Chi dice che con l’arte non si campa? Cosa Nostra grazie al traffico di opere da decenni paga la latitanza dei suoi boss [di Andrea Sparaciari]
https://it.businessinsider.com/chi-dice-che-con-larte-non-si-campa-cosa-nostra- grazie-al-traffico-di-opere-da-decenni-paga-la-latitanza-dei-suoi-boss-chiedete-a-matteo-messina-denaro/ 15 settembre 2019. Cos’hanno in comune il Satiro Danzante e l’Efebo di Selinunte? Oltre all’origine greca e al medesimo incalcolabile valore artistico e monetario, il fatto che furono entrambi oggetto del desiderio di Cosa Nostra. Sì, perché la mafia, in particolare la famiglia Messina Denaro, boss di Castelvetrano (Trapani), sia sotto l’egemonia di Francesco (“don Ciccio”), che dell’attuale ricercato numero uno in Italia, suo figlio Matteo, ha sempre avuto per il patrimonio artistico nazionale un attrazione fatale. Conscia che con l’arte non solo ci puoi campare, ma ci paghi anche una buona fetta di latitanza… Un po’ perché la vendita dei reperti archeologici è stata tradizionalmente una fonte di guadagno per Cosa Nostra, un po’ perché le opere d’arte rendevano lo Stato ricattabile. Giovanni Brusca, per esempio, su suggerimento diretto di Totò Riina, chiese aiuto proprio a Matteo Messina Denaro quando nei primi anni Novanta progettava di “procurarsi un importante reperto archeologico, che avrebbe voluto scambiare con lo Stato, per ottenere benefici carcerari per il padre”, ricostruiscono i magistrati della Dia di Palermo in un’informativa. Don Ciccio, invece, nel 1963 diede ordine di rubare dal municipio di Castelvertano l’Efebo di Selinunte, poi rivenduto ad un ricettatore e recuperato dalle forze dell’ordine dopo un conflitto a fuoco in Emilia Romagna. Una storia mai chiarita fino in fondo. A differenza di quella del Satiro Danzante, che vide protagonista Matteo, come rivelato nel 2005 dall’ex vigile urbano di Marsala, uomo d’onore poi pentito, Concetto Mariano. Secondo Mariano, l’allora numero due di Cosa Nostra (comandava ancora Riina) aveva pianificato ogni mossa, grazie alla complicità di un “picciotto”. La statuetta appena ripescata dalle acque dello Stretto di Messina, si trovava infatti custodita (poco e male) nel municipio di Mazzara del Vallo. Al vigile urbano fu detto che “un amico” avrebbe fornito le chiavi della stanza. Fortunatamente quelle chiavi non arrivarono e il colpo saltò, scatenando la furia del boss. “Ci fece sapere che non ci avrebbe dato un soldo e che se ci fossimo lamentati saremmo finiti in un canale”, raccontò Mariano, riferendo l’ira di Matteo. Ma non diventi il capo di Cosa Nostra se ti fai abbattere dal primo inconveniente… tanto che fu preparato un secondo piano: un attacco in forze al municipio. Ma anche questo fallì, perché le debolissime misure di sicurezza del municipio furono rinforzate in vista dell’arrivo dell’allora ministro della Cultura, Walter Veltroni e il capolavoro di Prassitele si salvò. Al di là dell’aneddotica, il depauperamento del patrimonio artistico nazionale ad opera della mafia è un’emorragia che non si è mai interrotta negli anni e che ha facilitato la latitanza di moltissimi boss. Come dimostrano le inchieste messe a segno dal Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri in Sicilia. L’ultima di vaste proporzioni è stata “Demetra” del luglio 2018, condotta dalla Procura di Caltanissetta, che ha portato in carcere in Italia 23 persone ritenute responsabili, a vario titolo, di far parte di un’associazione per delinquere transnazionale dedita al traffico di reperti archeologici provento di scavi clandestini in Sicilia. Un’indagine, gestita di concerto con Europol e Eurojust, che ha anche portato all’esecuzione di tre mandati di arresto europeo nei confronti dei componenti dell’organizzazione residenti a Londra, Ehningen (Germania) e Barcellona. L’inchiesta, partita nel 2014, ha permesso di recuperare oltre 20 mila beni archeologici, per un valore di mercato superiore ai 40 milioni euro. Parte dei reperti scavati in Sicilia – soprattutto nel Nisseno e nell’Agrigentino – venivano venduti a facoltosi collezionisti nel Nord Italia, assolutamente consapevoli della loro provenienza illecita. Altri, invece, prendevano la via del nord Europa: affidati a “corrieri”, arrivavano in Germania, dove venivano “ripuliti” grazie a fittizie attestazioni di provenienza e quindi immessi nel mercato legittimo dell’arte, attraverso alcune case d’asta di Monaco di Baviera. A capo della holding criminale il mercante d’arte londinese William Thomas Veres. Una vecchia conoscenza degli investigatori del mondo dell’arte. Fu lui infatti a vendere al finanziere miliardario Michael Steinhardt la “Phiala di Achyris”, una coppa d’oro massiccio trafugata dalla Sicilia e finita sul mercato grazie a falsi documenti rilasciati dalla Svizzera. Per