Un nuovo inizio? Ma quando e quale? (3) [di Franco Mannoni]
Per un nuovo inizio. Per l’area democratica è il momento di procedere alla definizione di uno sbocco, di un’alternativa che, ovviamente dovrà avere caratteri di generalità, nel senso che la ricerca di un cambio di rotta in una realtà circoscritta e contrassegnata da forti caratteristiche proprie, come la Sardegna, pur richiedendo uno sforzo di elaborazione specifico, nelle stessa misura nella quale è stata sospinta dal flusso di una corrente generale ha necessità che detta corrente trovi una misura di rallentamento e di arresto appunto di carattere esteso. In altre parole, la lotta contro il populismo di destra ha caratteri che travalicano l’ambito regionale e addirittura quello nazionale. Il populismo che oggi conosciamo è figlio degli insuccessi e delle ricadute del processo di globalizzazione, a sua volta largamente influenzato e caratterizzato dalla forza del progresso tecnico. Esso però ha radici antiche e manifestazioni, succedutesi nel tempo, di diversa inclinazione. Senza ripercorrere la vicenda del populismo nella modernità e in particolare la sua presenza in Europa fin dalla metà del secolo diciannovesimo, si possono ripercorrere molti tratti della storia moderna nella quale il populismo si è affacciato a più riprese, influenzando le attività di grandi leaders e di importanti politici. Per limitarci allo stretto ambito italiano, è noto che la sinistra ha conosciuto esplicite pulsioni populiste già nel tempo successivo alla prima guerra mondiale, con Pietro Nenni e il Psup e, successivamente nel PSI ancora con Nenni e, nel 1976 con Craxi, che adottò pratiche populiste nella vita interna di partito, come nella sua proiezione, appunto, populista. Il PCI ne fu investito nel secondo dopoguerra con la strategia togliattiana, a sua volta ispirata all’idea gramsciana di unire il popolo per conseguire l’unificazione nazionale e realizzare la rivoluzione democratica. In entrambi i casi il tradizionale populismo giacobino di sinistra dovette poi evolvere verso il sistema dei partiti come strumento essenziale della democrazia. Mentre il filone del populismo di destra trovò ampio spazio e nutrimento nelle versioni impersonate dal qualunquismo, dal clientelismo alla Achille Lauro e via via discendendo fino a Berlusconi e a Salvini. Un caso a sé è quello del movimento 5 Stelle, formazione ambigua dagli atteggiamenti modernisti, interprete naif del populismo odierno. E’ comunque evidente, nell’attuale contesto italiano, la presenza delle condizioni sociali, culturali e politiche delle quali il populismo si alimenta. Il caso italiano esalta gli effetti di ricaduta della globalizzazione e del mercatismo che affliggono, con diversa intensità, i paesi dell’area così detta occidentale. Ai quali si aggiunge la crisi di funzionamento delle strutture democratiche, dal parlamento ai partiti, ai sindacati, della quale si avvantaggia la crescita dei capi populisti, come Salvini, di Maio e, finché è durato, Renzi. In conclusione, siamo passati ad una fase di post-democrazia, che non è uno slogan o uno stereotipo, bensì la rappresentazione di un processo di compressione dei diritti sociali, di deprivazione dei sistemi di welfare faticosamente conquistati, di allontanamento dei cittadino dalla reale partecipazione ai processi democratici, a volte sostituiti dai loro surrogati elettronici, più spesso svuotati di potere di decisione. Il primo terreno di attacco all’attuale sistema avviato all’egemonia della destra non può che essere l’impegno radicale per la democrazia. Come sostiene Chantal Mouffle, “una strategia populista di sinistra deve intervenire e mettere in discussione la postdemocrazia fino a ripristinare la centralità dei valori democratici di uguaglianza e sovranità popolare.” Su questo terreno è possibile mettere insieme forze differenti, magari tendenzialmente non ascrivibili al campo della sinistra, ma attivabili per una strategia di superamento della postdemocrazia. L’obiettivo è la costruzione di una volontà collettiva, di un popolo, “capace di determinare una nuova formazione egemonica che ristabilisca l’articolazione fra liberalismo e democrazia che è stata sconfessata dal neoliberalismo e metta, quindi, al primo posto