Liliana Cano, itinerari d’arte e di vita di una viaggiatrice [di Attilio Mastino]
Questo straordinario libro di Massimo Mannu su Liliana Cano, itinerari d’arte e di vita di una viaggiatrice, pubblicato dalla Edes, ci consente di capire (all’interno di una produzione artistica sterminata) ciò che avevamo solo intravvisto, ciò che avevamo solo intuito di un’artista che amiamo, come nelle tante occasioni di mostre, inaugurazioni, incontri ufficiali ai quali Liliana è stata sempre presente, con il suo sorriso, la sua serenità, il suo silenzio, la sua visione del mondo non convenzionale. Ero presente il giorno in cui aveva donato generosamente le 20 tavole offerte alla Biblioteca Provinciale Francescana di Ittiri, dietro le insistenze del nostro Padre Francesco Sechi, magari con la promessa di generose indulgenze per peccati veri o presunti: il trittico della crocifissione, gli evangelisti, l’ultima cena, le scene di vita francescana partendo dall’accoglienza fatta dal vescovo Guido di Assisi al giovane che rinuncia alle ricchezze e si consegna completamente nudo alla chiesa, abbandonando il padre Pietro Bernardone dei Moriconi. Una vicenda appassionata accompagnata da tanti segni e da tanti miracoli, raccontata con quella sua tavolozza originale, con quel modo di squadrare i tratti del viso, con quei gesti semplici e risoluti, con la capacità di osservare e ammirare il corpo umano, soprattutto le fattezze giovanili di un santo. Sono stato nelle scorse settimane, accompagnato da Massimo Mannu, la cui passione oggi è emersa in modo evidente, a visitare Liliana nella sua casa bianca di Molafà, oltre Piandanna, a breve distanza dalla strada ferrata sulla quale si arrampica verso Sassari il treno che sfiora la stele di una tomba di giganti però incisa sulla facciata della celebre domus preistorica a prospetto architettonico: una casa solitaria che si affaccia sulla strada per Ittiri, con sullo sfondo il paese di Tissi, con il pergolato che si allunga su un’elegante tettoria e un giardino dove sono ordinatamente conservate pietre antiche, come all’ingresso la vasca medioevale in basalto, pensata per pressare la pasta delle olive ed estrarre la morchia, con i fori per i pilastrini tortili che dovevano reggere il torchio per schiacciare i fiscoli. Ho visto la ordinatissima biblioteca dei Panzino, con i tanti libri religiosi raccolti dal marito, dalla Bibbia ai Vangeli, i grandi commentatori, le preghiere, le visioni, i miracoli, e poi da San Girolamo e gli altri padri della chiesa fino ai grandi santi, in particolare la collezione delle Fonti Francescane che Padre Francesco ha donato con larghezza anche a me. Del resto nella produzione di Liliana Cano il tema religioso è un aspetto centrale ma per me non non esclusivo, spesso pensato per evocare i luoghi amati come a Balai sul mare di Porto Torres, con i martiri turritani che riappaiono miracolosamente come fantasmi davanti alla chiesa collocata sulla rupe; a davanti alla facciata di Santa Maria di Betlem di notte all’arrivo dei candelieri, infine a San Francesco a Sassari quella incredibile ultima cena della parrocchia, che risale a quasi 50 anni fa, con un’eleganza dei costumi e una concentrazione che sorprende. E poi a Oliena, la chiesa di Sant’Ignazio, con il tradimento di Giuda fino all’inquietante apparizione in Galilea. Ho visto soprattutto il laboratorio, la casa, le tante tele che ancora emozionano, come il trittico luminoso bianco azzurro della zattera che avanza nella tempesta in mare aperto, con un Ulisse che ora è accompagnato dalla sua Penelope e sfida le onde e l’uragano; capace di superare la prova meglio che nel rosso sangue del Naufragio che fotografa un istante finale e una tragedia. Il mare, l’acqua, la bellezza, l’amore. C’è tanta mitologia greca e latina, come nelle dee greche del nostro invito, Pallade e Afrodite, nel ratto delle Sabine, nella lotta dei Centauri e dei Lapiti. c’è poi la Sardegna dei pastori, le tosature; la morra, la festa, passando per il murale di Ozieri del 1971 e la grande tela di Buggerru dell’anno successivo. C’è soprattutto una svolta, il periodo francese nella seconda parte della sua vita, a partire dal 1978, i nudi di donna, i bellissimi gitani al mare nel porto di Tolone con sullo sfondo Fort S. Louis, quell’interno parigino dell’omaggio a Manet con le tappezzerie disfatte, le tende, le lenzuola, la lampada, le ragazze che si osservano e si fanno osservare con emozione, con sensualità e con charme. E infine il ritorno a Sassari e alla Sardegna, con una maturità nuova, che è riassunta dal grande quadro che mi ha davvero colpito, con quel mazzo di mimose raccolte dalle tre ragazze che dal giardino dell’artista guardano verso la valle del Coros, con sullo sfondo il paese di Tissi. Nel libro si spiega bene questa diversità di linguaggi, che però racconta una sensibilità femminile che non è cambiata, una profondità di sentimenti che è impostata sul movimento e sul racconto di storie vere e immaginate, sulla capacità prensile di rappresentare una realtà e una emozione. Davanti a ciascuno dei suoi quadri è come essere di fronte ad una porta che introduce ad una dimensione diversa, come nel recente volume Antiles di Mario Medde, con riferimento agli stipiti in basalto, agli architravi, alle porte che occorre varcare e che immettono ad un territorio, ma anche ad una cultura, ad un ambiente sociale, ad un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci sono care, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati e viviamo in una grande città. Partendo dal De magistro di Agostino di Ippona, Medde pone il tema del rapporto tra segni e significati: per vedere davvero non bastano i suoni, i segni, neppure i fatti: noi non possiamo parlare delle cose, ma delle immagini impresse e affidate alla memoria, perché noi portiamo quelle immagini nella profondità della nostra memoria, come documenti di cose percepite precedentemente. Ma sono documenti davvero solo per ciascuno di noi, partendo dai luoghi che suscitano emozioni, non quei luoghi di oggi tanto diversi, ma quelli della memoria, che evocano le mille immagini di allora, lampi di luce, flash che illuminano i fatti che hai vissuto e persino quelli di chi ti ha preceduto. Dunque il ruolo della memoria, partendo da quella prima mostra accolta da Nicola Valle a Cagliari nel febbraio 1964 agli Amici del libro, nel Palazzo comunale ricostruito dopo i bombardamenti. La sensibilità artistica di Liliana è nel suo DNA, deriva forse dal nonno scultore Attilio Nigra, dai genitori in particolare la madre pittrice Bruna Nigra, perfino dai figli, deriva dai magnifici pittori degli anni 50, Costantino Spada, Libero Meledina, Giovanni Piu. Mi ha colpito l’introduzione di Manlio Brigaglia e l’intervista curata da Massimo Mannu, che fanno emergere una dimensione più ampia, questo suo vagabondare assurdo per il mondo, questo suo tornare alla sua isola che è ancora sempre di più un luogo di colori da scoprire e da amare. Una viaggiatrice che ora può veramente raccontare. Sassari, 14 febbraio 2014
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