Siamo figli di Eichmann o figli di Eatherly? Non certo tutti figli di Korczak! [di Teresa Simeone]

Noi-figli-di-Eichmann-anders-gunther

http://ilrasoiodioccammicromega.

blogautore. espresso.repubblica.it/2019/12/23 

Se un Adolf Eichmann è stato possibile, ce ne saranno altri o la sua presenza può essere rinnegata e obliata? È quanto si chiede Günter Anders nel libro Noi figli di Eichmann, ma è la stessa domanda che ci dobbiamo porre oggi, di fronte al risorgere della violenza etnica e razzista.

Che la mente umana sia difficilmente sondabile non è in dubbio, come l’incapacità di prevedere le scelte in condizioni-limite nelle quali si mette in gioco ciò che siamo, ciò che crediamo di essere, ciò che temiamo di essere.

Sono situazioni in cui certezze, fede, etica vengono interrogate, crudamente verificate, spietatamente messe all’angolo e si possono trasformare in Wannsee, nel Golgota o in Birkenau: splendida villa in cui pianificare con precisione tayloristica la sperimentazione del male nelle forme più a-umane, monte di passione espiatrice o opificio costruito ad hoc per omicidi freddamente consumati. Luoghi di disperazione, in ogni caso. Spazi in cui si scopre di essere motore di un ingranaggio che si contribuisce ad avviare o anelli di un sistema che non si riesce a fermare o una macchina che si rifiuta di servire.

È un fatto che Auschwitz sia un punto di non ritorno, fissi uno spartiacque, una frontiera che non si pensava potesse mai essere oltrepassata, un limite da non doversi neppure ipotizzare: non nel secolo del trionfo della tecnologia, non nell’Europa delle conquiste civili, non nella patria di Kant, non con la complicità dei figli di Beccaria.

Eppure c’è stato. A testimonianza che il bestiale non è mai del tutto fuori dell’umano che anzi, spesso, lo nutre e lo alleva dentro di sé, com’è simboleggiato nel fideismo acritico di un Abramo o dall’intelligenza nefasta di una Medea. Entrambi figlicidi, entrambi spietatamente lucidi. Un bestiale che non è fuori, come un monstrum, ma presente dentro la città. E pronto a colpire.

Tra i saggi che prendono spunto dal più noto esercizio di sterminio della storia c’è il breve ma denso “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, in cui Hans Jonas tratta la questione del male e s’interroga su Dio.

Auschwitz è un Evento del mondo che costringe a ripensare radicalmente la divinità anche da parte della cultura ebraica, che non si limita a riproporre la domanda di Giobbe come problema fondamentale della teodicea dal momento che, “nei lunghi secoli di fedeltà” che aveva caratterizzato il patto tra Dio e l’uomo, quest’ultimo non era stato infedele, e neppure come testimonianza, in ragione della quale i giusti sono chiamati a sopportare lo scandalo del male.[1]

Auschwitz, col suo carico di atrocità, si sottrae a ogni spiegazione in termini di fede o agnosticismo, speranza o testimonianza, colpa o pena. Ha divorato vite che stavano sbocciando, appeso alla forca bambini all’oscuro di ciò che significasse castigo o espiazione, violato dignità, umiliato l’idea stessa di umanità.

L’ebreo, proprio per il senso della sua fede, deve cercare risposte diverse dal cristiano: per lui Dio è il signore della storia e dunque Auschwitz è una realtà “assolutamente nuova e inedita, che non può essere compresa e pensata con le categorie teologiche tradizionali”.[2]

Gli attributi con i quali Dio viene solitamente rappresentato – bontà assoluta, onnipotenza e comprensibilità – vanno perciò, secondo Jonas, riconsiderati. Se Dio è assoluta bontà, come ha potuto accettare Auschwitz? Se Dio è potenza illimitata, perché non è intervenuto? E se Dio è comprensibile all’uomo, essendoglisi rivelato, direttamente attraverso i suoi profeti e indirettamente attraverso i suoi comandamenti e la sua legge, come mai non spiega il perché del male assoluto? I tre attributi in questione “sono tra loro in rapporto tale che ogni relazione tra due di loro esclude il terzo”.[3]

Questo significa che non possono coesistere, dopo Auschwitz, che è necessario ricusare uno dei tre e quello cui è possibile rinunciare è solo la comprensibilità dei disegni divini, nonostante – ricorda Jonas – l’idea di un deus absconditus, di un Dio come mistero inaccessibile, sia assolutamente estranea all’ebraismo.

