Coronavirus: quando l’emergenza sanitaria promuove una nuova cultura della ricerca [di Andrea Meneganzin]

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MicroMega.it 11 marzo 2020. Nella risposta collettiva all’epidemia di COVID-19 si sta assistendo a un fenomeno positivo: gli scienziati di tutto il mondo stanno condividendo in tempo reale dati e informazioni sulle caratteristiche biologiche, epidemiologiche e sulla gestione clinica del nuovo coronavirus. Il livello di comunicazione e di collaborazione internazionale raggiunto per far fronte alla crisi sanitaria e la quantità di pubblicazioni rese liberamente accessibili dai maggiori editori accademici sollevano un interrogativo sulla possibilità che questo modo di intendere la ricerca possa non rimanere un semplice protocollo d’emergenza.

COVID-19: dalla Cina all’Europa. Lunedì 9 marzo il governo italiano ha annunciato un ulteriore inasprimento delle misure per il contenimento e il contrasto dell’epidemia COVID-19 (COronaVIrus Disease-2019) e per allentare le gravi pressioni sui reparti ospedalieri, questa volta valide sull’intero territorio nazionale. Le limitazioni negli spostamenti e nelle attività precedentemente previste per Lombardia e altre 14 province sono state estese all’intera penisola, chiamando così tutta la popolazione italiana a esercitare il proprio senso civico nell’osservare i divieti e le cautele prescritte.

Misure difficili da immaginare nel nostro Paese poco più di due mesi fa, quando la Commissione Sanitaria Municipale della metropoli di Wuhan in Cina ha segnalato all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) una concentrazione anomala di una “polmonite atipica” e altamente contagiosa (31 dicembre 2019). Quello che si è poi scoperto essere un nuovo ceppo di coronavirus, SARS-CoV-2 (Severe Acute Respiratory Syndrome CoronaVirus 2, denominato così per le analogie con i coronavirus responsabili della SARS del 2002), si è presto diffuso ad altre province cinesi, col favore degli spostamenti dovuti ai festeggiamenti del capodanno cinese.

Dalla metà del gennaio 2020 si sono registrati i primi casi fuori dalla Cina, il 24 gennaio vengono accertati casi di contagio in Europa (ma il sospetto oggi è che il virus sia arrivato molto prima nel continente). Ad oggi l’Italia è seconda dopo la Cina per vittime e per numero di contagiati accertati [1], ma in assenza del numero reale dei contagiati (comprensivo di soggetti asintomatici) – il solo in grado di fornire un denominatore a cifre in costante aggiornamento – le dimensioni reali dell’epidemia e il tasso di letalità rimangono ancora in parte sconosciuti.

L’epidemia ha già dimostrato di condividere i ritmi e le velocità di una società globalizzata, con implicazioni che non si limitano al piano della gestione di un’emergenza sanitaria internazionale in tempi stringenti, ma che travolgono la dimensione economica, comunicativa, sociale e culturale di un mondo interconnesso.

Una di queste riguarda l’importante sfida di coordinazione che si sta giocando sul fronte della ricerca scientifica, impegnata in una corsa agli armamenti contro i ritmi di diffusione e di evoluzione del virus. Quello a cui stiamo assistendo è un importante esperimento di comunicazione dei risultati scientifici in tempo reale che, a detta di alcuni, avrebbe catalizzato un livello inedito di collaborazione tra i ricercatori di tutto il mondo[2].

Accelerare la disseminazione dei dati. Le pandemie non aspettano la peer-review. Il processo di “revisione tra pari” – passaggio obbligato di ogni ricercatore che voglia vedere la propria ricerca pubblicata su una rivista scientifica, e che comporta diversi round di revisione e integrazione del manoscritto originale prima della validazione finale da parte dei revisori e dell’editore (i “pari” dell’autore) – richiede diversi mesi, e non di rado si supera l’anno [3]. La revisione paritaria delle pubblicazioni scientifiche è una forma di controllo della qualità dei risultati prodotti e di auto-critica interna alla comunità scientifica, ma è un processo laborioso e dispendioso, anche in termini economici: sulle riviste più prestigiose e selettive “ad accesso libero” (open access) i costi di pubblicazione arrivano a tre zeri.[4]

In presenza di un’emergenza sanitaria, la comunicazione e la collaborazione tra i ricercatori non può permettersi di seguire il “business as usual”, con gruppi di ricerca che custodiscono per sé importanti dati di rilevanza pubblica in attesa che vengano pubblicati ufficialmente su una rivista ad alto fattore d’impatto, dopo i tempi flemmatici di una revisione tra pari, e nel timore che una condivisione precoce acceleri il lavoro di gruppi concorrenti.

