L’istante della rivoluzione: per Walter Benjamin [di Dario Gentili]

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Da qualche giorno è in libreria la riedizionedi “Il tempo della storia.

Le tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin” (Quodlibet),

testo nel quale Dario Gentili ripercorre il significato fondamentale

delle Tesi e lo sfondo politico e filosofico entro cui esse si stagliano.

Ringraziamo l’autore e l’editore per averci gentilmente concesso di ripubblicare il IX capitolo del libro.

La nona è la famosa tesi incentrata sulla figura dell’Angelus Novus; essa trae ispirazione da un acquerello di Paul Klee acquistato da Benjamin nel 1921. Sicuramente è la tesi più nota di Über den Begriff der Geschichte, citata ed evocata ovunque nel mondo negli ambiti più disparati. Effettivamente essa occupa una posizione centrale sia semplicemente come numero sia, soprattutto, per una sorta di mutamento di prospettiva che rappresenta.

L’angelo della storia, infatti, è descritto in equilibrio precario tra passato e futuro e, tornando alla tesi precedente, nell’attimo stesso della decisione tra la catastrofe e la redenzione: rappresenta quel presente in cui si decide la storia, il metodo da privilegiare e la direzione, in bilico tra progresso e regresso del senso storico.

Inoltre, nell’economia stessa dell’opera, la IX tesi segna, dopo che nelle tesi precedenti si è evidenziato come lo storico materialista deve considerare il passato, lo spostamento dell’attenzione sulla concezione del futuro che il materialismo storico deve far propria. Che naturalmente non si tratti di una svolta particolarmente evidente, tanto che nell’analisi delle tesi precedenti si è dovuto far spesso ricorso alla nozione di futuro trattando della redenzione del passato, deriva proprio dal rifiuto benjaminiano della concezione di una temporalità lineare, secondo cui passato e futuro occupano due estremi opposti.

La IX tesi può essere considerata, piuttosto che un passaggio secondo un tracciato lineare da una prima a una seconda parte, come l’istante (Augenblick) della decisione presente in cui sono concentrati passato e futuro. Il non decidere comporta l’essere travolti dalla bufera del progresso che, trascinando l’angelo verso il futuro, distende il tempo nella scansione lineare di passato, presente e futuro. Per Benjamin, l’esser trascinati dalla bufera del progresso non è l’inesorabile necessità a cui la storia non può sottrarsi, ma la colpa a cui si condanna quella storia incapace di decidere nell’istante (Augenblick) in cui presente, passato e futuro coincidono.

IX.1 Agesilaus Santader: l’angelo della felicità

Da quando l’acquerello di Klee ha fatto ingresso nella sua vita, Benjamin ha spesso fatto riferimento nella sua opera all’Angelus Novus, ma è in un breve scritto autobiografico del 1933 che la descrizione dell’angelo ha sorprendenti affinità con quella della IX tesi. Si tratta di un frammento scritto a Ibiza, particolarmente ermetico in quanto la rappresentazione dell’angelo si confonde con episodi della vita di Benjamin, alla cui esplicitazione Scholem ha dedicato il breve saggio Walter Benjamin und sein Engel.

L’Angelus Novus non è ancora l’angelo della storia, bensì l’angelo personale dell’uomo Benjamin che, secondo la tradizione ebraica, rappresenta l’io segreto di colui a cui è assegnato. Mentre in una prima versione i tratti autobiografici del frammento sono predominanti, la sua seconda versione, di solo un giorno successiva alla precedente, abbandona, soprattutto nella parte conclusiva, il piano strettamente autobiografico.

Lo stesso Scholem propende, nell’analisi delle due versioni, a coglierne la differenza nel fatto che rispetto alla prima, dove l’attenzione era interamente incentrata sulla donna amata senza speranza da Benjamin, la seconda versione si concentra sulla caratterizzazione della figura stessa dell’Angelus Novus: «Perché Benjamin, dall’univoca formulazione della prima stesura, col preciso riferimento alla persona dell’amata, sia passato alla seconda e più ambigua formulazione, dipende dalla più chiara definizione che qui ha la figura dell’angelo»[1].

