Mizrachi, Ebrei arabi [di Gian Franca Fois]

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Naim Gilai, ebreo iracheno, racconta che quando il 14 maggio 1950 atterrarono, pieni di entusiasmo e aspettative, furono immediatamente spruzzati con ingenti dosi di DDT, questa fu la prima umiliazione, furono poi trasportati in camion in pieno deserto, anziché in città come promesso, per essere lasciati lì senza acqua né cibo. Al loro rifiuto venne ribaltato il fondo del camion e tutti, anche donne incinte, vecchi e bambini, cascarono giù. Era il benvenuto di Israele, stato fondato appena due anni prima non da sopravvissuti ai campi di sterminio, contrariamente a quanto si crede, troppo pochi e deboli per poter mettere in campo le energie che la fondazione di un nuovo stato richiede ma da Ebrei askenazi, molti dei quali, sionisti, erano arrivati in Israele sin dal periodo del mandamento britannico, in gran parte provenienti dall’Europa orientale, mentre a Gerusalemme, in pacifica convivenza con Cristiani e Musulmani, sin dall’ottocento si trasferivano per morire dei pii Ebrei che vivevano di elemosine provenienti da Francia, Gran Bretagna ecc..

Non essendo in numero sufficiente, gli Israeliani iniziarono una martellante propaganda per spingere quelli che verranno poi definiti Mizrachi, dall’ebraico misrah (oriente), ad abbandonare i luoghi di origine in Asia e nel nord-Africa, giungendo a mettere bombe nelle sinagoghe per convincerli dell’intolleranza nei loro confronti da parte dell’ambiente musulmano. Come abbiamo detto l’arrivo in Israele fece subito capire il motivo di tanto interesse, avere numerosa mano d’opera a buon mercato. D’altra parte i nuovi arrivati erano Arabi quindi non tanto distanti dai Palestinesi che vivevano lì da millenni e verso i quali il disprezzo degli Israeliani era così forte che la parola d’ordine del Sionismo era stata: Una terra senza popolo (sic!)  per un popolo senza terra. Voglio solo ricordare alcune espressioni utilizzate nei confronti dei Palestinesi da Begin: “bestie a due zampe”, da Sharon “scarafaggi” e così via.

I Mizrachi furono definiti dagli storici sionisti  “Ebrei arabizzati”, termine che mostra tutta la sua carica razzista dal momento che gli altri vengono invece chiamati Ebrei tedeschi o russi o belgi e così via. Eppure la maggior parte proveniva da comunità importanti per cultura e ricchezza, ad esempio quella di Baghdad aveva origini antichissime che risalivano ai tempi di Nabucodonosor a Babilonia prima e a Baghdad, che pare abbiano contribuito a fondare, poi. A questo primo nucleo nel frattempo si erano aggiunti gli Ebrei sefarditi in gran parte provenienti dalla Spagna dopo la cacciata del 1492.

Gli Ebrei arabi occuparono, e in gran parte occupano ancora, i livelli più bassi della società, spesso costretti a vivere nei campi in estrema povertà. Questo stato di cose  provocò anche delle sommosse, ma il tutto è funzionale alla potente macchina statale e militare israeliana che cerca continuamente di indirizzare l’opinione pubblica contro il “diverso”, il “nemico” per distogliere l’attenzione dai gravi problemi interni che vedono una società con forti differenze sociali ed economiche. Anche la cultura occidentale e la diaspora ebraica hanno contribuito a questa emarginazione, basti pensare al fatto che non viene dato spazio ai numerosi scrittori sefarditi, la cui conoscenza darebbe la possibilità di conoscere in modo più articolato e profondo la società israeliana rispetto a quanto la si conosce dalle opere di Grossman, Oz,Yeousha.

Secondo alcuni studiosi infatti il violento esproprio di identità portato avanti dalla leadership askenazita verso la maggioranza mizracha giustificherebbe le discriminazioni ben più evidenti verso la minoranza interna, i Palestinesi con cittadinanza israeliana, ed esterna, i Palestinesi della Cisgiordania, tutti e tre i gruppi accomunati da un processo di dearabizzazione e giudaizzazione del territorio, una sorta di pulizia etnica.

Questi temi, complessi e di varia natura, si ritrovano, dibattuti per la prima volta in Italia, nel libro “Ebrei arabi: terzo incomodo?” pubblicato di recente dall’editore Zambon, a cura di Susanna Sinigaglia (studiosa appartenente all’associazione Ebrei Contro l’Occupazione), con la presentazione di uno studioso palestinese, Wasim Dahmash e presentato nei giorni scorsi a Cagliari. Ricordo solo uno dei numerosi temi presenti nel libro, uno dei crimini maggiori commessi da Israele nei confronti degli Ebrei arabi, il rapimento tra il 1948 e gli anni sessanta, di migliaia di bambini strappati con l’inganno alle loro famiglie per esperimenti (ma ci sono poche prove), per essere adottati o venduti. Sino a non molto tempo fa si pensava che fossero voci della propaganda antisraeliana senza o con scarso fondamento. Ma nel 1994 una Commissione nominata dal governo ammise che erano stati più di 1000 i bambini rapiti. La commissione era stata istituita dopo la denuncia del rabbino yemenita Uzi Meshulam che con la sua organizzazione aveva iniziato un’ inchiesta sull’argomento e accumulato prove indicando in 4500 i casi di bambini rapiti, anche se le stime che ora vengono fatte parlano di circa 10.000.

Indicato dalla stampa, che ha svolto un ruolo importante nella manipolazione dell’opinione pubblica,  come leader di una setta terroristica era stato attaccato nel suo centro di documentazione dalle forze militari e di polizia e arrestato. In carcere, dove rimase quasi 5 anni, subì maltrattamenti tali che morì poco dopo il rilascio mentre il figlio fu costretto a fuggire e rifugiarsi in Canada. Rabbi Meshulan era riuscito a creare una sorta di rete di informazioni per trasmettere quanto andava scoprendo dal momento che la stampa, mentre teneva nascoste le sue rivelazioni,  liquidava le sue informazioni e la sua critica alla democrazia israeliana come una forma di paranoia. Solo recentemente alcuni giornalisti hanno cominciato a chiedere che il governo ammetta i fatti e si inizi un periodo di chiarezza e riconciliazione.

Insomma la società israeliana non è un blocco monolite ma, al suo interno, sono presenti, come dicevo, forti tensioni sociali determinate dal tentativo di tenere i Mizrachi in posizione subalterna. Questi, benché talvolta si siano dimostrati i peggiori nemici dei Palestinesi, in altre occasioni hanno tentato, sinora con risultati modesti, di creare movimenti, ad esempio il Mizrachi Democratic Rainbow,  in collegamento con i Palestinesi, per lottare insieme per la distribuzione delle terre, sono riusciti ad ottenere sentenze favorevoli che però non sono state poi applicate. Ciò non toglie che non siano pochi quelli che sperano che grazie alla mediazione dei Mizrachi si possa sviluppare un serio processo di pace tra Palestinesi e Israeliani.

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