Epidemie nell’arte in Italia – Napoli [di Stefano Causa]
https://www.ilgiornaledellarte.com17 marzo 2020. Per quello «spettacolo» particolare si confrontarono ai massimi livelli tre geni di metà Seicento: Mattia Preti, Micco Spadaro e Luca Giordano. Il coronavirus è come la nebbia di Totò: c’è ma non si vede. Eppure nessuna epidemia aveva goduto sin qui di un tale rendimento iconografico, di un simile surplus visuale. Quando usciremo tutti da questo tempo sospeso, lasciandoci alle spalle settimane di lutti e tensioni che hanno letteralmente capovolto gli assetti mentali e geografici del Paese (a Bergamo si muore, a Reggio Calabria molto meno), non sarebbe male che negli atenei di fresca riapertura docenti e allievi dialogassero sul modo in cui ci sono state restituite, creativamente, forme e immagini dell’emergenza. La peste è un formidabile pretesto letterario come insegnano Tucidide o Camus. E lo sapeva bene, naturalmente, il milanesissimo Manzoni, storico dell’arte di riflesso, che aveva ripassato le scene e le invenzioni dei «quadroni» lombardi e piemontesi trasformando la vigna di Renzo nella più bella natura morta italiana dell’Ottocento. Ma sono stati i pittori e gli incisori a raccontarci la peste dal di dentro, scendendo «con la telecamera in spalla» tra cadaveri e becchini. Pensiamo ai cantastorie della peste che sconvolse i fragili equilibri napoletani dopo la metà del Seicento: nei domini spagnoli la Morte è uno spettacolo da inscenare tutte le volte. Tutto sta a vedere come: se in grande o in formato domestico. A un impareggiabile maestro di stile come Ribera, lo spagnolo trasferitosi a Napoli neanche trentenne, la pittura murale non sarà mai congeniale. Con l’eccezione di Bernardo Cavallino, i napoletani del Seicento praticano metriche ampie, pale d’altare e quadri da cabinet. Quanto a Luca Giordano, frequentò tutti i generi, ma non fu un pittore di storia. Per lo meno non allo stesso modo di Micco Spadaro che si rivela, a beneficio di noi moderni, cronista locale di significato universale. Giordano è l’artefice plurale per antonomasia, ma gli manca del tutto quel «sentimento drammatico della vita collettiva» che Rosario Villari, prima e meglio di noi storici dell’arte, ha saputo cogliere nella pittura di Spadaro. Basta vedere come i due, Giordano e Spadaro, reagiscano alle esplosioni di violenza e agli sbocchi di sangue di quotidiana frequenza nella Napoli seicentesca, qualche volta di entità straordinaria. La peste ebbe portata tragica ma, per gli artisti sopravvissuti, fu un serbatoio inesauribile di spunti. A costo di apparire cinici val la pena di ricordare che guerre, carestie, assedi e appartengono a pieno titolo alla storia dell’arte. A Napoli i quadri legati a quello «spettacolo» particolare, scissi tra realismo, pietà e devozione, scorrono lungo una corsia preferenziale dove si confrontano ai massimi livelli tre geni di metà secolo: Mattia Preti, Micco Spadaro e Luca Giordano. Ma nella Napoli di metà Seicento il Trionfo della Morte fu celebrato diversamente da come fu onorato nelle pesti veneziane del 1575 e del 1630, o da come accadrà a Marsiglia nel 1720. Figurativamente parlando, qui i giorni del contagio coincidono con il decollo di Giordano e tutto lascia credere che, prima o dopo Preti, Spadaro figurasse tra i suoi interlocutori privilegiati. Però attenzione. Nonostante la buona volontà degli studi recenti Micco non è mai diventato noto al pari, poniamo, di un Cavallino che talvolta rischia di inciampare nella sua stessa bravura; in ogni caso, è rimasto sempre al di sotto della stima che meriterebbe come uno dei primi attori della scena locale. Oltre ai cicli ad affresco nella Certosa di San Martino, che contengono fondali tra più ariosi dell’arte europea tali da «laurearlo» con un secolo e mezzo d’anticipo a primo esponente della Scuola di Posillipo, a Micco spetta un pugno di scenette di tema civile e politico ambientate nella cinta urbana, dove non era prudente avventurarsi senza scorta. Una città ignota e letale che oscilla tra Boccaccio e Roberto Saviano che nessuno ha saputo raccontare meglio di questo pittore, figlio di un fabbricatore di spade. |