Durante gli anni in cui si visse l’orrore, Dio restò muto. Non intervenne a fermare la furia. “I miracoli che accaddero furono unicamente opera di uomini: le azioni di quei giusti, appartenenti ad altri popoli che, in modo isolato e sovente sconosciuto, accettarono l’estremo sacrificio per salvare, alleviare, se non erano in grado di far altro, condividere la sorte di Israele”.[4]

Dio tacque non perché non volle, prova a ipotizzare Jonas, ma perché non fu in condizione di farlo. Perché aveva concesso all’uomo la libertà, rinunciando alla propria potenza. I termini con cui deve misurarsi la teologia ebraica dopo Auschwitz sono, perciò, proprio “l’esistenza e il successo del male quale oggetto della volontà umana e non più le disgrazie e le tribolazioni che provengono dalla cieca causalità naturale. Auschwitz e non Lisbona”[5].

La Shoah, infatti, non fu un accadimento naturale, come il terremoto che nel 1755 fece trentamila vittime; la Shoah è un evento umano. Incommensurabilmente più inspiegabile. Terribile, ma dovuto all’autolimitazione di Dio per la creazione dell’uomo. “Signore e signori! Tutto ciò è un balbettio.”[6], grida Jonas riferendosi al proprio tentativo di darne un’interpretazione, alla sua personale risposta al male, venuto con l’uomo e dovuto alla rinunzia di Dio alla propria onnipotenza perché “noi potessimo essere”[7]. Ma cosa essere? Un Adolf Eichmann? Uno Janusz Korczak? Un Giorgio Perlasca? Un Claude Eatherly?

Se un Adolf Eichmann è stato possibile, è possibile che ce ne siano altri o la sua presenza può essere rinnegata? È quanto si chiede Günter Anders nel libro Noi figli di Eichmann in cui, ricollegandosi alla vicenda del gerarca nazista organizzatore della conferenza di Wannsee del gennaio ’42 in cui si pianificò la “soluzione finale”, si rivolge al figlio Klaus.

Com’è noto Adolf, riparato in Argentina nel 1950 sotto falso nome e qui raggiunto dalla moglie e dai figli, ancora piccoli, fu rintracciato e sequestrato, nel maggio del 1960, da agenti del Mossad e portato in Israele dove l’anno dopo si svolse il processo che si concluse con la pena capitale. L’eco che ebbe in tutto il mondo fu tale da mobilitare televisione e mass media come mai fino ad allora: La banalità del male di Hannah Arendt è uno dei frutti di quelle frenetiche giornate in cui, per la prima volta, il mondo intero poté assistere a cosa era stato veramente Auschwitz.

Anders comincia a scrivere al figlio maggiore di Eichmann, nel tentativo di “assolverlo” dalle colpe del padre e anche di far capire a noi come sia facile trovarsi nella condizione di “essere figli di Eichmann”.

“L’origine non è una colpa. Nessuno è artefice della propria origine, neppure lei”.[8] È con queste parole che Anders alias Stern, ebreo scampato per caso alla soluzione finale, si avvicina a Klaus, che dichiara di comprendere nella tempesta emotiva che immagina abbia vissuto quando si è reso conto, per la prima volta, di chi fosse.