Mi rifarò pertanto a questa seconda versione, in quanto è proprio in essa che si mostra la chiave per l’interpretazione dell’angelo della storia, come se nello spazio di un giorno Benjamin avesse intuito che l’immagine dell’Angelus Novus potesse rappresentare molto di più che un amore infelice.

Prima di tutto nell’Agesilaus Santader si evidenzia la natura teologica dell’Angelus Novus, che nella IX tesi è sottintesa: «La kabbalah racconta che Dio crea ad ogni istante un numero sterminato di nuovi angeli, tutti destinati soltanto a cantarne per un attimo (Augenblick) le lodi davanti al suo trono prima di dissolversi nel nulla. Come un tale angelo si palesò il Nuovo prima di volersi nominare»[2].

Di quale altra natura se non questa è anche l’Angelus Novus del 1940, l’angelo della storia? Non è stato forse anch’esso creato da Dio per cantarne, per un solo attimo (Augenblick), le lodi sulla scena presente della storia? Non è forse la storia stessa, di cui l’angelo è l’emblema, il luogo privilegiato in cui, per un solo attimo, si possono ascoltare le lodi della verità, prima che essa, fissata dalla conoscenza in forma di apparenza, “si dissolva nel nulla”?

Questa apparenza, che scaturisce dall’ascolto presente del suono della verità, non è proprio la redenzione del passato che la storia è chiamata a realizzare? La descrizione dell’Angelus Novus nella IX tesi, “i suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate”, corrisponde in pieno a quella di uno “del numero sterminato di nuovi angeli” che, “con il viso rivolto al passato (Vergangenheit)”, è in procinto di cantare le lodi della verità al presente, il cui ascolto può prender l’aspetto di conoscenza storica che redime.

Esso è già sul punto “di dissolversi nel nulla” dopo aver cantato le lodi di Dio; di allontanarsi da quello spazio presente, “su cui ha fisso lo sguardo”, che attende di ascoltare, nel balenante attimo della sua conoscibilità (Augenblick seiner Erkennbarkeit), il suono della verità:

C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto[3].

L’Angelus Novus ricorda all’uomo Benjamin tutto ciò da cui egli ha dovuto separarsi, che non ha più spazio nel suo presente; il suo canto mantiene vivo nel presente il ricordo del passato: «l’angelo somiglia a tutto ciò da cui io sono stato costretto a separarmi: alle persone, ma soprattutto alle cose.

Alberga nelle cose che non ho più. Le rende trasparenti, e dietro ciascuna di esse mi appare la persona cui è dedicata»[4]. L’angelo, tuttavia, non vuole suscitare nostalgia per un passato irrevocabilmente perduto, per cose e persone irrimediabilmente perdute, piuttosto la sua è una promessa di felicità. La verità alberga nel passato e, per bocca dell’angelo, risuona nel presente come un’eco di possibilità: la felicità si promette in un desiderio passato che consegna al presente la sua realizzazione.

È la stessa felicità che, nella II tesi, risiedeva “solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi” e in cui “risuona ineliminabile l’idea di redenzione”. Allo stesso modo, l’Angelus Novus indica nella redenzione del passato una felicità sempre possibile: «[Colui che l’angelo ha prescelto] tiene d’occhio risolutamente – a lungo, poi retrocede a scatti ma inesorabilmente.

Perché? Per trarselo dietro su quella via verso il futuro da cui è venuto e che conosce tanto bene da poterla percorrere senza voltarsi e senza perdere d’occhio colui che ha prescelto. Vuole la felicità: il contrasto in cui l’estasi dell’unicità, della novità, del non ancora vissuto, è unita a quella beatitudine della ripetizione, del recupero, del vissuto.

Perciò non ha speranza di novità per altra via che non sia quella del ritorno, quando conduce seco un nuovo essere umano»[5]. L’Angelus Novus vuole condurre l’uomo Benjamin sull’unica strada che porta alla felicità: la strada del ritorno. Lo stesso Scholem suggerisce la fondamentale differenza della seconda versione rispetto alla prima nella chiara determinazione della via del ritorno: «La via del ritorno, nella stesura definitiva, non è più la fuga verso il futuro utopico, che qui anzi è scomparso»[6].

