La grande riforma. Un atto mancato [di Pasquale Chessa]
La Nuova Sardegna, 03/0372014. LA STORIA. A dispetto della sua proverbiale resistenza al lavoro notturno, quella notte fra il 25 e il 26 giugno 1991 Giulio Andreotti confessò di aver faticato non poco a leggere in anteprima assoluta le 82 cartelle del Messaggio alle camere sulle riforme costituzionali che Cossiga gli aveva fatto recapitare attraverso Sergio Berlinguer segretario generale del Quirinale. Doveva essere la Grande Riforma, pensata in punta di diritto costituzionale, non soltanto per fare dell’Italia una «democrazia normale» ma soprattutto per ridare la spinta propulsiva al sistema di valori e di corrispondenti poteri che la fine dell’Età democristiana stava per travolgere. Si trattò invece di «un atto mancato», come dice appunto il titolo Convegno di studi. «La politica italiana reagì come una casta sacerdotale», diceva Cossiga ricordando quei giorni da presidente emerito, «che si trova di fronte alla secolarizzazione della religione su cui fonda tanto il suo credo quanto il suo potere». La lettera manoscritta di Andreotti, che Cossiga ha conservato fra le sue carte, insieme alla sua puntuta risposta, a dispetto della partecipe cordialità, fu scritta e letta come una dichiarazione di guerra: il rifiuto della controfirma del presidente del Consiglio, seppure legittimo sul piano costituzionale, aveva lo scopo di creare una profonda faglia, un muro insormontabile intorno al Quirinale. Cosa voleva Cossiga? Il «Messaggio», 23 anni dopo, ancora si legge come l’incunabolo, primo testo dopo la caduta del Muro di Berlino, di quella crisi politica e ideale che travaglia ancora la politica italiana. Un documento inconsueto nella storia del Quirinale, nel quale il presidente fa tutte le parti in commedia, sia del costituzionalista che era stato in gioventù, dello storico della politica suo tempo e in ultima analisi del politico riformatore. Che fosse troppo? «Gollismo in salsa sarda»: fu l’accusa di Eugenio Scalfari, con un editoriale nel pieno della polemica di quei mesi, contro Cossiga impegnato a picconare il sistema dei partiti, scritto per rispondere alla mia intervista per Epoca uscita col titolo di copertina «Macchè pazzo, sono solo sardo e testardo». LA MEMORIA. Questioni di stile. Gli storici non si sono fin qui presi la briga di affrontare il Messaggio partendo dai suoi contenuti. C’è un passo a pagina 16, per fare un esempio di dettaglio ma non meno importante per la sua perenne attualità, che sembra scritto oggi per i giornali di domani, sull’uso paradossale del decreto legge, diventato «non solo uno, ma lo strumento ordinario della normazione nel nostro paese». Già 23 anni fa Cossiga interrogava la classe politica per la «perdita di identità delle istituzioni», si chiedeva cosa ne sarebbe stato del bipolarismo imperfetto che aveva retto l’Età democristiana assegnando alla Dc la cura del governo e al Pci il monopolio dell’opposizione, si proponeva di «salvare i partiti dagli effetti devastanti della partitocrazia», si preoccupava di garantire «l’espressione della libera e sovrana della volontà popolare». Già,come dicevano i padri costituenti: «… la sovranità appartiene al popolo …»: nel Messaggio si parla di referendum, addirittura propositivi, si contempla anche l’elezione diretta del capo dello stato, si parla di sistema uninominale… Ipotesi insieme ad altre ipotesi… Troppo popolo, però, sentenzia la vulgata dominante. E antipatizzante! Già nella sua lettera notturna Andreotti aveva centrato il bersaglio con eleganza dottrinale: «La reiterata contrapposizione fra popolo sovrano e rappresentanza è pericolosa, perché sappiamo storicamente i rischi della soggettiva distinzione fra Paese legale e Paese legale…». Qualche giorno dopo senza preoccuparsi troppo delle questioni di stile, nella rubrica che teneva sull’Europeo, storico settimanale Rizzoli, Andreotti si era lasciato andare a una delle sue più sulfuree e corrive battute: «Il popolo sovrano è una tesi buona per i libici…». LA POLITICA. L’accusa di «populismo», seppure nella variante più sofisticata di «gollismo» trova spiegazione in una interpretazione di secondo grado: Andreotti e la Dc temono infatti che dietro il Massaggio ci sia l’influenza, trasmessa da Giuliano Amato allora vicesegretario del Psi, del progetto di «repubblica presidenziale» coltivato da Bettino Craxi. Ci sarebbe una lettura di grado superiore, infine… Nel terzo grado di interpretazione Andreotti avrebbe rifiutato la firma al Messaggio per via di 11 righe in cui il Presidente della Repubblica, per attuare le riforme ipotizza un governo di unità nazionale che comprenda anche il Pds fresco erede del Pci. Le righe incriminate vengono tagliate. Già un anno prima, agosto 1990, il presidente del consiglio aveva gettato lo scompiglio nelle presunte strategie del presidente della repubblica, svelando il segreto di Gladio, la struttura segreta della Nato di cui Cossiga si era occupato agli esordi della sua carriera nelle istituzioni, siamo nel 1966, come sottosegretario alla Difesa (ministro era Andreotti) nel terzo governo di Aldo Moro. «Andreotti sapeva benissimo ciò che faceva» scrisse d’impulso nel suo editoriale sul Giornale Indro Montanelli, «e lo ha fatto per togliere di mezzo Cossiga e garantirsene la successione al Quirinale, accaparrandosi i voti dei comunisti, gli unici beneficiari di questa pantomima». Se questa sia la ragione per la quale, un anno dopo, il Pds non avrebbe preso al volo le aperture di credito implicite nel Messaggio del presidente, arrivando poi nel corso dei mesi successivi a promuovere la sua «messa in stato d’accusa», è un problema storiografico che non ha trovato ancora la sua storia… È proprio di quel tempo, la scelta della metafora del «Piccone», speculare all’immagine del «Palazzo» scelta da Pier Paolo Pasolini per disegnare la figura del potere nell’Età democristiana. E un vaticinio ancora carico di attualità: «Dopo di me la Presidenza della Repubblica non sarà più come prima». IL CONVEGNO. «La Grande riforma: un atto mancato» con questo titolo, attuale e provocatorio nello stesso tempo, l’Associazione Francesco Cossiga, in collaborazione con La Sapienza e la Link Campus University di Roma, ha promosso il convegno che si terrà nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani il 4 marzo. Dopo il saluto del Presidente del Senato, toccherà a Giuliano Amato entrare nel merito della riforma delle Istituzioni che Cossiga sollecitò al Parlamento il 26 giugno del 1991. A Luigi Zanda, capogruppo al Senato del Pd e collaboratore storico di Cossiga, e a Gaetano Quagliariello, già ministro delle Riforme, il compito di stabilire il nesso fra storia e attualità. Gli storici Gotor e Compagna, il costituzionalista Barbera e l’economista Savona affronteranno i contenuti del Messaggio. Infine con una sorta di tavola rotonda, guidata da Pasquale Chessa, curatore dell’Archivo Cossiga, si ricostruiranno gli eventi del tempo, con alcuni dei più importanti collaboratori di Cossiga al Quirinale (Ortona, Caracciolo e Sechi) con i giornalisti che ne scrissero (Padellaro Guzzanti) i politici che collaborarono (Carra, Martino e Zanfarino). Presiedono Annamaria e Giuseppe Cossiga. |