Nel 2018 l’epidemiologo di Harvard Marc Lipstich (T.H. Chan School of Public Health) ha osservato come i preprint (letteralmente, le “prestampe”), articoli scientifici in attesa degli esiti di una revisione paritaria formale che vengono caricati su apposite piattaforme, abbiano fornito un modello di pubblicazione che ha accelerato la disseminazione dei dati durante le epidemie di Zika (2015-16) e di Ebola in Africa occidentale (2014-16) [5].

Questi preprint, che contenevano nuove analisi e nuovi dati, erano stati resi disponibili oltre 100 giorni prima della loro pubblicazione da parte di una rivista scientifica. Nonostante il loro incremento e gli evidenti vantaggi per l’accelerazione delle misure preventive e di contenimento, la pubblicazione di preprint non superava il 5% del volume totale di pubblicazioni su Zika e Ebola.

L’attuale comunicazione dei dati relativi a COVID-19 sembra aver definitivamente superato questa reticenza. Solo a fine febbraio su piattaforme di preprint si contavano oltre 280 articoli, a fronte di circa 260 paper revisionati e pubblicati su riviste.[6] Ora i numeri sono cresciuti ulteriormente. BioRxiv [7] e medRxiv [8], due dei maggiori server preprint per la biologia e la biomedicina, ricevono quotidianamente decine di articoli dedicati a vari aspetti di SARS-CoV-2.

Una valanga di informazioni che costringe lo staff scientifico a ore di straordinari per vagliare ogni giorno le numerose proposte (non si tratta, come si è detto, di una peer review¸ ma di una scrematura basilare per individuare eventuali contributi pseudoscientifici o articoli d’opinione). E il processo, nell’infodemia generale che colpisce anche la ricerca, non è immune da errori.

Un recente articolo pubblicato su bioRxiv individuava “sconcertanti” somiglianze tra SARS-CoV-2 e HIV [9], suggerendo che il virus potesse esser frutto di manipolazione genetica volta a creare un’arma biologica: la reazione della comunità scientifica non si è fatta attendere, e la mole di commenti critici ricevuti nell’arco di 48 ore ne ha subito determinato il ritiro.

Tuttavia, nella consapevolezza di un’ineliminabile tensione tra velocità e rigore, i benefici di una scienza rapida e largamente accessibile sembrano di gran lunga superare i possibili rischi. Anche le riviste accademiche peer-review sembrano sposare questa filosofia. Dal 31 gennaio 100 riviste e istituzioni scientifiche [10] firmatarie del Wellcome Trust statement (incluso il colosso olandese Elsevier) hanno deciso di attivare diversi protocolli di emergenza e di collaborare per rendere immediatamente a libero accesso tutte le pubblicazioni relative a COVID-19, impegnandosi a condividere con l’OMS tutte le informazioni rilevanti, concedendo la pubblicazione preliminare degli articoli sottomessi su server preprint, e favorendo la pubblicazione di risultati parziali e ad interim.

Lo sforzo collettivo di sequenziamento (la trascrizione dell’ordine delle basi che compongono il filamento di RNA del virus) e di rapida pubblicazione dei genomi dei diversi ceppi isolati è un ulteriore esempio di questo nuovo modo di intendere la ricerca. Il sequenziamento da più individui è fondamentale per conoscere le caratteristiche del virus, per perfezionare i metodi diagnostici, per verificare l’insorgenza di mutazioni nel tempo e per la possibilità di mettere a punto un vaccino. Sulla piattaforma open access GISAID (Global Initiative on Sharing Avian Influenza Data), da dicembre 2019 a marzo 2020, sono stati pubblicati oltre 242 genomi, che hanno reso possibili analisi filogenetiche in grado di stabilire il grado di parentela e le affinità tra i vari genomi.[11]

La battaglia dell’open source e il diritto alla trasparenza. Il giro di boa a cui si sta assistendo oggi nella comunità scientifica internazionale è inedito per ritmi e dimensioni, complice anche l’effetto di amplificazione fornito dalla discussione e dalla diffusione delle ricerche sui social media da parte dei ricercatori stessi, ma ha degli importanti antecedenti.

Il dibattito internazionale sui piani pre-pandemici è definitivamente cambiato a partire dal 2006, con la decisione della virologa italiana Ilaria Capua di depositare la sequenza genetica del primo ceppo africano di influenza aviaria H5N1 in GenBank (una banca dati ad accesso libero come GISAID, consorzio che peraltro la stessa Capua ha contribuito a creare [12]), contravvenendo alle indicazioni ricevute dall’OMS che l’aveva invitata a depositare la sequenza in una banca dati ad accesso limitato.[13]

La scelta di Ilaria Capua, oggi direttrice dell’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, riscosse enorme popolarità sulla stampa mondiale, stimolando il dibattito sulla necessità (soprattutto in presenza di un’emergenza) di rendere liberamente disponibili le informazioni e i dati scientifici di interesse pubblico e di favorire la condivisione e la circolazione di conoscenze.