Non è, tuttavia, affatto scomparsa una decisa tensione al futuro. Se c’è, infatti, speranza di futuro, di novità, essa è da rintracciare soltanto sulla via del ritorno: il “retrocedere a scatti ma inesorabilmente” dell’angelo verso il passato indica che l’unico futuro possibile per il presente è lungo la via del regresso al passato. Questa è una via conosciuta, segnata dalle tappe del vissuto, che può esser percorsa senza voltarsi indietro verso quell’ignoto tempo omogeneo e vuoto che è il futuro utopico della catastrofe.

Solo nel già vissuto, nel già conosciuto, c’è la possibilità del non-ancora vissuto e del non-ancora conosciuto: è il ricordo delle esperienze vissute a dover orientare nel futuro. Per Benjamin, il conosciuto non rappresenta qualcosa da dover dimenticare per procedere verso il futuro, ma è la stessa conoscenza a indicare, dove essa necessariamente lascia spazio al non-ancora realizzato, la possibilità della felicità.

Emerge, inoltre, l’importanza essenziale di un concetto quale quello del Gewesenes, che si distingue dalla Vergangenheit proprio perchè rappresenta nello spazio presente il passato conosciuto, attingibile dunque alla conoscenza e alla prassi del presente. La speranza di novità, infatti, è reale solo a condizione che l’angelo porti con sé “un nuovo essere umano”: solo se il passato è attualizzato in un nuovo presente, solo se il passato è conosciuto da un nuovo punto di vista può essere veramente nuovo. Il passato e il presente devono condividere il medesimo spazio, il Gewesenes, perché sia possibile la redenzione.

Che anche la vera intenzione dell’Angelus Novus del 1940, e l’unica felicità possibile, sia quella di un regresso al passato è chiaramente espresso dai versi della poesia Grub vom Angelus di Scholem, che Benjamin premette alla IX tesi: «La mia ala è pronta al volo/ tornerei volentieri indietro/ perché, rimanessi anche tempo vivo,/ avrei poca felicità»[7].

Il passato non è – come l’apparenza che la tradizione del presente dominante pone “davanti a noi” – “una catena di avvenimenti” legati indissolubilmente alla direzione di senso del progresso; ma, per la verità che l’angelo della storia rappresenta, esso non è che macerie. In un passato ammutolito dagli stretti nodi sistematici che la classe dominante ha intessuto al fine di perpetuare, con l’ideologia del progresso, il proprio dominio nel presente, non risuona alcuna speranza di felicità.

L’angelo, che vuole condurre con sé, per sottrarlo alla catastrofe, il nuovo presente verso quella speranza di felicità custodita nel passato, deve necessariamente considerare il passato come un cumulo di macerie che si ammassano ai piedi del presente: queste, pertanto, rappresentano il passato slegato dal senso del progresso.

La possibilità della redenzione – “destare i morti e riconnettere i frantumi” – deve considerare il passato come un ammasso di macerie, che la distruzione del contesto di senso dominante lascia alla possibilità di una nuova costruzione del presente. Il presente che vuole intraprenderla deve lavorare su ciò che del passato, sopravvivendo al succedersi delle epoche storiche, è restato nello spazio del presente come rovina, come morta allegoria.

Secondo una felice immagine di Einbahnstrasse, solo il “torso” del passato come è stato davvero (Vergangenheit), non la sua compiuta totalità, deve restare perché il presente vi possa “scolpire l’immagine del proprio futuro”: «Solo chi sapesse considerare il suo passato (Vergangenheit) come un parto della costrizione e della necessità sarebbe capace di trarne il miglior frutto in qualsiasi presente.

Perché quel che uno ha vissuto è nel migliore dei casi paragonabile alla bella statua che nel corso di vari trasporti ha perso tutte le membra e ora offre soltanto il prezioso blocco di marmo nel quale egli dovrà scolpire l’immagine del proprio futuro»[8]. La tradizione dominante, invece, tramanda il passato come se questo fosse una statua perfettamente conservata, su cui non può intervenire lo scalpello del presente.