i valori democratici.” (Mouffle). L’iniziativa democratica deve prendere vigore con caratteri di generalità, nel senso che deve trovare la dimensione sovrannazionale pari a quella dei problemi ai quali tentare di dare risposta, ma trovare anche l’articolazione specifica e territoriale ovvero la legittimazione che è determinata dalla presenza nei luoghi reali nei quali le ricadute dei temi generali si avviluppano. Il punto di partenza non può che essere nel capovolgere lo schema che ha predominato fino a ieri, e ancor oggi non è andato in archivio. Quello della fiducia nella crescita illimitata che fornirebbe le risorse, per virtù del mercato, per una redistribuzione capace di garantire lavoro e sicurezza. L’esperienza, particolarmente quella dell’ultimo decennio, ha mostrato il contrario, ha registrato cioè l’insicurezza e la solitudine dell’individuo, orfano della tutela delle organizzazioni sociali forti, come il sindacato e i partiti. L’individuo cioè, sollecitato a dover ricercare soluzioni individuali per rimediare alle crisi di carattere generale. La vera paura di tanti, ci ricorda Mauro Magatti, è quella di diventare degli scarti di un sistema che, nel nome di grandi discorsi sul progresso e l’innovazione, di fatto si disinteressa dei destini concreti della maggioranza delle persone”. In questo spazio nebuloso, nel quale predomina l’insicurezza creata dalla società del rischio, nell’assenza di letture esplicative delle cause, e dell’enunciazione di narrazioni conseguenti, esplode il conflitto fra popolo e élites e si alimenta il populismo nazionalista e dispotico. Chi muove alla ricerca di un nuovo sentiero nel campo delle idee democratiche e progressiste deve partire perciò dalla negazione del vangelo liberista: deve progettare la riconnessione fra economia e società e riaffermare l’essenzialità di una politica capace di corrispondere a tale esigenza. * * * Due i possibili cardini di una svolta che ha da essere insieme culturale e politica: radicalizzare la democrazia e la costruzione di un popolo. La parola “radicale” sembra trovare nuova cittadinanza nei discorsi dei politici democratici, quando, nel recente passato, era rifuggita come conduttrice di guai. Essa riguarda il campo dei diritti, che non è scollegato da quello della giustizia sociale. L’offensiva della ideologia liberista ha mirato al controllo sociale aggredendo la sfera dei diritti di libertà, per imporre regimi fondati sulla conflittualità, sull’aggressività del privilegio e del profitto. Il tutto anche nel senso collegato alla riduzione dei redditi da lavoro, alla flessibilità/precarietà, alla compressione delle garanzie del welfare. L’unica soluzione al problema è quella di contrapporre ad essa la radicalità di “una proposta liberale socialista, cristiano sociale. Radicale perché capace di attivare processi che intervengono, più che sulla redistribuzione, sulla produzione di ricchezza, sulla modalità/qualità di vivere e di produrre. (L. Barca)”. Su questo versante non mancano le elaborazioni e le proposte, accomunate dall’indirizzo di promuovere uno sviluppo diverso, che non abbia in se la distruzione del lavoro e come unica alternativa il finanziamento della disoccupazione o sottoccupazione a spese della comunità. La diversità sta nel far prevalere le caratteristiche di produzione e di mercato che non portino all’oppressione della rendita finanziaria sul lavoro e all’incremento delle diseguaglianze. E’ l’economia dove trova largo spazio l’impresa no profit, l’impresa cooperativa, la sussidiarietà, le relazioni sociali, la fiducia. Nella quale può collocarsi anche una politica dei beni comuni liberata dalle ipoteche ideologiche. In questo mio ragionare, anche quando il discorso si svolge su tematiche e orientamenti di carattere generale, ho sempre attivo il riferimento alla concretezza della nostra realtà regionale. Da questo punto di vista mi pare di poter dire che le indicazioni qui riportate come proposta ben si adattino alla specificità delle nostre condizioni storiche e alla cultura del vissuto. Nel senso che vi si possono ravvisare i tratti di una ripresa e rielaborazione di caratteristiche di su connottu, magari filtrate attraverso il vaglio dell’esperienza della nostra parte di modernizzazione