Il lutto per Doddore comincia ora [di Alessandro Mongili]

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In questi giorni si è ricordato l’anniversario della morte per sciopero della fame, nel carcere di Uta, dell’indipendentista sardo Doddore Meloni, avvenuta due anni fa. La notizia non fece scalpore, al di là degli ambienti indipendentisti. Il 4 Luglio di quest’anno il capogruppo post-fascista in Consiglio regionale, Francesco Mura, ha trovato le parole per dire quello che nessuno disse allora, e cioè che si sia trattato di “una morte di stato fuori tempo”, e che “morire di sciopero della fame in uno stato occidentale nel 2017 è stata una vergogna ed è passata quasi inosservata”.

Non è il caso di tornare su quel caso, e sulla dolorosa scomparsa di una vita umana. Della morte di Doddore Meloni in questi giorni se ne parla molto e i giudizi sono differenziati, come è giusto che sia. Il vero problema è stato il silenzio di due anni fa. Né il Presidente della Regione né il Sindaco di Cagliari intervennero, come se non si fosse trattato di un uomo, ma di qualcosa di trascurabile. Alcuni esponenti, soprattutto di area PD, sui social, manifestarono apertamente la loro indifferenza o, addirittura, la loro soddisfazione. Perché?

Non mi scandalizzo né mi indigno, ma vorrei capire come mai la disobbedienza civile sia elogiata per Mimmo Lucano o per Carola Rackete, mentre Doddore Meloni è dovuto crepare a Uta come un cane. Forse, per chi adotta una visione come quella che domina nella sinistra sarda, questa morte è unicamente ascrivibile alle posizioni politiche giudicate folli degli indipendentisti, non all’esistenza di uno Stato oppressore in Sardegna.

Dunque, la disobbedienza civile vale a targhe alterne.  In questo, sono stati simili ai giovani comunisti mandati nelle campagne ucraine da Stalin che non vedevano, letteralmente, i cinque milioni di morti della carestia provocata artificialmente dal governo sovietico, descritti magistralmente da Vasilij Grossman in Tutto scorre, nonostante gli si parassero davanti ogni giorno. Si tratta di una pratica di disumanizzazione dell’Altro diffusa fra chi vive col paraocchi.

È impressionante ritrovarla fra di noi. Viene da pensare che nel corpo della sinistra sarda, e di parte dello stesso indipendentismo, domini un sentimento di disprezzo verso i Sardi, e di quelli con tratti popolari in particolare, e che ancora oggi essi in fondo non si considerino parte del popolo sardo, ma viaggiatori o turisti in Sardegna, per riprendere la famosa espressione gramsciana riferita alle classi istruite meridionali.

Si tratta di persone che sono viste come arretrate, da scansare se si vuole essere accettati come persone civili e moderne? Che cosa può avere bloccato firmatari ossessivi di appelli per qualunque violazione dei diritti dell’uomo, soprattutto a favore di telecamera, a starsene buoni e zitti nell’occasione della morte per sciopero della fame, nel carcere di Uta, di Doddore Meloni?

Il problema non è così secondario, né può essere imputato alle singole persone, che lo vivono come loro epoché, quel senso comune del ceto medio scolarizzato sardo che sarebbe opportuno indagare meglio. Si tratta di un senso comune che dà per scontato che sia grezzo parlare in sardo, oltre a uno stile di consumi, anche culturali, dipendenti in modo molto conformista dalle mode Oltretirreniche, che trova proprio in questa stagione la sua celebrazione in una serie di cosiddetti festival di dubbia rilevanza culturale ma di certa capienza commerciale, e produce una visione di sé come naturalmente appartenenti a un gruppo secondario, senza importanza, condannato al miglioramento attraverso la sola imitazione, l’espressione di una presunta “identità” esotica per i Continentali, e mai all’espressione creativa.

Benché forse influente nel costruire la base antropologica del silenzio di fronte alla morte di Doddore, questo non è però il luogo per un discorso sul senso comune self-colonized del ceto medio scolarizzato sardo. Il problema mi sembra più immediatamente politico.

Il problema politico mi sembra che risieda su un equivoco che ci trasciniamo dalla nascita del neo-sardismo e, poi, dell’indipendentismo, e che ha alimentato i dissapori reciproci fra la sinistra sarda e l’area indipendentista. La sinistra sarda continua a non aver capito la rottura netta che l’indipendentismo ha segnato nel pensiero politico sardo, e a confonderlo con l’autonomismo, cioè con un pensiero politico della subalternità.

Autonomismo che, elemento non secondario, ha fallito fragorosamente su ogni piano. Ovviamente, l’autonomismo sardo, che ha espresso pensatori e politici di grande levatura, fra tutti Lussu e Berlinguer, Cardia e Laconi, Melis e molti esponenti perfino democristiani, non faceva altro che esprimere lo spirito di un tempo, quello del II Dopoguerra in particolare.