Le macerie, per poter prendere nuova forma nel presente, devono rappresentare gli avvenimenti del passato liberati, slegati dal contesto di senso che li mantiene legati al concetto a essi imposto dalla tradizione dominante. La Erlösung deve avere sempre come sua condizione di possibilità lo scioglimento (Lösung), la liberazione.

Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi[9].

IX.2 Ma il progresso …

Ma dal paradiso soffia una bufera (Sturm), che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo progresso, è questa bufera[10].

Le sorti dell’angelo personale di Agesilaus Santader e dell’angelo della storia di Über den Begriff der Geschichte si dividono nettamente proprio in questo punto: il “ma”, che separa questo passaggio della IX tesi da tutto ciò che precedeva, introduce la dinamica del progresso, che impedisce all’angelo della storia di svolgere il suo vero compito, quel compito descritto in Agesilaus Santader.

L’angelo della storia è impedito nella sua opera di salvazione delle macerie del passato dalla bufera del progresso che spira dal paradiso. Benjamin per “paradiso” intende il mitico Eden dell’origine, il perduto paradiso terrestre, in quanto solo così si spiega il retrocedere dell’angelo verso quel futuro “a cui egli volge le spalle”. Ciò appare oltremodo chiaro se interpretiamo il passo interamente nella prospettiva di “ciò che noi chiamiamo progresso”.

Il perduto paradiso originario, pertanto, altro non è che quel “leggendario inizio della storia” che, insieme a “una sua fine altrettanto leggendaria”, è il presupposto irrinunciabile del concetto di progresso. La concezione del progresso, infatti, deve necessariamente essere legata a un concetto mitico dell’origine: un’origine irrimediabilmente perduta come quel paradiso da cui soffia la bufera. Un’origine non storica, non ripristinabile cioè ogni volta che il presente, con il “destare i morti e riconnettere i frantumi” del passato, pone sé stesso come nuova origine di un nuovo corso della storia.

Il progresso, invece di una concezione discontinua della storia che procede a salti, necessita di un’immagine lineare in cui inizio e fine, pur se determinati miticamente, siano indiscutibilmente i soli punti fissati di un unico, continuo e inarrestabile, sviluppo storico. Solo così nessun presente, compreso tra questi due punti, può arrestare il soffiare continuo della bufera dell’inizio che non si placa se non alla fine, quando è ormai troppo tardi.

La classe dominante ha posto la garanzia del perdurare del suo potere proprio nel carattere mitico di tale origine: il fondamento del suo dominio è pertanto inattingibile e fuori discussione per ogni prassi sovversiva nel presente. La bufera del progresso non concede all’angelo della storia l’attimo (Augenblick) per cantare le lodi di Dio – l’attimo in cui è possibile la redenzione, in cui il presente può arrestare il continuum della storia – bensì “lo spinge inarrestabilmente nel futuro”.

Il futuro del progresso, per cui nessun presente conta, percorre, a differenza del futuro del regresso, il tempo omogeneo e vuoto che prima o poi conduce all’irrimediabile catastrofe: «La catastrofe è il progresso, il progresso è la catastrofe. La catastrofe in quanto continuum della storia»[11]. Così, senza possibilità d’equivoco, scrive Benjamin nei materiali preparatori delle tesi.

IX.3 L’Angelus Novus della salvezza

Benjamin fornisce anche un’interpretazione meno catastrofica del suo Angelus Novus; si trova nei materiali preparatori delle tesi e si specifica ulteriormente in due frammenti del Passagen-Werk: «Interpretazione dell’Angelus Novus: le ali sono vele (Segel). Il vento che spira dal paradiso resta nelle ali»[12].

Il comparire in questo brevissimo frammento della definizione delle ali come vele e del termine vento, invece di quello adoperato poi nella tesi di bufera, segnala un livello d’interpretazione che, nella stesura definitiva della tesi, si è perso. Infatti, bisogna risalire al Passagen-Werk per ritrovare i medesimi termini: «Sul concetto di “salvezza (Rettung)”: il vento dell’assoluto nelle vele del concetto (in den Segeln des Begriffs). (Il principio del vento è l’elemento ciclico).