vissuta. Mi sembra una via, questa, che facendo appello alla nostra originalità/diversità, ci può consentire di moderare e, in prospettiva, cambiare, lo schema capitalistico neo liberista tutto centrato sulla competitività, la creazione di valore, l’investimento short term. Bisogna avere l’attenzione, a questo punto, di precisare che non si vuol proporre l’utopia della decrescita felice o, neppure, la politica dei beni comuni come auspicata da Toni Negri. L’esperienza politica ci ha insegnato a fare i conti non solo con le condizioni reali dei cittadini, ma anche con le loro aspettative, aspirazioni e modi di vita. Il senso comune è il risultato di accumuli e sedimentazioni, di luoghi comuni e speranze che hanno inciso impronte difficili da cancellare. Non tenerne conto sarebbe come imbarcarsi su un’utopia tagliando gli ormeggi senza possibilità di recupero. Una cultura riformista e gradualista ci suggerisce, invece, di affrontare i problemi del ritardo economico, delle diseguaglianze e della precarietà delle prospettive imboccando la strada nuova di una economia che si ristruttura su basi solidaristiche e comunitarie, ben consapevoli dell’essenzialità di investimenti pubblici consistenti, e dell’urgenza di dotarsi delle tecniche e dei cervelli capaci di stare al passo con il tempo dell’intelligenza artificiale. Non mancano le idee né le proposte di programma strutturate. Come quella, esemplare, delle “15 proposte per la giustizia sociale”, ispirate al programma di azione di Antoni Atkinsons e adottate dal Forum Diseguaglianze Diversità. Un insieme organico di proposte concrete e convincenti che dimostra come le alternative esistono ancora, che la battaglia per il progresso sociale e l’uguaglianza deve rivendicare la propria legittimità. Recentemente analisi e proposte per un indirizzo capace di scardinare le caratteristiche di diseguaglianza, di esclusione e di soppressione dei diritti, ai quali approda uno sviluppo del tardo capitalismo senza anima, si susseguono e suscitano anche interesse. Come pure le buone pratiche che tendono a trasferire nella realtà quelle proposte. Raghuram Rajan con il suo ponderoso “Il terzo Pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati” individua nelle comunità locali e nell’economia della solidarietà e dell’efficienza che sono in grado di generare, l’antidoto contro il populismo. ” Le relazioni di prossimità, sono il terzo pilastro, oltre mercato e Stato, per un sistema sano”. Uno stimolo, anche questo, a ricercare all’interno della nostra comunità regionale gli elementi di specificità che, accoppiandosi con un appello significativo all’innovazione, prefigurino uno sviluppo di qualità che sia meno esposto alle oscillazioni e ai capricci del mercato. * * * Sempre, quando si costruisce o si aderisce a un programma di nuova egemonia, sorge il problema dei riferimenti sociali e politici necessari ad agire il passaggio a una nuova fase. Mentre scrivo queste note sono consapevole che ci muoviamo in un contesto che ha espulso, o quanto meno depotenziato, gli attori tradizionali dell’armatura sociale e politica su cui si faceva affidamento, ovvero le organizzazioni sociali come i sindacati, e quelle politiche, ovvero i partiti, sostituendoli con leadership populiste appoggiate agli strumenti mediatici essi stessi costituenti un problema di trasparenza e di libertà. La democrazia senza partiti, la postdemocrazia, è stata lo strumento che ha consentito al pensiero mercatista di erodere le culture dell’uguaglianza e della solidarietà a vantaggio di una competitività pretesa come consustanziale al mercato, ma di fatto piegata alle esigenze del capitalismo finanziario. Una rinnovata egemonia non è detto che debba fondarsi sui partiti, ma di essi ha bisogno per organizzare il consenso e consentire la partecipazione. Abbiamo bisogno di partiti che però riconoscano la propria parzialità, come capacità di visione e come rappresentanza di interessi. Con questo riconoscendo il valore e la forza dei corpi intermedi e delle aggregazioni che si formano di volta in volta sui temi dei diritti come intorno a contenuti ideali o affettivi. A monte si incontra però il tema della modificata strutturazione sociale della rappresentanza dei partiti, in particolare