Aixo és lluta de classe [di Nicolò Migheli]
Sui muri di Barcellona in questi giorni di rivolta si legge la scritta: ”Aixo és lluta de classe”, questa è lotta di classe. Dall’autunno dell’anno passato le rivolte di piazza hanno interessato: Francia, Algeria, Cile, Haiti, Ecuador, Egitto, Iraq, Libano, Catalogna. Ognuna con caratteristiche proprie, ma che hanno un denominatore comune: maggior partecipazione alle scelte politiche e lotta contro le ingiustizie sociali. Resta Hong Kong che ha valenze proprie per il suo rapporto con la Cina, ma anche lì il bisogno di partecipazione la fa da padrone. Trent’anni dopo la caduta del Muro, è indubbio che l’approccio imposto dalla signora Thatcher e da Reagan mostra tutto i suoi limiti. Il pensiero liberista è vissuto in questi anni su alcune promesse: la globalizzazione dei mercati, la riduzione del ruolo dello Stato come “imprenditore” il trasferimento dei servizi ai privati, la riduzione del carico fiscale sui ceti ricchi, avrebbe prodotto una diminuzione della povertà nel mondo. Paradigma che ha funzionato fino alla crisi del 2008, ma ha ingenerato una crisi sistemica che è arrivata fino ai giorni nostri. È il modello di gestione del capitalismo fondato sull’asservimento dello Stato alla finanziarizzazione dell’economia, sulla mercificazione della società, che non regge più. Il rapporto Oxfam, basato sui dati del Credit Suisse, presentato a gennaio di quest’anno prima di Davos mostra numeri impietosi. L’1% della popolazione del Pianeta detiene il 47% della ricchezza aggregata netta mentre 3,8 miliardi di persone possono contare solo sullo 0,4%. La crescita della diseguaglianza viene pagata in vite umane: ogni giorno sono circa 10 mila le persone che muoiono perché non possono accedere ai servizi sanitari. Questi hanno prezzi che pochi si possono permettere. Esempi di correlazione tra povertà e speranza di vita si trovano in ogni parte del mondo. In India una donna di casta bassa vive 15 anni in meno di una di classe elevata. A Londra l’aspettativa di vita crolla di sei anni se ci si sposta dai quartieri ricchi a quelli poveri. La progressività dei sistemi fiscali è in continua erosione spostando il carico dalla tassazione della ricchezza a quella sui redditi di lavoro e sui consumi. Una realtà di ingiustizia lampante, come in Brasile o Regno Unito dove si scopre che le imposte dirette e indirette pagate dal 10% dei poveri in proporzione al reddito, sono più alte- in proporzione- rispetto al 10% più ricco. Sempre secondo Oxfam si scopre che l’aliquota sui redditi d’impresa pagate da 90 multinazionali è passata dal 34% del 2000 al 24% del 2016. In Italia i cittadini con maggior patrimonio, il 10% della popolazione, detiene più di sette volte la ricchezza posseduta dalla metà più povera. Un divario ampliatosi nel corso del tempo dal 2000 al primo semestre del 2018; le quote di ricchezza nazionale netta detenute dal 10% più ricco degli italiani e dalla metà più povera della popolazione italiana hanno mostrato un andamento divergente. La ricchezza del 10% dei più abbienti si è attestata nel giugno 2018 al 56,13%, contro il 50,57% del 2000. Mentre la quota della metà più povera degli italiani è scesa costantemente, passando dal 13,1% del 2000 al 7,85% del 2018. Il modello economico attuale è finito in un vicolo cieco: se la crescita rallenta vengono fuori le diseguaglianze, i miglioramenti del tenore di vita ottenuti nei Paesi a nuova industrializzazione fanno diminuire la competitività di questi. L’unica possibilità di rimanere sul mercato è un nuovo impoverimento. Capita anche nei paesi sviluppati dove ormai un lavoro non basta più, il fenomeno dei poveri occupati si allarga di anno in anno. A questo si somma una costante riduzione dei servizi essenziali come la sanità. È il conto in banca a decidere quanto dovrai vivere, quali prospettive potrai dare ai tuoi figli. L’allarme sui perdenti della globalizzazione, si sta diffondendo, i ceti dominanti cominciano ad avere timore, è in gioco la stabilità e con essa gli affari e la loro ricchezza. Se da una parte le rivolte di questo Autunno Caldo nel mondo hanno un aspetto che si potrebbe definire anticapitalistico e di sinistra; in Europa e negli Usa, ad eccezione della Catalogna, la reazione è conservatrice, di estrema destra. Il successo di questi partiti ha alla base l’insicurezza economica sempre più diffusa, l’ineguaglianza di reddito e di opportunità. Su questo disagio è facile innestare contenuti culturali che creano capri espiatori nelle minoranze etniche, alimentando la percezione di aggressione alle culture nazionali, derivanti dall’emigrazione vissuta non solo come diversità ma come concorrente nei servizi e nel welfare. Ogni diritto dell’altro vissuto come negazione del proprio. Un tutti contro tutti nella difesa del proprio particulare. Un programma politico dove la democrazia diventa un ostacolo. L’esempio dell’Ungheria e della Polonia stanno lì a testimoniarlo. Si congiungono aspirazioni antidemocratiche con la salvaguardia degli interessi delle classi dominanti: la flat tax non è altro che lo strumento migliore. Diminuire la tassazione dei più abbienti nella speranza che la Curva di Laffer dispieghi tutto il suo potenziale. Gli Usa dimostrano che non funziona: diminuire la tasse ai più ricchi ha solo aumentato la diseguaglianza. In Italia la rabbia popolare per il momento prende strade di estrema destra. Sulle responsabilità della sinistra di governo su questo stato di cose è stato detto e scritto abbastanza, non è il caso di aggiungere altro. Quanto potrà durare lo strabismo? Oggi sembrerebbe un fenomeno di lunga durata. Questi tempi veloci dominati dalle passioni tristi però inducono al dubbio. È chiaro che la prima vittima è la democrazia così come l’abbiamo conosciuta. Il sociologo catalano Manuell Castell sostiene che questo è il tempo della frustrazione politica, del non veder riconosciuti i propri diritti, sentire la propria esistenza coartata e senza speranze. Un bisogno gigantesco di partecipazione e di pari opportunità. I ceti dominanti faranno di tutto per conservare il potere comprese soluzioni autoritarie. Però il mondo sta già cambiando: i segni potenti che si scorgono dicono che è in atto una nuova lotta di classe. Il raccontino di Menenio Agrippa, della Comunità di Destino, funziona sempre meno. Assistiamo a una rottura drammatica del patto sociale, quello che ha garantito la democrazia moderna. Come uscirne? La strada esiste: è quella della distribuzione delle risorse, delle pari opportunità reali, del capitalismo controllato e della riduzione della diseguaglianza. Un cambio di sguardo, quello che una volta si definiva socialdemocrazia. Se il nome infastidisce se ne trovi un altro. Da lì però non si sfugge.
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