Genio e sregolatezza di un narratore atipico [di Leandro Muoni]

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Salutiamo con vivo interesse e altrettanto vivo apprezzamento la pubblicazione del recente romanzo “Il peccato di vivere” di Franco Cocco con prefazione di Dacia Maraini (Editrice Taphros, 2019). Un romanzo – lo anticipiamo subito – esuberante, debordante, sovrabbondante di grazia e delirio.

Un romanzo-laboratorio a sfondo metaforicamente autobiografico, che tra l’altro – sia detto qui per inciso – fa pensare a una scrittura non estranea, in qualche modalità conscia o inconscia, a suggestioni estetiche equamente ripartite, per quanto l’accostamento possa risultare in apparenza azzardato o inappropriato, tra un influsso della poetica d’annunziana e una vaga interferenza di quella pirandelliana. Anche se il vero spirito guida è poi, come vedremo meglio in seguito, poundiano.

Influenze e ascendenze da completare ovviamente con un intero pantheon letterario classico e moderno (in primis l’amato Proust, per la riparatoria  poetica della memoria) e col supplemento e l’integrazione di una lingua personale disseminata talvolta di idiosincrasie innovative e originali.

Quella che sperimentiamo attraverso la lettura di quest’opera, è infatti un’autentica lotta corpo a corpo del soggetto e delle sue maschere (Pirandello), una vera e propria ossessione del frutto carnale e inguinale della vita (D’Annunzio), una ricorrente interrogazione sul valore incerto dell’identità (Pirandello) e sul senso della stessa nostalgia della morte (D’Annunzio), con cui si confronta senza esclusione di colpi l’io autorale. Specificando meglio: la porzione sensibile del suo io poetante.

Sì, perché quello che l’autore medesimo considera opera narrativa, “romanzo”, è in verità un pretesto: è il sillabario sussultorio e ondulatorio di un insopprimibile, incontenibile poeta in versi, più precisamente un poeta lirico, ma, applicando lo sguardo su un ulteriore versante della sua personalità, non esente da verve satirica e da vis polemica spinta talvolta fino al sarcasmo.

Felicissime sono soprattutto le pause, gli inserti o gli intermezzi musicali e strofici o versicolori nella sua prosa che non è propriamente narrativa bensì come si è detto lirica e sentimentale, simbolica e patetica, quando non è compulsivamente oratoria o sardonicamente ironica: una lunga, a tratti intermittente, inenarrabile e solitaria sonata patetica oppure al chiaro di luna.

La lettura suscita immagini di distese acquatiche o amniotiche, solcate da ampi cavalloni dove s’inebria e si perde il nuoto ardito del protagonista o, per meglio dire, del narratore e il naufragare gli è dolce in questo mare, perché una certa attrazione lunare leopardiana incalza e si incunea fra D’Annunzio e Pirandello, fra l’immaginifico e il sofistico, a temperare la natura primigenia, caotica e mistica di tale scrittura, di questa strofe lunga come un’analisi interminabile di freudiana memoria.

Romanzo-farmaco, etimologicamente cura e veleno, cui l’autore affida il corpo e l’anima di sé stesso, ma altresì romanzo-fiume, di cui sembra non intravvedersi la foce. E quanto più poderosa sarebbe mai la corrente, se il suo corso procedesse per forza di levare anziché di aggiungere o accumulare – l’eccedenza, s’intende! Ma poi, leggendo e scandagliando maggiormente in profondità nelle pieghe della scrittura, scopriamo che ogni parola, ogni frase ritrova il suo nesso, la sua giustificazione e necessità.

In questa sua estrema opera, e più recente fatica, il narratore-poeta riversa e condensa tutto il suo scibile, il suo sapere, la sua virtude e canoscenza, perché la coscienza morale ed estetica che si agita in lui, per il tramite di questo romanzo-monstre, di questo opus magnum, reclama l’esorcismo e il superamento del bruto, della bestia o del demone che s’annida dentro di noi.

Il lettore attraverso il ribollire delle pagine avverte quasi il bisogno o la tentazione di sporgersi sul bordo del cuore dell’io narrante di una cosiffatta autobiografia divinatoria, per rassicurare l’autore che lui non si sta muovendo al buio, non sta esplorando in solitudine questo spinoso cammino che tutti ci affronta, nella comune ricerca della purificazione dalla colpa, dal male o dal “peccato di vivere”. Forse in simile ricerca si cela a ben vedere un possibile messaggio liberatorio, benché il narratore preferisca definirlo “iniziatico” o anche un “temerario azzardo”. Che poi non sarebbe altro che l’”ardire di raccontarsi”.

