“Informazione in Sardegna, il vero dramma è la mancanza di consapevolezza e di innovazione” [di Vito Biolchini]
Lunedì scorso 10 febbraio sono stato invitato in audizione dal direttivo dell’Associazione della Stampa Sarda, il sindacato unitario dei giornalisti sardi. L’invito mi è stato rivolto dal presidente Celestino Tabasso dopo la pubblicazione del mio post “Informazione in Sardegna, che fare? Contro la crisi servono analisi serie e non inutili passerelle”, a cui lo stesso Tabasso ha risposto con l’intervento “Crisi dell’informazione in Sardegna, ecco tre punti da cui ripartire”. Insieme al presidente, all’incontro erano presenti i componenti del direttivo Simonetta Selloni, Luca Gentile, Cinzia Isola, Mario Mossa, Antonella Loi, Alessandro Zorco, Fausto Spano e Paola Cireddu. All’incontro erano presenti anche i colleghi Stefano Salone e Paolo Paolini, Celestino Moro. Quello che vi propongo è il testo del mio intervento. Intanto vi ringrazio per questo invito e per l’opportunità che mi date di confrontarmi con voi su un tema così importante come quello del futuro dell’informazione in Sardegna. Io penso che per la nostra categoria sia arrivato il momento di fare una riflessione profonda e pubblica di ciò che sta avvenendo. È di questi giorni la notizia della crisi al Corriere della Sera e a La Stampa di Torino, con decine di prepensionamenti già annunciati. Io penso che ciò che sta succedendo in queste due realtà presto interesserà anche i due nostri quotidiani. Ho avuto notizia che venerdì scorso alla Nuova Sardegna, poi magari voi ne sapete più di me e si può verificare, si sia già iniziato a parlare di venti prepensionamenti. Questa è la voce che sta circolando. Voci o non voci, i dati sono quelli che ho pubblicato nel mio blog. Dieci anni fa l’Unione Sarda vendeva 70 mila copie e oggi ne vende 30 mila, mentre La Nuova Sardegna nel 2009 vendeva in edicola 54 mila copie e a dicembre scorso era a 24 mila. Se proiettiamo questi dati nel prossimo decennio, è chiaro che se questi giornali vogliono continuare a vivere devono cambiare qualcosa nella loro organizzazione e nel loro modo di porsi ai lettori. Sto parlando di questi dati perché sono gli unici di cui disponiamo. L’ultimo rapporto sull’informazione in Sardegna è datato 2008 su dati del 2006, e tutti noi sappiamo bene che quei dati raccolti dall’allora Corerat, sono dati che oggi non ci dicono più niente. Per cui, se da una parte abbiamo un problema di consapevolezza della crisi (non ne parliamo, perché forse pensiamo che, non parlandone, la esorcizziamo) dall’altra, una volta che decidiamo di affrontarla, non sappiamo oggettivamente di cosa discutere perché non disponiamo di dati. A questo proposito, io vorrei fare subito una proposta all’Associazione della Stampa Sarda. Si parla della possibile convocazione quest’anno della Conferenza regionale dell’informazione, che peraltro non sarà il Corecom a convocare ma la politica (quindi bisognerebbe anche, se siamo interessati che questa Conferenza si faccia, fare pressione sulla politica). Ma arrivare a questo appuntamento senza dati non avrebbe senso. Un modo semplice, a mio avviso, per iniziare a mettere insieme dei dati, è quello che l’Assostampa potrebbe attivare attraverso i suoi stessi iscritti. Si potrebbe cioè fare una sorta di censimento dal basso, con un sito aperto, in cui gli iscritti si possono registrare e caricare banalmente dei dati riguardanti le testate esistenti e operanti oggi in Sardegna. Quelle che conosco, le segnalo. Dopodiché, si può scendere ancora di più nello specifico, magari interessando i direttori e chiedendo loro altri dati che si ritengono importanti. In questo modo si potrebbe creare un database di informazioni che adesso non c’è. Forse ho guardato male, ma nel sito dell’Ordine dei Giornalisti l’elenco delle testate in Sardegna non l’ho trovato. In ogni caso, tutti noi sappiamo bene che le testate possono essere anche non operanti. Una cosa è certa: noi oggi non abbiamo un quadro neanche minimo di chi opera nel settore dell’informazione in Sardegna. L’Associazione della Stampa Sarda, attivando i suoi iscritti, può quindi in tempi ragionevoli e grazie ad un sistema informatico che non costa praticamente nulla, iniziare a raccogliere questi dati in maniera da iniziare a farci capire chi siamo, quanti siamo e cosa facciamo nelle varie testate (radio, tv, giornali online, quotidiani, periodici). Questo è un punto di partenza. Inoltre, e questa la mia seconda proposta, in vista della Conferenza sarebbe il caso di istituire untavolo di confronto permanente tra Associazione della Stampa, Ordine dei Giornalisti e Corecom. Il rischio altrimenti sarebbe