soli semestri e quel ricco sconosciuto stava parlando seriamente.

Allora non potevo ancora sapere che i miei ideali si sarebbero duramente scontrati con la realtà, nei terribili anni della crisi. Ignoravo ancora che quella situazione economica globale avrebbe portato una crisi di valori, di diritti, di opportunità, di attitudini e di aspirazioni. Chi si iscrive a Filosofia segue il cuore, non soltanto per concretizzare una sua passione, ma perché è convinto, molto concretamente, che soltanto mettendo a frutto appieno le proprie potenzialità ci si possa preparare al futuro. Non soltanto dietro ad una cattedra o in un gruppo di ricerca, ma nei più svariati contesti lavorativi. Anche in un ristorante o in un’azienda di logistica, per chi lo volesse.

Ho sempre pensato che una formazione umanistica preparasse in modo profondo al futuro personale e lavorativo. Come dicevano i migliori manuali d’orientamento universitario, la facoltà di Filosofia apre davvero la mente. Ciò che davvero trasmette è la flessibilità, o forse, l’umiltà, di impegnarsi a gestire e risolvere con metodo le più svariate situazioni lavorative.

La realtà in Italia è molto più semplice e crudele. Il laureato in Filosofia è spesso considerato un bontempone che ha trascorso i suoi anni migliori a sonnecchiare facendosi mille domande dalle sempre dubbie risposte. Il suo presunto tratto distintivo è l’aver imparato a far nulla, tanto che risulta palesemente fuori posto nella maggior parte delle selezioni di personale. La domanda a cui deve rispondere ogni volta è: “Perché hai studiato Filosofia?” Le prime volte si risponde con un ingenuo entusiasmo, cercando di compendiare in poche battute il fiume di emozioni che può provocare questa domanda. L’esperienza non tarda a maturare ed è sempre più difficile non far trasparire lo sdegno. Nessun selezionatore, infatti, si sognerebbe di indagare le ragioni ultime della laurea in Chimica di un altro ipotetico candidato.

Le gravi criticità dei sistemi di selezione e reclutamento in Italia costituiscono un ostacolo enorme e poco indagato per affollate categorie di aspiranti lavoratori. I laureati umanistici sono i soggetti probabilmente più numerosi e le vittime più facilmente individuabili di complessi meccanismi che finiscono per non risparmiare nemmeno chi ha una formazione tecnico-scientifica.

Sempre più spesso aziende pubbliche e private appaltano le selezioni di nuovo personale all’esterno. Notoriamente agenzie di lavoro interinale, studi di consulenza, sedicenti esperti in risorse umane si sono moltiplicati esponenzialmente negli ultimi anni in ogni città. La moltitudine di curricula da esaminare viene scremata da appositi database, che funzionano per parole chiave, senza lasciare scampo o interpretazione. Il selezionatore è spesso un giovane neolaureato che nel concreto non ne sa nulla di risorse umane. Ha solo il compito di impilare curricula, di compilare rigidissimi forms dove le persone e le loro esperienze diventano caselle da riempire.

I criteri di selezione risultano acefali e spietati. Diventa una questione di fortuna non rimanere vittime di arbitrarie ed univoche mannaie informatiche o psueudo psicologiche. Puoi venir scartato perchè hai fatto prima il barista e solo successivamente il cameriere. Hai fatto il disegnatore meccanico a Verona e non a Brescia e, ahinoi, sei fuori dalla partita. Sei stata la segretaria di un presidente di società e non di un amministratore delegato e il tuo curriculum viene cestinato, senza possibilità di appello. Magari senza venir mai a sapere esattamente il perché.

Esiste una quotidianità spietata e senza logica e spesso priva di comprensibili coordinate di riferimento che la retorica dei protocolli d’intesa, dei documenti programmatici in materia di formazione non prendono in considerazione.

La cieca fortuna che fa trovare il lavoro sperato, il buco nero della crisi, l’apparente poca spendibilità di certi titoli di studio finiscono per diventare dei facili e semplicistici capri espiatori anche per le istituzioni e gli addetti ai lavori. Hanno invece il dovere di risolvere in maniera sistematica ogni problematica legata ai delicati ingranaggi del mondo del lavoro, i cui sistemi di reclutamento sono parte imprescindibile.

Ho ripensato spesso a quell’imprenditore canadese che, con un’ingenuità esprimibile soltanto a posteriori senza rimpianti avevo ringraziato rifiutando la sua offerta, senza pensarci troppo.Chissà cosa ne penserebbe della flessibilità negata nel nostro Paese, in modo particolare, ai laureati in materie umanistiche, i quali continuano ad indignarsi. Prescindendo dalle storie personali e da quei bivi che ciascuno, prima o poi, come in un film, incontrerà.

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