Questo romanzo “singolare” – così lo riconosce la stessa prefatrice del libro, Dacia Maraini – che s’eleva ermo e romito come un masso erratico, come un ircocervo nella letteratura sarda odierna, insieme erotico ed eretico, dongiovannesco ma anche paradossalmente ascetico e metafisico, quasi che non avesse ascendenti se non universali e assoluti. Romanzo antitradizionale per struttura e scrittura, incomparabile, originale, idiopatico, facente parte per sé stesso, battente strade inusitate, talvolta polemicamente attardate, e anticonformistiche nella narrativa isolana ufficiale e dominante dei nostri giorni.

Forse l’unica parentela ravvisabile, allargando il campo prospettico, con la narrativa regionale del secondo Novecento, e in qualche caso finanche del Duemila, sta in certa tendenza del nostro autore a mescolare il racconto con il saggio, la narrazione con il commento, ma questa volta più di tipo letterario,  filosofico e politico che antropologico o sociologico,  all’usata maniera, nella seconda fattispecie, dei narratori sardi tradizionali, legati alle tematiche delle cosiddette “zone interne”.

Mentre quella di Franco Cocco è piuttosto una sorta di cantata poematica, di rapsodia erotico-eretica. Con un taglio decisamente esistenzialistico e laicamente religioso e un bilancio finale da preparazione alla buona morte. Il che non impedisce all’autore di tracciare altresì un bilancio critico del senso e del paradosso del cammino storico della sua terra, la Sardegna reale e dell’anima, e del suo popolo levitico. Anche attraverso ora l’apologetica ora l’eristica e l’invettiva.

Ma volendo caratterizzare per via di negazione il tratto distintivo di questo esperimento narrativo, e tanto per richiamare alla mente una indovinata formula critica di Antonio Pigliaru applicata al costume culturale della Sardegna della seconda metà del secolo appena trascorso, ci preme evidenziare che tale tratto non si può certo identificare né nel “cosmopolitismo di maniera” né tanto meno nel “regionalismo chiuso”.

A maggior ragione si deve rimarcare come l’estraneità e l’inappartenenza dell’operazione letteraria di Franco Cocco rispetto a simile coppia oppositiva sembra essersi oggi ulteriormente accentuata e approfondita, se rovesciamo a questo punto e aggiorniamo la nota formula allo stato attuale dell’arte, dal momento che tale operazione si emancipa questa volta dal doppio pericolo, non infrequente nei territori di certa letteratura sarda odierna un po’ troppo alla moda, di un regionalismo di maniera e di un cosmopolitismo chiuso.

Intendiamo con ciò sottolineare che il romanzo di cui ci occupiamo si confronta e si rapporta in piena autonomia, ad armi pari e senza complessi d’inferiorità, con la grande narrativa italiana ed europea del nostro tempo. Rispetto alle quali si ritaglia e occupa una sua originale e riconoscibile collocazione.

Ciò che si riscontra nell’ambito delle esemplarità è caso mai un’altra  influenza. Se proprio vogliamo rintracciare e catalogare un modello letterario di riferimento all’opera di Franco Cocco, ebbene tale modello potrebbe ravvisarsi sotto un certo punto di vista nel sattiano “Giorno del Giudizio”, per quell’affresco, quella ricostruzione al vetriolo, al nero di seppia e dalle tinte d’antica acquaforte relative al ritratto di una società di borghesi e notabili di provincia in crisi d’identità e disfacimento, perlopiù scevra nel nostro romanzo lirico-satirico-autobiografico da una componente storica e dialettica agropastorale, che invece è ancora presente sebbene sottotraccia in Salvatore Satta, e che sposterebbe semmai il paradigma ideologico-antropologico del “Peccato di vivere” verso la fattispecie socio-culturale e di classe del “Gattopardo” lampedusiano.

E tuttavia nel romanzo irregolare e polimorfo di Franco Cocco si registra soprattutto, come per intervalla insaniae o per le proustiane intermittenze del cuore, la ricerca virtuosistica di un linguaggio, di uno stile espressivo tra il barocco e il decadente, tra il manierato o meglio il manieristico e l’alessandrino:  insomma, in queste pagine  dove proliferano come ectoplasmi miriadi di personaggi, si osserva l’esperimento di un autentico “funambolismo della parola”, che però non è nella sua interezza né intellettualisticamente o cultisticamente gaddiano né visceralmente o etnicisticamente d’arrighiano, tanto per citare due esempi emblematici (Carlo Emilio Gadda e Stefano D’Arrigo) del magismo linguistico-letterario contemporaneo. O forse ne è parzialmente e inconsapevolmente contaminato..