di quelli tradizionalmente assegnabili alla sinistra. Un nodo, questo, di ardua, ma irrinunciabile soluzione. Costituito dalla circostanza che la sinistra europea e mondiale ha accettato di svolgere una funzione di complemento alla mondializzazione liberista, con ciò stesso perdendo i legami, nel momento del riflusso e della liquefazione delle garanzie sociali, con i settori di tradizionale riferimento. Che non sono, forse è bene ricordarlo, solo gli ultimi, come sbrigativamente si è portati a ripetere, ma con essi i lavoratori dipendenti, quelli autonomi, gli insegnanti, gli impiegati, quelli della campagna e dei paesi dello spopolamento. Solo una distorsione culturale e un errore di prospettiva può aver condotto la sinistra, sia pure di stampo socialdemocratico, a dislocarsi fra i settori protetti dei quartieri buoni delle città e a trascurare, nel segno di una pseudo modernizzazione, i suoi classici riferimenti nel mondo del lavoro e negli spazi della socialità. * * * Il passaggio attraverso la radicalizzazione della democrazia, richiamato sia pure con percorsi differenti, da Franco Cassano e Chantal Mouffe, diventa perciò essenziale per mettere insieme e rendere attivi, con le lotte per il consolidamento e l’ampliamento del ventaglio dei diritti, la variegata realtà dei movimenti e delle associazioni che sulle lotte per i diritti si animano. Senza questa contaminazione, i partiti non riemergeranno dalla loro deriva burocratico istituzionale. Il rafforzamento dell’area della sinistra riformista non si realizza mettendo insieme i frammenti dispersi delle differenti diaspore partitiche, ma accettando di costruire l’area di una nuova egemonia con i partiti in pari dignità e ruolo con le aggregazioni sociali e politiche che prendono corpo intorno alle lotte per i diritti. Ricordiamo che l’obiettivo, altrettanto essenziale, è quello della costruzione di un popolo che aspiri a una nuova egemonia capace di sostituire quella del populismo della destra così largamente insediata. Come ha scritto Franco Cassano (Senza il vento della storia, Laterza 2014), “la sinistra non è sinistra se non riesce a guardare in modo lucido alle mutilazioni e alle deformazioni che il suo blocco sociale ha subito nel corso di questi decenni”. Magari per porvi rimedio o per non ripercorrere i sentieri lungo i quali si è persa. Andando verso una sia pur parziale conclusione di questo ragionare, ritorno per un momento ai temi della Sardegna. La politica conservativa sulla scena politica regionale ha raggiunto, credo, l’apice della parabola, riscontrabile nello stato di crisi conclamata che vede nello spopolamento, nell’inefficienza del sistema scolastico, nella separazione stessa fra società e politica i suoi punti di maggiore acutezza. La legge elettorale vigente tenuta in piedi, salvo modifiche marginali, dalla concordia fra gli schieramenti che dovrebbero essere politicamente contrapposti, dice più chiaramente di ogni altra cosa della convergenza di interessi conservatori. Il sistema è statico e conservatore, non in grado di costruire, così com’è, una linea di sviluppo e di potenziamento della vita democratica. Il sistema dei partiti e delle istituzioni si è compattato come fortezza che non crolla, attraverso le legislature e nella sostanziale marginalità delle differenze. Il cambiamento deve passare attraverso il pensiero, l’idea di sé. Non si può, però, e non è utile, partire da zero, somma presunzione, mentre lo è appoggiare il progetto su ciò che già di per sé manifesta potenzialità. Le Associazioni, le donne, il volontariato, il no profit, la ricerca, la creatività, la chiesa, il sindacalismo che si risveglia, i versanti della politica che sono passati attraverso la generosità del servizio alla comunità e della competenza. L’idea è quella di crescere nello sviluppo umano e sociale. Riportando in auge un vecchio, ormai, ma efficace discorso sui bisogni e sui meriti per una nuova alleanza. Nessuna decrescita, né felice né infelice. E’ essenziale scommettere sull’innovazione diffusa, dalla città intelligente all’alta formazione altrimenti ci scontreremo di anno in anno, irresolubilmente, sul prezzo del latte di pecora. Ci vuole un tanto di utopia, ci vuole il calore di un sogno, l’alimento di