quello di andare in ordine sparso e di arrivare impreparati all’appuntamento. Il tavolo potrebbe preparare un documento che poi potrebbe essere discusso in diverse assemblee territoriali (e questa è la terza proposta), organizzate per parlare con i colleghi, per capire che cosa vogliono e come pensano che da questa crisi si possa uscire. La crisi non riguarda solo chiaramente i giornali. Io penso ad esempio che le televisioni private abbiano gli anni contati, e non soltanto perché banalmente lo Stato si riprenderà le frequenze per destinarle il 5G, ma soprattutto per mancanza di innovazione. La transizione al digitale noi la evochiamo ma non la pratichiamo. Oggi è uscita sul Fatto Quotidiano un’intervista al direttore di Le Monde Jérôme Fenoglio, un giornale che in tanti stanno prendendo ad esempio per la sua capacità di sconfiggere la crisi generalizzata dell’informazione. Il direttore ha indicato le strade che il suo giornale ha seguito per migliorare le sue performance. Intanto è diventato soprattutto un giornale in abbonamento, esattamente come, ad esempio, lo sono diventati per me L’Unione e La Nuova. Ma questo può bastare? Il direttore di Le Monde indica come altro elemento di successo la conversione al digitale. Le nostre testate stanno puntando sul digitale? Direi di no, perché oggi non c’è più il quotidiano che ha un sito, ma il contrario: è il sito che ha un quotidiano, è il sito che ha una radio, è il sito che ha un giornale. Noi invece siamo fermi a questa idea che le testate tradizionali hanno anche un sito, come se fosse un qualcosa di più. Ecco, passare al digitale vuol dire ribaltare questo modello purtroppo ancora in voga in Sardegna. Poi per il direttore di Le Monde dalla crisi si esce aumentando la qualità dell’informazione offerta ai lettori. Io non voglio entrare oggi nel merito di questo tema, però non possiamo pensare che oggi in Sardegna l’informazione paghi soltanto un problema strutturale, che non ci sia collegamento tra la qualità dell’informazione che diamo e la crisi che noi viviamo. Quindi abbonamenti, qualità, digitale. Per il digitale servono competenze che noi giornalisti, dobbiamo riconoscerlo, spesso non abbiamo. Oggi all’interno dei processi che riguardano l’informazione, la professionalità giornalistica è solo una delle professionalità che viene utilizzata perché poi c’è bisogno, ad esempio, di grafici, analisti dei dati, webmaster, comunicatori, social media manager. Tutte queste sono figure professionali distinte dalla nostra. Certo, studiando un giornalista può anche diventare un social media manager. Ma di sicuro la sua è un’altra professionalità. Allora, o noi giornalisti entriamo in questa dimensione di prodotto collettivo, che non è più collettivo perché lo fanno in tanti, ma perché si nutre di più professionalità, o noi dalla crisi difficilmente usciremo. Infatti a mio avviso la Conferenza regionale dovrebbe essere estesa al tema della Comunicazione e non solo a quello dell’Informazione. Informazione e comunicazione sono ambiti che dialogano, ma con una differenza: che la prima gode di pessima salute mentre la seconda prospera. Non solo: banalmente, la comunicazione può fare a meno di noi. Per cui, o noi giornalisti siamo in grado di ritagliarci uno spazio all’interno della comunicazione più globalmente intesa, altrimenti le imprese editoriali possono fare tranquillamente a meno di noi, perché si affidano ai creatori di contenuti (oggi tutti sono diventati creatori di contenuti e per essere bravi creatori di contenuti non c’è bisogno di essere iscritti all’Ordine dei Giornalisti) che però dispongono di una loro professionalità. Sotto questo aspetto, io non penso che i comunicatori siano preferiti ai giornalisti, spesso anche dalle pubbliche amministrazioni, solo perché non devono rispettare un codice deontologico. Il motivo è che invece i comunicatori hanno spesso maggiori competenze sull’on line, sanno gestire Facebook, Instagram e fare video, mentre i giornalisti quasi sempre si limitano a scrivere un comunicato stampa e tutto il resto manco lo sanno fare. Non solo: nel mondo della comunicazione, che non è il mondo delle testate registrate, c’è tanto giornalismo. Come ci rapportiamo noi con questo mondo? Come questo mondo può diventare produttivo? Oggi sul Fatto Quotidiano c’è un intervento di Enrico Fierro, il quale ci invita a inglobare e non escludere dai nostri ragionamenti questo mondo. Dobbiamo inglobarlo, perché se non lo inglobiamo noi perdiamo la partita. Ma come possiamo fare? Che strumenti abbiamo a disposizione? Sono reduce, banalmente, da un’intervista in diretta su Facebook, fatta con un nostro collega che si è inventato questo