Misoginia, male oscuro [di Maria Antonietta Mongiu]
L’Unione Sarda 21 febbraio 2020. L’intervento. Misoginia:alle radici del male oscuro. Un’altra tragica storia di “carezze di sangue”. “Inadeguata”; “Copriti”; “Parla come un libro stampato”; “Sei nervosa? Perché stasera non esci con qualche tuo amico?”. Espressioni usate da uomini verso donne con ruoli istituzionali non dissimili che di colpo polverizzano tutta la retorica della parità di genere, più nominalistica che reale; di commissioni di parità variamente dosate da appartenenze partitiche; di femminilizzazione di ogni sostantivo. Uomini autorevoli per ruolo quanto autoritari e disconoscitivi nella relazione interpersonale. Davvero queste espressioni non hanno a che fare con i femminicidi? In realtà ne sono parenti strette. Se poi si considera la funzione esemplare di chi è classe dirigente si tratta di cattivi maestri che si attardano nell’infanzia della relazione tra generi, vero terreno di coltura di ogni femminicidio, agito o fantasticato. Si possono anche finanziare centri antiviolenza ma la sostanza del male oscuro non cambia. Riguarda anche le donne, ogni volta che accettano in qualsiasi mestiere, compresa la politica, di essere intermediate soprattutto quando sono del tutto incompetenti per ruoli che le competenze pretendono. Non serve come giustificazione che gli uomini, a prescindere dalle competenze, usino, sempre e comunque, l’intermediazione più del merito. C’è una vasta letteratura, da Gramsci in poi, che tematizza questa connotazione del “dominio” che, tradendo l’essenza stessa dell’essere classe dirigente, surroga la perdita del consenso con la “pura forza coercitiva”; ed allora “si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Ecco perché le parole che la politica usa, sono assai significanti non solo perché l’ecologia linguistica tradisce il tasso di quella mentale ma perché, diventate decisioni, ineriscono nel quotidiano collettivo. Non averne consapevolezza spiega l’attuale stato dell’Italia e della Sardegna e delle donne in particolare, comprese le più consapevoli. Il male oscuro che tutti ghermisce si chiama misoginia, sorella del sessismo e del razzismo. E’ male antichissimo e data dal mestiere definito il più antico. Giù a cascata o meglio come un fiume carsico e vizio capitale, privato e pubblico, precipita fin dentro la modernità, passando per conventi, destra e sinistra, nord e sud, appena scalfito nelle coscienze dalla Costituzione che sulla carta non distingue colore di pelle, luogo di nascita, sesso ma non nella realtà. Perché la misoginia riguarda comunque anche quelli, donne o uomini, che si fanno complici, tacendo, annuendo, sorridendo, facendo di gomito, ogni volta che un uomo stigmatizza una donna per qualsiasi motivo. Sappia ciascuna che si può essere di volta in volta vittima o carnefice perché la misoginia è multiforme e saprofita; esplicita e silenziosa; seduttiva e manesca. E’ interclassista e riguarda illetterate e dottissime. In questa nostra terra, luogo per alcuni del matriarcato, grottesca quanto crudele interfaccia della misoginia patriarcale, una donna come tante è arrivata da lontano piena di speranze con le sue due bambine. Aveva voglia e desiderio di futuro. Come altre si è presa cura dei nostri vecchi che non siamo più in grado di accudire. Non sapeva che era anche la terra in cui una donna tra le tante, Dina Dore di un antico paese contemporaneo, è stata uccisa da un uomo che, come lucidamente racconta in “Carezze di sangue” Maria Francesca Chiappe, le scriveva violente e reificanti parole non diverse da quelle pronunciate da un altro sardo che lei si figurava amore della vita. Il contesto di due uomini che odiano le donne in forme irriducibili e definitive sembra diverso ma è simile nelle pratiche del disconoscimento, figlie di una debolissima comunità educante e della perifericità esistenziale che oltrepassano classi sociali e geografie economiche di appartenenza. Disegnano un mosaico di incompetenze in cui dominano sovrane quelle affettive e relazionali che ci interrogano come comunità regionale. Nessuno può fare finta che non ci sia necessità di una massiccia e diffusa pedagogia della relazione e del riconoscimento. |