una speranza. Occorre mobilitare la dimensione affettiva necessaria per motivare le persone a agire politicamente. Cagliari 20 maggio 2019 Finestra 4. Avevo chiuso queste note, una sorta di diario politico dei tempi recenti e ancora in corso, alla data che sopra conservo. Proseguo dopo i risultati delle elezioni europee, sui quali, ancora una volta sono stati versati fiumi di parole, di commenti e di previsioni, tutto ciò che, nel suo complesso, si rivela inferiore alla realtà. Lega e Salvini rafforzano largamente la loro dominanza della scena politica italiana, tentando di assegnarsi un’influenza nella politica europea del tutto immaginaria. Il consenso riportato conferma che l’egemonia populista di destra è in corso e tende a stabilizzarsi in assenza di alternative praticabili nel breve. Ma è fragile nella misura in cui il suo dominio si rivela dannoso per gli interessi dei bisognosi e, allo stesso tempo, dei portatori di meriti. La sinistra politica e quella più ampia diffusa nel sociale, a partire dal Pd e oltre il Pd, pur senza perdere un solo minuto per attivare la sua iniziativa, deve coltivare la linea dell’investitore paziente, nel senso di praticare un progetto dei tempi medi, almeno. Non può pretendere l’exploit elettorale alla prima occasione, secondo uno schema fallimentare renziano, ma scommettere nella costruzione di una nuova egemonia di interessi diffusi, di nuove convergenze dei pur diversi, ma portatori di interessi equivalenti per quanto distinti. Non è una ripresa del discorso classista o fordista che può dare la spinta, quanto piuttosto l’instaurarsi di un nuovo antagonismo che riporti in campo gli esclusi e gli irrilevanti come gli illusi e poi delusi dalle pratiche sovraniste, autoritarie e fallimentari della destra populista…… Continuo a insistere su un punto: l’asse conservatore stagnante che, come un regime stabile di alte pressioni estive, si è insediato sulla Sardegna, non si smuoverà se non emergerà l’antagonismo sociale ora soffocato non solo dalle disillusioni, ma anche da una bardatura istituzionale pesante. Una per tutte: la legge elettorale per la formazione del Consiglio Regionale caratterizzata da un carattere sostanzialmente maggioritario, incoraggia il frazionismo, la formazione di liste di piccoli partiti inventati che fanno a gara per aggregarsi al possibile vincitore per poi scatenare gli appetiti insaziabili che inficiano la capacità di governare. Una legge che comprime la rappresentanza e non garantisce la stabilità. Che assegna un ruolo a quelli che, con efficace espressione, il compagno Sebastiano Dessanay definiva “i cavalli ruffiani”, votati a favorire le performances riproduttive del più forte. La politica di una nuova sinistra in Sardegna deve intanto riconoscere la palude nella quale l’Isola si è impantanata e da questo riconoscimento muovere verso l’autoriforma culturale prima che politica, per offrire una possibilità riformista all’antagonismo potenziale che ora oscilla inespresso fra astensionismo elettorale e sdegno. Senza questo passaggio l’antagonismo potenziale dà luogo a sbocchi non organizzati dalla politica (si pensi alla confusa protesta dei pastori) e alle infinite vertenze (come nel mondo della sanità). Però la possibilità di un nuovo inizio sussiste e il coglierne la possibilità di sviluppo è il compito di una rinnovata alleanza di interessi, di culture, di volontà che in esso si riconoscano. Post scriptum– Sono giunti, nelle more dell’inoltro di queste note, i risultati del primo turno delle elezioni comunali sarde: nulla che modifichi, purtroppo, ciò che andavo considerando. Semmai i risultati evidenziano la drammaticità del contesto politico. La coalizione del centro-sinistra senza i sardisti a Cagliari perde. Sembra acefala, ovvero priva di una leadership di gruppo che decide una strategia alla luce del sole. Ma anche nel senso di carenza di visione che ne distingua nettamente l’offerta politica. Di questo occorrerà parlare. Nota- Per scrivere queste note, che raccolgono osservazioni generate dalle circostanze che vanno accumulandosi di questi tempi, ma anche riflessioni scaturite da letture che aiutano a trovare un filo interpretativo di esse, ho, fra le altre, fatto riferimento alle seguenti pubblicazioni.