Piuttosto, per la sua insistenza sul pedale erotico-eretico dell’espressione e per la sua parafrasi sofistica applicata al rebus dell’identità, l’opera fa pensare come già si è detto alle movenze stilistiche e alla poetica d’annunziana e per altro verso pirandelliana. Ma – è appena il caso di sottolinearlo – la citazione e delimitazione binaria e di ambito nazionale di simili movenze e poetica non toglie che innumerevoli e determinanti siano poi le influenze dei numerosi altri maestri italiani ed europei dell’arte del romanzo sul nostro scrittore.

Passando poi con un balzo all’aspetto ideologico e al pensiero politico che percorre la narrazione del “Peccato di vivere” va notata l’insistenza dell’autore sul tema del razzismo e del fascismo in quanto fattori intrinseci alla egemonia borghese, vista come la causa, unitamente al suo prodotto culturale, il liberalismo, dei mali morali, sociali ed economici della società, attraverso il suo instrumentum regni: l’usura.

E qui cade a proposito il riferimento al profeta della denuncia e della riscossa antiusuraia: Ezra Pound. Nume tutelare di una certa destra anticapitalistica e antiliberale, declinata a sinistra dallo scrittore sardo, Pound, poeta brillante e babelico, è presente nel romanzo di Franco Cocco come mito e archetipo della creatività artistica, come miglior fabbro, artefice della forma letteraria sincopata e genio plurilingue.

Il nostro narratore-poeta fa dunque dell’antiborghesismo la sua divisa, la sua dottrina, alla maniera degli scrittori ribelli e dissacratori, romantici e decadenti. O magari anarchici, soreliani e marxisti immaginari.

In conclusione e tornando sui nostri passi possiamo affermare che l’autore abbia coltivato e maturato per sé con questa sua opera totale le proprie metafore ossessive arrivando alla radice del proprio mito personale. Dettando al cospetto del lettore una sorta di testamento olografo, di bilancio esistenziale, di metafisica eutanasia.  Anche se, more baudelairiano, altra modalità, codesta, di presenza numinosa e tutelare nel bagaglio culturale del nostro scrittore, il pensiero soggiacente a tale volontà testamentaria è che la morte vada in verità affrontata ed espiata fino in fondo con la vita e la sofferenza che le si accompagna.

L’operazione letteraria, giobbica e penitenziale del “Peccato di vivere” contribuisce a tracciare uno spartiacque rispetto a un filone ancora fiorente ma non sempre realmente innovativo della narrativa sarda di oggi.

Segna cioè sia l’aggiramento della nouvelle vague modernistica e metropolitana che il superamento dell’agropastoralismo o ruralismo, del  tradizionalismo o del folklorismo residuale, ma questa volta dall’interno e non necessariamente secondo una narrazione situata all’esterno, nel contesto di una prospettiva costiera e cittadina. Anche se permane l’attaccamento e l’idealizzazione edenica del villaggio dell’anima, del paese natale della madre, luogo originario dell’eterno femminino, che però ha una funzione onirica e visionaria più che reale.

Vogliamo dire che fuoriesce dalla tradizione sardistica, regionalistica e rurale per vie interne e non esterne, cosa che accade invece in quest’ultima declinazione, quella delle vie totalmente esterne per contrapposto eterodosso, nell’opera metropolitana e cosmopolitica di  Nicola Lecca.

Ma qui il discorso dovrebbe allargarsi a tutti gli autori sardi odierni o recenti, da Sergio Atzeni a Marcello Fois, da Flavio Soriga a Francesco Abate, da Salvatore Niffoi a Michela Murgia, da Giorgio Todde a Salvatore Mannuzzu, che hanno rinnovato le fogge e i modi delle tematiche identitarie, a vario titolo e da varie angolazioni prospettiche e provenienze socio-geografico-culturali, dalle coste alle zone interne.

Sono nomi noti che hanno imposto ormai a livello nazionale e nel contatto con un pubblico allargato ed eterogeneo una discreta attenzione circa il fare artistico delle nuove e meno nuove generazioni di scrittori isolani. E non faremo ora l’elenco completo di questa nutrita pattuglia sarda di affermati narratori che hanno creato uno stile, una linea, una scuola regionale perfettamente riconoscibili.

Ci basti osservare che al di là della fama di cui sono a torto o a ragione circondati sul mercato editoriale e presso la critica, sempre piuttosto benevola,  più o meno meritatamente secondo i punti di vista, hanno costituito un filone o un genere che ha creato nell’isola uno spiccato orizzonte d’attesa, innescando non di rado un fenomeno imitativo se non endofasico, in definitiva una moda. Rispetto alla quale Franco Cocco si pone, in ragione anche della sua classe generazionale ma anche del suo genio e sregolatezza, in posizione laterale, originale e atipica di tutto rispetto.

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