Elogio della memoria lunga [di Maria Antonietta Mongiu]
Rivista La Collina Gennaio- Giugno 2020. Anno XIII N 12. Cosa c’entrano le pitture paleolitiche di Lascaux in Francia con la comunità La Collina? C’entrano e molto. Si tratta della prima testimonianza che si conosca della necessità umana di rappresentare le priorità ovvero recuperare, frequentare, tramandare memoria e renovatio loci. Gesti che richiedono consapevolezza e che nella grotta francese si sovrappongono precocemente. Da allora accadrà e si documenterà ogni giorno per infinite volte. Fino a qualche tempo fa sembravano virtù maschili ma se verrà confermata l’ipotesi che mani di donna elaborarono quell’opera d’arte, preceduta evidentemente da mille altre, molti paradigmi saranno ribaltati. Quelle mani a Lascaux s’incaricarono di rappresentare oltre che sé stesse, una densa fauna, sospesa tra immaginario e realtà, e di arricchire, attraverso un sorprendente catalogo faunistico, la quotidianità abitando la memoria con questa. Fissarono così i codici per garantire la sopravvivenza della comunità non tanto e solo raffigurando i fornitori del cibo quotidiano ma soprattutto convincendosi che, costruendo ricordi, si oltrepassa morte, precarietà, esclusione e naturalmente sé stessi e il momentaneo destino terreno. Un’autentica pedagogia della sopravvivenza ed insieme di immaginari fondati sull’autocoscienza del quotidiano vissuto e di quello possibile. Scoprire In sintesi il proprio senso e sapere che senza non si può vivere. Da allora costruire e trasmettere memoria è segno dell’umano e se sarà dimostrato che origina e procede dalla prassicità del femminile avremo molto da ridiscutere sulla natura del maschile e sulle ragioni che lo hanno spinto alla ferocia contro il femminile, la sua sfera e i mondi che di conseguenza attengono alla memoria e alla sua trasmissione su cui si fondano cultura e civiltà. Quel maschile ebbe necessità della Pizia o di Cassandra, ultime nella genealogia delle sciamane, a cui consentire di coltivare memoria e predire futuro ma contestualmente di sancirne isolamento ed esclusione. La contraddizione è la stessa che riscontriamo nella contemporaneità che continua ad interpellarci sul come far convivere memoria e progetto ovvero passato e futuro. La non risoluzione crea la crisi di senso oggi percepibile nelle periferie urbane e sociologiche e di conseguenza anche nel cuore dell’urbano. Da qui l’azzardato parallelo con la comunità La Collina perché quando ci si capiti si ha sempre la sensazione che quel luogo ci sia sempre stato a testimoniare la memoria lunga. Vi si percepisce il suo potente genius loci che è dei luoghi antichi di “lunga durata”, vissuti, assai accudenti per chi vi abita che, come nella fattispecie de La Collina, è capitato lì quasi per caso, proveniente da ogni altrove. La Collina è una grande e dedalica casa, evocante le strutture monastiche, accogliente come una caverna, dove vengono oltrepassati i precari destini degli abitanti perchè vengono trasformati in opportunità e in attitudini, a prova che ogni luogo che agisca consapevolmente memoria, la coltivi e crei, è garanzia di democrazia e, di conseguenza, luogo di futuro. La comunità La Collina mette infatti in valore talenti fin qui disconosciuti e li fa diventare soggetti di storia, finalmente restituiti al mondo, referenti di quella responsabilità che vivere la vita richiede. Come nell’antica grotta di Lascaux vi si diventa adulti. Come accade? Per una densa umanità e una lucida gratuità che mischiano paternità e maternità come accade fin dai tempi di Lascaux. Lo si coglie appena si varca la soglia avendo negli occhi il rassicurante paesaggio agrario intorno o si assista a funzioni religiose o ad iniziative laiche che hanno tutte sempre un cotè extra-vagante ma fondato sempre nel solco evangelico. La comunità trasuda non solo della memoria personale del/della padre/madre fondatore/trice del luogo. Si chiama Ettore Cannavera. Un sacerdote consacrato, assai convenzionale nella dipendenza dall’insegnamento di Cristo e di Papa Bergoglio più che da gerarchie che come tutte quelle variamente mondane e politiche sono discutibili e pro tempore brevi perché per un vero cristiano, come don Ettore, l’unica non discutibile è di lunga durata: è la parola di Cristo, memoria antica e insieme attualissima oggi per agire renovatio loci. Le terre trasformate dai ragazzi di don Ettore in uno dei paesaggi agrari più belli del Parteolla appartenevano alla sua famiglia che la terra lavorava prima di inurbarsi. Ha scelto di ritornarvi per farne un sacrario della memoria collettiva di una terra da millenni accogliente e generosa con chi ne conosceva i segreti, li coltivava, li trasmetteva. Sarebbe lungo almanaccare le metafore evangeliche legate alla terra e alla sua coltivazione che ben si attaglierebbero alla Comunità di don Ettore nel territorio di Serdiana la cui ruralità ha cambiato di segno a seconda delle epoche fino a quando nell’XI secolo dalla Provenza arrivarono i Benedettini dell’Abbazia di San Vittore di Marsiglia chiamati dai giudici di Cagliari. Segnarono irreversibilmente le geografie lasciandovi un magistero materiale e immateriale nei campi coltivati e nelle chiese tra cui, ad un tiro di schioppo da La Collina, Santa Maria di Sibiola tra le più belle nel Giudicato di Cagliari di cui don Ettore e la sua comunità raccolgono la memoria della renovatio nel segno dell’ora et labora della pratica benedettina. Una comunità di pratiche e di memoria dunque quella che nacque ben 25 anni orsono nel solco di una storia densa e impegnativa. At memoria minuitur…nisi eam exerceas (ma la memoria diminuisce se non la eserciti), si legge nel Cato Maior de senectute. Cicerone scrisse nel 44 a. C. il dialogo colto quanto struggente, ambientato nel 151 a. C., in cui un ottantenne, Catone il Censore, conversa con due giovani, Gaio Lelio e Scipione l’Emiliano. La frase di Cicerone del Cato Maior si accompagna nelle intenzioni del grande oratore alla consapevolezza che non si può vivere senza sostrato e senza ricordo che è necessario perpetuare. Freud e Lacan erano di là a venire ma è già tracciata l’interdipendenza tra memoria e linguaggio, inconscio ed esperienza passata, e delle conseguenti opportunità offerte dalla memoria lunga. Non è mai elogio del rimpianto quanto dell’esperienza e dell’urgenza di trasmetterla, possibile attraverso la relazione intergenerazionale che costruendo comunità educanti fonda e connota la civitas che non voglia diventare periferica a sé stessa perdendo il suo senso. Destino e prospettiva che ci consentono di interrogarci se il meraviglioso stupore del dialogo ciceroniano possa mai capitare in piena contemporaneità. La risposta non può che essere positiva quando capita di imbattersi in personaggi come don Ettore il cui campo di azione riguarda proprio gli adolescenti che necessitano di un padre che contestualmente si assuma l’onere di essere anche madre. Si tratta di portatori sani di densa e profonda memoria di un paesaggio affollato dalla bellezza e dalla passione della giovinezza che vuole abitare i luoghi con consapevolezza. Patrioti della pedagogia sociale e civile, sono gli eroi della nostra distratta contemporaneità. La civitas nella sua interezza dovrebbe stare al loro fianco ma spesso accade che i Patrioti della Costituzione e del Vangelo, per le stesse ragioni, ogni tanto vengono lasciati soli anche dai migliori. |