|
Apo lézidu (e collidu) sas tres partes de cus’iscritu de F. Mannoni (chi pesso siat su políticu socialista chi in àteros tempos est istadu Assessore de sa RAS, fintzas si custu fatu pagu importat si no ca, ma no solu pro cussu, est pessone chi connoschet e ischit).
S’anàlisi chi at fatu mi paret crara e sas propostas chi faghet de cundivídere, zustas (e si cumprendhet chi inoghe no podent tènnere sa pretzisione e cuncretesa operativa netzessària).
Ma carchi dimandha tocat a bi la fàghere ca (a parte chi sa Sardigna za bi est in custu mundhu e in s’economia dominante maca e assurda a prus de èssere pro s’aprofitamentu de sos pagos leones e s’avilimentu de chie tenet nessi bisonzu de si campare cun dignidade) sa cosa chi no resurtat crara e no si cumprendhet est cal’est su ‘teatru’ e chie sunt sos ‘atores’ de sa libbertade e responsabbilidade personale e colletiva de sos Sardos.
In custu ‘teatru’ depimus èssere ancora Sardus iscallaus, e fintzas evaporados, che zente chi istat in nedhue o in d-una Sardigna disconnota coment’e “turistas per caso”?
Depimus sighire a èssere impicados a s’Itàlia ispetendhe su santu finimentu de sas chistiones suas a candho li avassat tempus pro carchi àteru “piano di rinascita” si no sunt bastados sos chi s’at manigadu a númene e iscaminamentu nostru?
Depimus sighire intro de sa gàbbia ifatu de totu sos bentos e de sos partidos italianos chi nos ant fatu a biculedhos pro afariedhos de butega si no própriu personales de políticos pedidores de ‘azudos’ o ‘solidarietà’ de dipendhéntzia?
Tiat èssere custa sa manera de fagher naschire e fundhare sa fidúcia in nois etotu chi séculos de colonialismu ant brusiadu e sos políticos de sa dipendhéntzia frundhidu in sas istitutziones de s’Istadu italianu?
A ischire chie, inue e comente semus e ite podimus e depimus fàghere cun libbertade, responsabbilidade personale e colletiva e unidade de pópulu depimus ispetare a candho sa Sardigna at a torrare a unu millione e dughentamiza abbitantes cun totu sas dificurtades créschidas e moribbundha male e peus fintzas solu pro cussu?
Zughimus abbilidade solu pro èssere pistadores de abba, inghiriagrastos o zirendhe sempre sa matessi mola e cun su fachile tricolore in cara chentza mancu bídere inue zughimus sos pes e chentza mancu ischire si est abberu chi zughimus sa conca e mancari pessendhe de “volare alto”?
Sa màzine de Eleonora de Arborea cheret nàrrere carchi cosa o (ma no isco si l’at posta isse) est solu iconografia coment’e medalliedha de apicare in petorras?
No appo s’abilidade de iscriere in sardu che a tiè, ma t’appo a rispondere mattessi. Ti torro gratias, pro como, e saludos meda.
A presto!