Anche lui è una vittima, esattamente come i 6.000.000 di ebrei che il padre ha contribuito a sterminare. Ma può riscattarsi. Il fatto di essere nato da suo padre non lo obbliga a solidarizzare con lui. Può distaccarsene, rinnegare la propria origine. Perché dovrebbe farlo? Perché se il mostruoso è stato, lo è stato a causa di milioni di passivi uomini-Eichmann. [9]

Che ci sia stato uno sterminio istituzionalizzato e industrializzato è stato possibile perché ci sono stati degli schiavi Eichmann, degli infami Eichmann, degli ottusi Eichmann, degli avidi Eichmann, dei vigliacchi Eichmann. E poiché ciò che è accaduto può accadere ancora, poiché il “ripetersi del mostruoso non solo è possibile, ma è probabile”[10], tutti dobbiamo attrezzarci per capire le radici del male, per vincere il nostro “analfabetismo emotivo”, in base al quale sei milioni di esseri umani diventano una cifra neutra, incapace di sollevarci come dovrebbe, proprio per la grandezza sproporzionata che ci impedisce di riflettere come dietro ogni singolo numero ci sia una persona.

A volte non si è a conoscenza del ciclo di cui si entra a far parte ma Adolf sì, lui ne era consapevole. E accettava il meccanismo, anzi lo governava. Le vittime no. Le vittime sono solo vittime. Non hanno alcuna colpa. E vanno onorate. Almeno con il ricordo di ciò che hanno patito. Anche i figli, come Klaus, sono delle vittime. Anche lui, sottolinea Anders, ha un marchio: non è il tatuaggio inciso sul braccio dei sei milioni che sono stati bruciati, ma quello inciso nel suo destino. E questo marchio del mostruoso è “il numero SEIMILIONEUNO”.[11]

Nessuno di noi, comunque, è del tutto al sicuro. Anche noi facciamo parte di una grande macchina, quella creata dalla tecnologia, che ha superato la nostra immaginazione e ci ha reso inadeguati a controllarla, vulnerabili di fronte alla possibilità di un nuovo totalitarismo di cui siamo funzionari. Si rende conto Klaus, chiede Anders nel generoso tentativo di solidarizzare con lui, “Che tutti noi quindi siamo ugualmente figli di Eichmann? O perlomeno figli del mondo eichmanniano?”[12]

Siamo cresciuti nella convinzione che il mostruoso mondo di ieri ce lo fossimo lasciato alle spalle. Ma non è così. Esso potrebbe ripetersi. E ripetersi proprio perché già è stato. E noi stessi potremmo essere impiegati come parti di un nuovo-vecchio meccanismo, mettendo i nostri figli nella condizione di essere figli di altri Eichmann.

Anders non riceverà risposta alla sua lettera, anzi si sorprenderà per una dichiarazione meschina di Klaus che lo spiazza e lo spinge a ricordargli che lui avrebbe avuto una chance, quella di condannare la sua ascendenza: le vittime di suo padre, invece, non hanno avuto alcuna possibilità.

Gli scrive, perciò, una seconda lettera nel 1988, a distanza di venticinque anni dalla prima: Klaus è ormai adulto, Günter decisamente anziano. A spingerlo è anche la preoccupazione per il rinascere nella Germania federale e in Austria di nuovi Eichmann, di neonazisti, di uomini che “ridicolizzano Auschwitz.[13].

Sono negazionisti, sono persone che al tempo dell’orrore non erano neppure nati e negli anni ottanta per vigliaccheria o per nazionalismo o per ignoranza minimizzano, omettono, banalizzano e, così facendo, ri-ammettono Auschwitz. Gli danno vita. E ritornano a odiare. E a odiare gli ebrei. Ancora.

Attribuendo loro la colpa di quello che è successo, applicando la solita tattica secolare di continuare a far passare le vittime come bugiarde, le presentano come responsabili della loro sorte. Ma “Chi ha ucciso chi?[…] e Chi dovrebbe perdonare qualcosa a qualcuno?”[14]

In un’indiscriminata autoassoluzione, si arriva all’assurdo di passare dal fatto che tutti i tedeschi sono colpevoli al fatto che nessun tedesco è colpevole, col risultato di profanare i cadaveri che si negano ci siano stati.