questo Veres fu condannato a 22 mesi di carcere. La Phiala fu poi restituita al nostro Paese, anche perché la Corte Suprema Usa, interpellata sul caso, stabilì nel 1999 un precedente destinato a mutare le regole del mercato dell’arte Usa. I giudici decisero infatti che non fosse più possibile accettare certificazioni su opere d’arte emesse da paesi dai quali evidentemente queste non provenivano. Una decisione osteggiata violentemente dall’American Association of Museums e dalla Association of Art Museum Directors, perché si videro così limitare – di molto – il loro raggio d’azione, cioè l’acquisto di opere rubate. I dati dei carabinieri. Secondo il report sull’ “Attività operativa 2018” del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri, nel 2018:
Circa le regioni più colpite, svettano l’Emilia Romagna (73 colpi), la Lombardia (863) e il Lazio (53). I più saccheggiati sono stati i luoghi privati (3.670), gli archivi pubblici/privati (1.911) e i luoghi di culto (1.055). Diminuiscono invece i furti nei musei, -8,7% i reati, -42% negli oggetti trafugati. Il report offre moltissimi altri dati interessanti, la cui lettura porta a un’unica conclusione: l’Italia viene regolarmente saccheggiata da bande organizzate di avvoltoi, spesso ramificate a livello internazionale e, solo l’impegno delle forze dell’ordine riesce a tamponare l’emorragia culturale. Un altro problema, comune però a tutti gli ambiti della giustizia, è che spesso i processi si dilungano a dismisura, richiedono rogatorie internazionali e procedono a singhiozzo. Emblematica è la vicenda di Gianfranco Becchina, 80 anni, noto imprenditore dell’olio e del cemento dell’area di Castelvetrano, ma, soprattutto, famoso commerciante internazionale d’opere d’arte e reperti di valore storico–archeologico, già proprietario di un’avviatissima galleria a Basilea (Svizzera). Un uomo spesso al centro di inchieste e sequestri per i suoi supposti rapporti con Messina Denaro. Secondo gli investigatori, infatti, per oltre un trentennio avrebbe trafugato e commercializzato reperti artistici per poi utilizzare il denaro per pagare la latitanza della primula rossa di Cosa Nostra. A raccontare la sua storia è la Direzione Investigativa Antimafia di Trapani nel decreto di sequestro del suo tesoro artistico del 15 novembre 2017, che riguardava “l’intero patrimonio mobiliare, immobiliare e societario”. Nella lista comparivano: aziende (Olio Verde s.r.l., Demetra s.r.l. Becchina & Co. s.r.l.), terreni, conti bancari, automezzi ed immobili, tra i quali l’antico castello Bellumvider di Castelvetrano, la cui edificazione risalirebbe a Federico II, nei secoli successivi eletto a residenza nobiliare del casato Tagliavia-Aragona-Pignatelli, principi di Castelvetrano. Un sequestro originato dalle confidenze di alcuni pentiti che però poi gli stessi pm antimafia hanno chiesto di non confermare, perché non era stato possibile presentare i dovuti riscontri di quanto raccontato dai collaboratori di giustizia. Tuttavia: “per oltre un trentennio Giovanni Franco Becchina avrebbe accumulato ricchezze con i proventi del traffico internazionale di reperti archeologici, molti dei quali trafugati clandestinamente nel più importante sito archeologico della Sicilia (Selinunte) da tombaroli al servizio di Cosa Nostra”, scrivono i magistrati. “A gestire le attività illegali legate agli scavi clandestini ci sarebbe stato l’anziano patriarca mafioso Francesco Messina Denaro, poi sostituito da suo figlio: l’odierno latitante Matteo”, aggiungono. Per i pm “lo svolgimento da parte di Becchina di un fiorentissimo traffico internazionale di reperti archeologici, di durata trentennale, è stato attestato nella sentenza emessa in data 10 febbraio 2011 dal GUP di Roma”, mentre i rapporti economici tra lui e i boss di Cosa Nostra sarebbe stata rivelata da numerosi pentiti di primo piano, come Rosario Spatola, Vincenzo Calcara, Angelo Siino e Giovanni Brusca, nonché confermata dall’indagine a carico del noto imprenditore mafioso Rosario Cascio, proprietario della ATLAS Cementi S.r.l., società costituita nel 1987 proprio da Becchina e della quale Cascio era entrato a far parte nel 1991. Emigrato da Castelvetrano in Svizzera, dopo aver subìto una procedura fallimentare, nel 1976, Becchina è a Basilea dove trovava lavoro come impiegato in una struttura alberghiera. Contemporaneamente inizia l’attività di commercio di opere d’arte. Almeno dal 1992 – secondo i collaboratori Spatola e Calcara – avrebbe trafficato reperti archeologici girando i proventi alla famiglia mafiosa di Castelvetrano, tanto da essere indagato per concorso in associazione mafiosa. A metà degli anni Novanta, ormai affermato uomo d’affari, Becchina torna a Castelvetrano, dove investe nel cemento. Il suo socio è nella ATLAS CEMENTI