Un dovere che gli operatori della sanità pubblica, finanziati con denaro pubblico, avrebbero dovuto sentire come impellente. Ed è così che con la successiva influenza suina del 2009 (causata da una variante del virus H1N1), la ricerca internazionale ha potuto beneficiare di diverse banche dati ad accesso libero e di un radicale cambiamento nella politica delle organizzazioni sanitarie mondiale in materia di trasparenza di dati.

Oggi l’emergenza COVID-19 ha riportato i riflettori sulle modalità di pubblicazione e di accesso alla letteratura scientifica e fornisce un contesto ideale per ripensare i modelli di pubblicazione basati sul profitto. La transizione a una scienza completamente libera è ancora lontana dall’essere compiuta. L’abbattimento dei sistemi paywall (l’accesso ai contenuti scientifici previa sottoscrizione di un abbonamento) garantito dagli editori accademici in queste ultime settimane è ancora una misura temporanea: si calcola che oggi, a 16 anni dalla fondazione del movimento Open access, solo il 27-28% di tutti gli articoli scientifici pubblicati su riviste sia ad accesso libero [14], a fronte di un 72% accessibile solo su pagamento.

Si discute molto della realizzabilità del cosiddetto “Piano S”, sottoscritto nel settembre 2018 da 11 organizzazioni scientifiche europee e dal Consiglio europeo della Ricerca (ERC)[15], che si propone di rendere ad accesso libero tutte le ricerche finanziate da enti pubblici europei a partire dal 2021, chiedendo anche agli editori accademici maggiore trasparenza sui costi di pubblicazione e il loro impiego (che andranno sostenuti, ove applicabile, dai finanziatori e dagli istituti di ricerca).

I benefici dell’intensificazione della comunicazione e della cooperazione nella ricerca a fronte dell’emergenza COVID-19 sono sotto gli occhi di tutti. La crisi sanitaria di oggi può potenzialmente fornire un “dente d’arresto” nel dibattito sulla condivisione della conoscenza scientifica: da qui non si può tornare indietro. Il paradigma dell’apertura e della condivisione non interessa solo i membri della comunità scientifica, ma ha effetti importanti anche sulla cittadinanza, attraverso la comunicazione scientifica.

Stiamo tutti assistendo a come diverse modalità di comunicazione scientifica influenzino diversamente le scelte individuali, rendendo impellente un ragionamento su come comunicare in maniera rigorosa dati e informazioni in continuo aggiornamento, e caratterizzati da un grado ineliminabile di incertezza e provvisorietà.

Ma una scienza aperta, condivisa e trasparente non è una scienza priva di limiti. Per quanto riguarda la comunità scientifica, la ricettività verso nuovi dati e studi non deve trasformarsi in una gara narcisistica e deleteria volta a rincorrere conclusioni che facciano rumore (forzate metodologicamente o basate su dati esili o incompleti, come già se ne sono viste) o a battere sul tempo di pubblicazione gruppi di ricerca concorrenti.

Il rischio è concreto: per questo è importante che la comunità scientifica rimanga vigile e puntuale nei suoi processi di auto-verifica, anche all’interno di spazi non istituzionali come i social forum, dove spesso i risultati vengono sviscerati, e nei tempi dettati dall’emergenza.

Allo stesso modo, la comunità di coloro che si occupano professionalmente di comunicazione della scienza ha la responsabilità di far sì che eventuali errori o contributi fuorvianti (che fortunatamente vengono spesso ritirati in breve tempo) non arrivino subito in fondo alla catena di comunicazione, con fenomeni di amplificazione difficili da far rientrare una volta innescati, e che contribuiscono all’ipertrofia informativa che confonde il pubblico.

Per questo, nel parlare di una scienza accessibile e condivisa, è imperativo un richiamo ad una responsabilità collettiva trasversale nella produzione, nell’utilizzo e nella diffusione di informazione, che interessi sia gli scienziati che i cittadini.

NOTE

[1] https://www.arcgis.com/apps/opsdashboard…

[2] https://www.sciencemag.org/news/2020/02/…

[3] https://www.nature.com/news/does-it-take…

[4] Qui l’esempio di eLife, una nota rivista di scienze della vita e biomedicina: https://elifesciences.org/inside-elife/a058ec77/what-it-costs-to-publish

[5] https://journals.plos.org/plosmedicine/a…

[6] https://www.sciencemag.org/news/2020/02/…

[7] https://www.biorxiv.org/

[8] https://www.medrxiv.org/

[9] https://www.biorxiv.org/content/10.1101/…

[10] https://wellcome.ac.uk/press-release/sha…

[11] https://www.gisaid.org/epiflu-applicatio…

[12] https://www.nature.com/articles/442981a

[13] https://www.lescienze.it/news/2016/04/02…

[14] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/article…

[15] https://www.coalition-s.org/

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