E ce ne sono stati. Tanti. Di ogni tipo: rom, omosessuali, prigionieri di guerra. Quasi in ossequio al carnefice della Molussia che, nella sua “giustizia”, diceva: “Mi va bene chiunque e chiunque mi va ugualmente bene”.[15]

È la logica di Eichmann ma non è una logica debellata. Purtroppo Eichmann non è un unicum: magari lo fosse! E invece tocca assistere a come continuiamo a essere ciechi nei confronti delle conseguenze delle nostre azioni. Per questo Anders si sente in dovere di utilizzare il tempo che gli resta per aiutare a sventare futuri Auschwitz. Per cercare di convincere l’erede di uno dei suoi ideatori. Non lo considera colpevole di essere figlio di suo padre, ma lo considererebbe colpevole qualora “continuasse a restare figlio di suo padre”.[16]

In realtà dei quattro figli di Adolf, solo uno ne prese le distanze e non fu Klaus, che lo appoggiò fin dopo la morte.

Diversa fu la situazione di un altro corresponsabile di azioni tragiche, Claude Eatherly, il pilota statunitense che aveva partecipato alla missione di Hiroshima e che, a fronte di una brillante carriera, si congedò subito dopo, cadendo in una profonda crisi depressiva. Anche lui era un militare, aveva eseguito degli ordini e avrebbe potuto nascondersi tra le rotelle dell’ingranaggio che aveva causato centinaia di migliaia di morti, ma la sua reazione era stata profondamente differente.

Anders gli scrisse, nel giugno del 1959, una lettera in cui esprimeva la comprensione per quello che rappresentava, una nuova figura di “incolpevolmente colpevole”, una situazione in cui ciascuno di noi si sarebbe potuto trovare nel futuro.

Provò ad aiutarlo a uscire dalla condizione di fragilità psichica che viveva, per i morti che ne affollavano le notti: gli consigliò di scrivere alla popolazione di Hiroshima, nell’anniversario del bombardamento, e chiedere perdono per quel volo, dire che il loro No more Hiroshima era anche il proprio No more Hiroshima.

Claude Eatherly, a differenza di Klaus Eichmann, non solo gli rispose, iniziando con lui un vero carteggio, ma fece esattamente quanto Anders gli aveva proposto. Scrisse ai cittadini di Hiroshima che nobilmente gli riconobbero che anche lui, in fondo, era una vittima di quella bomba.

Accanto a chi non si è pentito, a chi è stato schiacciato dalle proprie azioni, ci sono stati quelli che non si sono piegati, quelli che hanno reagito quando potevano evitarlo, il male, come i tanti giusti che non hanno rinnegato valori né umanità.

Pensiamo a due sole persone per tutti, peraltro diverse, diversissime: lo sfrontato Giorgio Perlasca che, pur fascista da giovane, non esitò a fingersi qualcuno che non era per salvare migliaia di ebrei di un altro paese, l’Ungheria o il mite Janusz Korczak, il pedagogista polacco, direttore della Casa degli Orfani di Varsavia, morto nell’agosto del ’42 per non aver voluto lasciare i suoi amati bambini. Li amava a tal punto da non riuscire a staccarsi da loro quando avrebbe potuto lasciare il ghetto e neppure quando furono evacuati per quella marcia che li avrebbe portati ai campi di sterminio. Non li lasciò, perché voleva condividere la loro sorte, qualunque fosse stata: la deportazione o la morte. E le trovò entrambe. Insieme a loro.

NOTE

[1] Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, il Melangolo, 1990, pp. 29-31.

[2] Ivi, pag. 35.

[3] Ivi, pag. 56.

[4] Ivi, pag. 59.

[5] Ivi, pag. 63.

[6] Ivi, pag. 69.

[7] Ibid.

[8] Günter Anders, Noi figli di Eichmann, Giuntina, pag. 11.

[9] Ivi, pp. 23-25.

[10] Ivi, pag. 25.

[11] Ivi, pag. 52.

[12] Ivi, pag. 63.

[13] Ivi, pag. 86.

[14] Ivi, pag. 89.

[15] Ivi, pag. 97.

[16] Ivi, pag. 104.

 

Lascia un commento