S.r.l., società con sede in Mazara del Vallo, dal 1991 è l’imprenditore Rosario Cascio “che, in breve tempo, riusciva a trasformare quella società in una delle più importanti e redditizie leve economiche dell’intera Sicilia”, scrive l’Antimafia. Ma finirà male, tanto che la Atlas viene confiscata nel 2011. Parallelamente porta avanti l’attività nel campo “artistico”: Becchina che dal 1979 era stato più volte denunciato per detenzione illegale di reperti d’interesse storico artistico, nel 1991 viene coinvolto in una vastissima indagine giudiziaria della Procura della Repubblica di Roma, perché “ritenuto a capo di un’agguerrita organizzazione criminale dedita, da oltre un trentennio, al traffico internazionale di reperti archeologici, per la gran parte provenienti da scavi clandestini di siti italiani, esportati illegalmente in Svizzera per essere successivamente immessi nel mercato internazionale, anche grazie alla complicità dei direttori di importantissimi musei stranieri”. Nell’ambito di tale procedimento gli inquirenti scovano e sequestrano a Basilea cinque magazzini riferibili alla sua società, la Palladion Antike Kunst, dove erano custoditi migliaia di reperti archeologici “risultati provenienti da furti, scavi clandestini e depredazioni di siti, oltre che un archivio con più di 136 mila documenti (fatture, lettere indirizzate agli acquirenti, immagini fotografiche di reperti, etc.) relativi all’attività di commercio di opere d’arte e reperti condotta dallo stesso Becchina“. Si tratta di 140 faldoni che i carabinieri impiegano due mesi a fotografare. Nella lista dei clienti di Becchina compaiono molti tra i principali musei del mondo: l’Ashmolean di Oxford; il Louvre; il Ninagawa di Hurashiki; il Metropolitan di New York; le università Columbia, Princeton University e Yale. Recordman degli acquirenti è il re del rame George Ortiz Patiño, che grazie agli oggetti di becchina si crea un piccolo museo personale con oltre 280 opere d’arte nei sotterranei della sua villa di Ginevra. Le carte, che arrivano ai primi mesi del 2000, grazie alle annotazioni della moglie di Becchina, la tedesca Ursula Juraschek, raccontano una buona fetta della razzia subita dal patrimonio artistico italiano. Come spiegherà Fabio Isman su “Il giornale dell’arte” nel 2011, solo nel faldone 87 si legge: “‘Corredo guerriero bronzo’ (370 mila dollari), ‘cinque vasi bronzo pompeiani’ (120 mila franchi), ‘affresco pompeiano Dionysos’ (150 mila), e così via”. Ovviamente, nessun pezzo riporta la provenienza, segnale che si trattava di opere o scavate illegalmente oppure trafugate. Becchina finisce così in carcere, ma non riporterà alcuna condanna, essendo sopravvenuta la prescrizione. Intanto gli inquirenti raccolgono le confidenze del pentito Geraci per il quale proprio a Basilea, Matteo Messina Denaro avrebbe voluto avviare attività economiche, impiegando proventi della droga. E, sempre a Basilea, secondo diverse risultanze giudiziarie, l’uomo più ricercato d’Italia si sarebbe recato più volte per acquistare armi da guerra. Agli atti, poi, risultano numerosi contatti telefonici tra utenze in uso al latitante e l’utenza svizzera in uso a Becchina. Infine, poco prima di morire, anche il collaboratore castelvetranese Lorenzo Cimarosa ha confermato i rapporti tra Becchina e Messina Denaro, come gli avrebbe confermato riservatamente Francesco Guttadauro, nipote prediletto (attualmente detenuto per mafia) della primula rossa di Castelvetrano. Ma il nome di Becchina è noto anche per altre vicende, che hanno coinvolto negli anni soprattutto il J. Paul Getty Museum di Malibu, California: fu lui, infatti, che nel settembre del 1983 propose al museo l’acquisto di una statua in marmo risalente al VI secolo a.C., per 32 miliardi di lire. Si trattava di un Kouros, una scultura di un giovane nudo in piedi con la gamba sinistra in avanti e le braccia lungo i fianchi. Nel 1986, il museo accettò l’acquisto per 10 milioni di dollari, nonostante la forte opposizione del critico Federico Zeri, allora membro del board dal quale fu cacciato per la sua ferma opposizione. Peccato che quella statua fosse un falso. E fu sempre Becchina che cedette sempre al Getty il Cratere di Assteas (IV sec. a.C) nel 1988. La coppa, autentica stavolta, era stata scavata a Sant’Angelo dei Goti (Benevento) ed era stata acquistata dal tombarolo per “un milione di lire e un porcetto da latte”. Il Getty l’acquista per 550 mila dollari, salvo poi doverla restituire all’Italia (insieme ad altre 40 opere d’arte, tutte di origine fraudolenta). Oggi Becchina è un uomo libero. I suoi beni sono stati dissequestrati e si gode la pensione nel suo castello di Castelvetrano. Dalla sua casa, probabilmente, intravede Selinunte, un luogo che gli ha “donato” non poche soddisfazioni. |