Al suo interno, tutte le carte venivano puntate sulla modernizzazione esogena e la “trasformazione della società”, il superamento degli “atavismi” e della “arretratezza”, qualsiasi cosa significassero di diverso dal fatto che la povertà della Sardegna fosse legata al fatto di essere dominata come una colonia, “peggio dell’Eritrea”, come scrisse Gramsci.

Per l’autonomismo, il nostro problema era l’arretratezza, spiegabile dalla nostra identità ancestrale bella ma “barbara”, e dalla nostra arretratezza economica irrimediabile. Un tipico caso di confusione di un effetto (la povertà) con la causa (il dominio). Malissimo fanno però alcuni indipendentisti a personalizzare. Tutti siamo figli di Lussu, di Laconi, e di Melis, anche se quasi tutti indegni. Loro sono stati tutti sinceramente devoti al bene della Sardegna, ma proprio per questo non meritano di essere trasformati in un alibi per un presente fatto di pavidità.

Il neo-sardismo, evolutosi rapidamente nell’indipendentismo, ha invece ripreso e elaborato alcuni temi che caratterizzarono invece la base sardista e alcuni esponenti, fra cui Marianna Bussalai, sino dal sorgere del sardismo che, occorre ricordarlo, ha fatto la democrazia come pratica di massa in quest’Isola.

Questi temi sono chiari. La Sardegna è una nazione senza Stato; il rapporto con l’Italia è di dominio da parte di una e di sottomissione da parte dell’altra; la nostra modernizzazione dobbiamo gestirla noi; le produzioni locali non devono essere distrutte. In più, significativamente, il neo-sardismo, addirittura più dell’indipendentismo, ha fatto propria la battaglia per il bilinguismo e la parità linguistica, che è la battaglia più da paradigm-switch nel nostro contesto politico-culturale.

Si tratta di temi che anche la sinistra ha frequentato, sia nell’elaborazione di Gramsci, che in alcuni circoli di pensiero presenti nella tradizione comunista prima della normalizzazione togliattiana, ma che già Lussu accantonò e combattè, seguito da tutta la sinistra sarda, cosa che ha condotto tutti noi alla sconfitta.

Per loro, la Sardegna è una nazione abortiva, secondo l’espressione abbastanza orrenda proprio di Lussu, cioè una Nazione che potrebbe essere ma non è, e che quando sta per nascere, abortisce. Non ce la fa a partorirsi perché è arretrata e dovrebbe modernizzarsi, seguendo modelli di importazione e imitando ciò che di buono avviene fuori dalla Sardegna, magari con capitali a credito e/o con finanziamenti europei/statali/qatarioti, perché “noi non possiamo farcela” (versione di sinistra) o “la colpa è dei Sardi” (versione di destra).

Il rapporto di dominazione da parte dell’Italia è un mito e tutto dipende dalla nostra incapacità di incidere al “livello nazionale” (cioè, dello Stato italiano, nel loro tipico linguaggio self-colonized) (versione di sinistra) perché disuniti e non bravi come i siciliani (versione di destra ma anche un po’ losca). Meglio che la pastorizia scompaia, e che l’agricoltura sia devoluta alle Bonifiche Continentali Riunite, e così il turismo, perché, si sa, i sardi non sono bravi imprenditori.

Poi, soprattutto, costruire sulle coste e “mettere a reddito” il paesaggio, le spiagge, tutto. Il sardo poi, al limite va tutelato, perché è un insieme di dialetti strambi, non certo una lingua come la gloriosa lingua italiana, che, sebbene semisconosciuta e marginale nel resto del mondo, resta sempre la lingua in cui si prendeva 8 nei temini in classe, e ci ha concesso di fare onorate carriere, anche se sempre all’ombra.

Questa differenza deve essere superata, se la causa della giustizia e della libertà vogliono andare avanti in Sardegna. Ma non con accordi sottobanco. Bisogna che la sinistra riconosca che l’impianto del suo pensiero riguardante la Sardegna è da auto-colonizzati e implicitamente razzista, e che se ne liberi. Non è necessario certo aderire all’indipendentismo, ma aprire una fase di dialogo e di rispetto reciproco, così come ha fatto prima con il femminismo, e poi con la comunità lgbt.

Per esempio cominciando dal linguaggio nazionalista-italiano da ripulire, o dall’apertura alle politiche di parità linguistica che riconoscano dignità alla nostra lingua, su un piano di uguaglianza. Occorre però che tutto il percorso di decolonizzazione sia compiuto assieme, perché senza di esso non sarà possibile uscire dal cul-de-sac in cui ci troviamo. E perché la dipendenza, e la mediazioni con chi ci domina, riuscirà sempre meglio alla Destra vera, che alla Destra-wannabe, che è stata sconfitta così ingloriosamente nel corso delle elezioni di questo lungo 2019.

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