La posizione delle vele il relativo»[13]. Le vele, dunque, rappresentano il concetto di storia che si fa proprio; la posizione delle ali dell’angelo, che sono travolte dalla bufera del progresso, non è l’unica possibile, in quanto “la posizione delle vele è il relativo”. È possibile, pertanto, un concetto di storia che può avere nelle proprie vele il vento dell’assoluto, quel vento della salvezza che può, arrestando il presente presso il passato, “destare i morti e riconnettere i frantumi”.

La differenza essenziale tra questo vento e la bufera del progresso consiste nel fatto che non soffia inarrestabilmente lungo la linea che va dall’origine alla fine della storia, ma il suo principio è ciclico: il vento dell’assoluto spira dal presente verso il ritorno, verso la redenzione di quel futuro custodito nel passato.

Il concetto di storia, che fa gonfiare le proprie vele dal vento dell’assoluto, rappresenta l’antitesi della salvezza alla bufera del progresso che conduce alla catastrofe. «Essere dialettico significa avere il vento della storia nelle vele (Wind der Geschichte in den Segeln). Le vele sono i concetti (Begriffe). Ma non basta disporre delle vele. Ciò che è decisivo è l’arte di saperle issare»[14]. Non basta la conoscenza del concetto di storia nelle cui vele può spirare il vento della salvezza: “l’arte di saper issare le vele” non riguarda la conoscenza, ma è questione di prassi politica.

A nostro parere Benjamin ha scelto, al posto di questa versione dell’angelo della storia, quella catastrofica della IX tesi proprio perché essa sia di monito per quegli oppositori del fascismo che “lo affrontano in nome del progresso, come se questo fosse una norma della storia”. Il progresso è, invece, una norma indiscutibile della storia solo se non si decide politicamente nell’attimo in cui l’angelo della storia è in procinto di cantare le lodi della salvezza, se non si issano in tempo le vele al soffio del vento dell’assoluto.

L’angelo è solo il messaggero della verità e indica al presente la via del ritorno come quella propria della redenzione; ma è compito della prassi politica agire su “ciò che di volta in volta è dato”, decidendo per l’eterna provvisorietà di ciò che si dà “di volta in volta”, piuttosto che per la permanente eternità del “dato di fatto”: «Il concetto di progresso va fondato nell’idea di catastrofe.

Che “tutto continui così” è la catastrofe. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato»[15]. Lo stesso Scholem, che del resto non ha mai gradito l’avvicinamento di Benjamin al marxismo, spiega il fallimento dell’angelo in quanto solamente il Messia può realizzare il compito della redenzione. Egli non può accettare che il fallimento dell’angelo della IX tesi e il successo del Messia nell’ultima dipendano dall’avere o meno il presente preso una decisione politica: «Certo, destare i morti e ricomporre le cose infrante e spezzate non è, per la Kabbalah lurianica, compito di un angelo, bensì del Messia. […] Benjamin ha suddiviso la funzione del Messia cristallizzata dalla visione storica ebraica, in quella dell’angelo che deve fallire il suo compito, e in quella del Messia che può realizzarlo»[16].

NOTE

[1] G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano 1996, p. 46.

[2] W. Benjamin, Agesilaus Santader [Zweite Fassung], in Gesammelte Schriften, VI, cit., p. 522; trad. it. W. Benjamin, Agesilaus Santader [seconda versione], in Opere complete V. Scritti 1932-1933, cit., p. 502.

[3] W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 697; trad. it. pp. 35-37.

[4] W. Benjamin, Agesilaus Santader [Zweite Fassung], cit., p. 523; trad. it. p. 503.

[5] Ibidem.

[6] G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, cit., p. 52.

[7] W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 697; trad. it. p. 35.

[8] W. Benjamin, Einbahnstrasse, cit., p. 118; trad. it. p. 437.

[9] W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 697; trad. it. p. 37.

[10] Ivi, pp. 697-698; trad. it. p. 37.

[11] W. Benjamin, Anmerkungen zu Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 1244; trad. it. p. 89.

[12] Ibidem.

[13] W. Benjamin, Das Passagen-Werk, V/1, cit., p. 591; trad. it. p. 530.

[14] Ivi, V/1, p. 592; trad. it. p. 531.

[15] Ibidem.

[16] G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, cit., pp. 61-63.

 

 

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