lavoro di un talk quotidiano on line. Non ha una testata registrata, però esiste, c’è, ed seguito ogni giorno da migliaia di persone. Come ci rapportiamo a realtà come questa? Secondo me dobbiamo iniziare a fare delle valutazioni e quindi iniziare a censire anche queste realtà, blog, siti e pagine Facebook che sono realtà giornalistiche anche se non hanno un direttore responsabile, che talvolta creano economia e di sicuro alimentano quella opinione pubblica che spesso le testate registrate non riescono a generare. È chiaro che queste domande noi ce le dobbiamo porre ma le dobbiamo porre anche agli editori, a cui dovremmo mandare un richiamo chiedendo loro che cosa intendano fare. Perché se si continua così la crisi si può solo aggravare. Allora il vero problema che noi scontiamo non è soltanto la crisi di vendite o della raccolta pubblicitaria (la “crisi del sistema”) ma è la mancanza di innovazione. In Sardegna facciamo prodotti vecchi, vecchissimi. Questo è il guaio. Laddove in altre realtà si stanno impegnando, cercando di capire come uscire in qualche modo dalla crisi, noi la crisi la subiamo passivamente, con prodotti che sono sempre quelli. Nessuno li tocca, nessuno li mette in discussione. Non li mettono in discussione gli editori, non li mettiamo in discussione noi. Così il risultato è scontato, così dobbiamo solo immaginare quando tutto questo finirà. Ma quando finirà noi non saremo pronti. Allora, io mi chiedo: ai giovani sardi che vogliono intraprendere la carriera giornalistica (io ho iniziato a scrivere che avevo ventun anni e oggi ne ho cinquanta) che percorso proponiamo? Io a tutti loro sto dicendo: “Ragazzi, laureatevi, fate il master fuori e state fuori. Rimanete fuori”. Oggi ragionevolmente ad un giovane sardo di vent’anni che vuole fare il giornalista, cosa gli possiamo proporre se non questo? Studiare, formarsi, e poi avere fortuna a Milano o Roma. Sotto questo aspetto, la chiusura del Master di giornalismo di Sassari è stata drammatica. Perché non pensare di riaprirlo, chiaramente su basi profondamente diverse? Perché l’alternativa è quella di vedere tanti giovani trasferirsi in continente per studiare e poi banalmente, non tornare più. Poi c’è un altro tema centrale nel ragionamento che vi vorrei proporre ed è quello delle risorse. Riguarda da vicino la Regione, che ogni anno indirizza al settore dell’informazione cospicui finanziamenti sotto varie forme (attraverso leggi specifiche o solamente attraverso campagne pubblicitarie). Ecco, sono molto curioso di capire quali strade hanno preso queste risorse negli ultimi dieci anni. E questo la Regione, in occasione della Conferenza, ce lo deve dire, perché è fondamentale per noi capire che tipo di ricaduta, nel prodotto e nell’occupazione, queste risorse hanno avuto. La ricerca del 2008 stabiliva che il giro d’affari dell’informazione in Sardegna era pari ad 86 milioni di euro. Ma la ricerca ci diceva anche che il più grande gruppo editoriale sardo raccoglieva quasi 42 milioni di euro e il secondo 15. Agli altri dunque restavano solo le briciole. Oggi qual è la situazione? Penso che lo squilibrio si sia addirittura accentuato. Però il punto è un altro: noi come categoria e come sindacato vogliamo solamente combattere per tutelare l’esistente, o vogliamo impgnarci per creare le condizioni perché nascano nuovi posti di lavoro? Perché io ho come l’impressione che l’Unione Sarda e La Nuova Sardegna difficilmente faranno nuove assunzioni nei prossimi anni, al massimo stabilizzeranno qualche precario storico per riequilibrare i prepensionamenti. Mentre a mio avviso se si crea uno strumento normativo in grado di sostenere nuove realtà che stanno nel territorio, dando loro di possibilità di accedere ai finanziamenti quali imprese editoriali innovative e non banalmente in base a quanti giornalisti hanno già in redazione, potrebbero nascere nuovi posti di lavoro. Sarebbe quindi opportuno ribaltare il ragionamento: non dare i soldi come avviene ora perché si è grandi, ma perché si è piccoli e motivati, e dunque capaci di crescere. Nel nostro settore oggi l’occupazione nasce dall’innovazione, dall’autoimprenditoria e dalla micro impresa. Ci sono già tanti esempi in questo settore, ma non mi risulta che vengano sostenuti dalla Regione come vengono aiutate le grandi imprese editoriali. Questa è una vecchia battaglia che fu già combattuta negli anni 70, quando si provò ad approvare una legge in grado di aiutare le cooperative di giornalisti ad essere editori di se stessi. La legge non passò perché favorevoli e contrari si equivalsero, con un consigliere regionale della sinistra che a sorpresa votò con chi difendeva i poteri