Ergastolo. Crudele e inutile [di Antonietta Mazzette e Daniele Pulino]
La Nuova Sardegna 12 agosto 2019. Nelle scorse settimane le sentenze per l’omicidio di Manuel Careddu hanno riportato l’attenzione su una vicenda che ha colpito l’opinione pubblica per la giovane età dei protagonisti, vittima e autori. In particolare, la condanna all’ergastolo per uno dei responsabili ha riaperto il dibattito su quanto possa essere controversa la pena perpetua, tanto più quando l’ergastolo venga applicato a un ragazzo poco più che maggiorenne. Ripercorrendo le diverse posizioni (anche di autorevoli “addetti ai lavori”) apparse su queste pagine, è possibile ricavare quattro aspetti di cui diamo conto: 1. la contraddittorietà dell’ergastolo nell’ordinamento costituzionale italiano; 2. la domanda di maggiore severità delle pene che proviene dall’esposizione mediatica dei casi di cronaca; 3. le posizioni assunte dai rappresentanti politici che alimentano un’idea della pena come strumento di afflizione piuttosto che di rieducazione; 4. la (dis)attenzione riparativa verso la vittima e i suoi famigliari. Il primo aspetto è da tempo oggetto di riflessione, a partire dalla difficile compatibilità dell’ergastolo con la funzione rieducativa della pena espressa dall’art. 27 della Costituzione. Basti qui ricordare che Aldo Moro negli ultimi anni della sua vita dedicò a questo tema un ciclo di lezioni, sostenendo che la privazione perpetua della libertà è privazione di “qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento … crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte”. Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo va in questa direzione, condannando l’Italia lo scorso giugno per l’applicazione dell’ergastolo ostativo (art. 4 bis) che non consente nessun tipo di revisione della pena e viene considerato alla stregua di un trattamento inumano e degradante. Certamente quella del giovane di Ghilarza è una condanna non ostativa, perchè dopo un certo numero di anni egli potrà accedere a benefici di legge, quali la liberazione anticipata o la semilibertà. Ciononostante, i contenuti della sentenza della Corte Europea ribadiscono come la risocializzazione dei condannati debba essere l’obiettivo principale di una pena, anche di fronte a crimini di elevata gravità come l’omicidio. Il secondo e il terzo aspetto sono strettamente legati tra loro, giacché il ruolo dei mezzi di informazione non prescinde da quello degli attori politici nel costruire un’idea della pena che rischia di essere distante dal dettato costituzionale. Ecco che espressioni come “marcire in galera” e “pene esemplari” che fino a poco tempo fa sentivamo al bar o per strada, nel momento in cui vengono pronunciate da membri del Governo, assumono una forte valenza simbolica che non ammette discussioni o diversità di opinioni. D’altronde, ogni qualvolta avviene un fatto cruento come l’omicidio di Manuel, se si chiedesse all’opinione pubblica di pronunciarsi sulla pena di morte, l’esito sarebbe praticamente scontato, tanto più di fronte ad esternazioni irresponsabili provenienti dal “capo politico” di turno. Come ha sottolineato l’antropologo Didier Fassin, “di fronte ai disordini vissuti da una società, alla violazione delle sue norme e all’infrazione delle sue leggi, i suoi membri si affidano a una risposta fatta di sanzioni che alla maggior parte degli individui appaiono utili e necessarie”, ma che pongono problemi di arbitrarietà nell’applicazione e sono anche diseconomiche. Infatti, “marcire in galera” avrebbe più costi economici e sociali che benefici per la collettività, ad esempio, in termini di riproduzione della devianza (recidiva), mentre l’unica utilità sarebbe la crescita di consenso per chi la usa come un vessillo. Il quarto aspetto è il più delicato, ma anche il più dimenticato: come ridare voce alle vittime, a quelle che non ci sono più e a quelle che sopravvivono (le famiglie)? Come ricomporre la frattura che investe vittime, autori e comunità coinvolte? In Italia, la strada da percorrere nei corridoi della riparazione del danno è ancora troppo lunga. |