forti, e fu un voto che i vecchi giornalisti ancora ricordano. Noi lì noi dobbiamo tornare: perché i posti di lavoro del futuro nasceranno da imprese piccole, capaci di avere più professionalità al loro interno, tra cui quella giornalistica. Imprese capaci di stare sul mercato, di non lavorare solo in Sardegna, e che in questo momento di crisi meritano di essere sostenute. Se le sosteniamo, andiamo verso una direzione giusta: se non le sosteniamo secondo me cosa accadrà da qui a poco? Che la Regione indirizzerà le sue risorse solo verso le grandi imprese editoriali che entreranno in crisi. Il problema delle risorse della Regione è dunque centrale: quante sono? A chi vengono destinate? E c’è un modo diverso di destinarle? Perché le campagne pubblicitarie pagate dalla Regione vanno sempre alla testata X, a quella Y e mai a quella Z? Non si capisce. Ecco, prima della Conferenza regionale dell’Informazione c’è bisogno di capire bene tutte queste dinamiche perché sarà un’occasione per discutere di nuovi strumenti normativi in grado di aiutare il nostro settore ad affrontare e superare la crisi. In questo secondo me l’Associazione della Stampa Sarda, incontrando con i suoi iscritti, qualche idea la può anche ricevere. La questione dell’occupazione è centrale, ma non può essere separata da quella dell’innovazione e del mercato. Se vogliamo ragionare su quello che c’è, nei territori è presente una rete di giornali e di testate sulle quali bisogna puntare. Penso ad esempio alla rete dei giornali diocesani e sulla quale si potrebbe fare affidamento per potenziare una offerta che potrebbe portare alla creazione di nuovi posti di lavoro. Quanti potrebbero essere? Due, tre, cinque: sarebbero comunque una base da cui ripartire. Bisogna avere anche uno sguardo un po’ previdente, perché se ci limitiamo ad affrontare le emergenze a salvare il salvabile, non creiamo nulla. Un’altra ipotesi di crescita occupazionale potrebbe essere legata ai siti della Regione Sardegna. Non tutti lo sanno, ma sono oltre cinquanta e sono quasi tutti da anni abbandonati al loro destino. Ebbi già modo di fare questa proposta al presidente Pigliaru diversi anni fa e penso che possa essere rilanciata con l’attale amministrazione. La Regione non ha infatti al suo interno le professionalità per gestire molti di questi siti e sarebbe meglio che li affidasse ad esterni. Ci sarebbe molto lavoro da fare per tanti professionisti dell’informazione e della comunicazione anche perché, ripeto, la stragrande maggioranza di questi siti non è aggiornata da anni. Quindi, e chiudo, dobbiamo parlare pubblicamente di questa crisi, perché altrimenti continuiamo a far finta che non esista, che tutto va bene. Ma se non ne parliamo pubblicamente e non tiriamo fuori dati, corriamo il rischio di riproporre sempre le solite ricette. Invece servono ricette innovative, non solo per cercare di salvare il salvabile ma soprattutto per creare una prospettiva professionale ai giovani che ci daranno il lavoro, perché io non ho la forza a cinquant’anni di fare impresa, forse un ragazzo di trenta la ha, e sarà lui a pagarmi, e non io a pagare lui. Quindi dobbiamo metterli nelle condizioni di fare impresa: impresa editoriale, piccola, ma seria. Dopo di che, io mi auguro che l’Associazione della Stampa Sarda in questo sia stimolo diconfronto, di dibattito, senza remore, e anche chiamando la politica alle sue responsabilità. Secondo me ci sono una serie di motivi che ci hanno portato in tutti questi anni a non celebrare la Conferenza regionale dell’Informazione. Il primo: la politica in Sardegna va avanti per emergenze, quindi finché noi non diventiamo una emergenza noi non esistiamo. Il secondo: non appena i politici aprono il dossier informazione lo richiudono subito, perché si spaventano, perché non hanno idea di cosa stiamo parlando. Ecco perché attivare un processo di confronto e di consultazione è importante. Ci serve paradossalmente a prescindere dalla Conferenza stessa. Potremmo essere noi come categoria ad organizzare un appuntamento in autunno senza aspettare la Regione, sulla base degli elementi che siamo in grado di raccogliere, e trasformarla in iniziativa annuale. Sarebbe interessante che l’Associazione diventasse un osservatorio permanente dell’informazione in Sardegna, e questa è la quarta idea che propongo. Con le forze di cui disponiamo per carità, senza rubare il lavoro alle fondazioni che fanno le analisi serie, vi invito a vedere, l’ho trovato on line, il rapporto sull’informazione del 2008. Da qualche parte dobbiamo partire, se riusciamo a parlarne pubblicamente è già un buon inizio. Grazie.
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