Dal virus una lezione. La natura si riprende la storia [di Marcello Fois]

peste_martellucci@sn2020

La Nuova Sardegna 18 marzo 2020. Siamo nella Natura e nella Storia. Ma la Storia e la Natura sanno ragionare per paradossi. Pensate al cielo sopra Pechino che, come dimostrano le immagini satellitari, non è stato così limpido da decenni. Pensate alla Pianura Padana che appare dai campanili come non si vedeva dall’immediato dopoguerra.

E in quest’epoca di Coronavirus, come fossimo ad Atene nel 430 a.C., o a Firenze nel 1348, o a Milano nel 1630, pensate alla incredibile sospesa, e sinistra, pace delle nostre città, congelate dalla quarantena. Che sono zone di guerra dove, come ad Atene, Firenze, Milano, si combatte una battaglia furiosa contro un nemico di cui si conosce poco o niente, con lo stesso museificato silenzio. Quasi che questo morbo sia stato generato per ribadire fino a che punto la Storia pretenda una memoria costante. Solo società ignoranti, che, etimologicamente, non sanno, possono illudersi di permanere nel delirio d’onnipotenza.

C’è Tucidide, c’e il Decamerone, c’e I Promessi Sposi. Perché la letteratura non è mai “lettera morta”, ma un apparato, incredibilmente pratico, e socialmente utile, di esperienze già vissute. Secondo un’antica leggenda la Natura è come un grosso cane, una bestia pelosa e mansueta, che periodicamente deve scuotersi, o grattarsi, per scrollarsi di dosso parassiti importuni. Ora pare che ci siamo: pare che siamo arrivati a quel punto di non ritorno della nostra Storia in cui la Natura ci obbliga, con scossoni e zampate, a un ridimensionamento.

Ma magari il punto è capire fino a dove arrivi la nostra capacità di concepire un altro sistema. Liberarci dall’idea che si stia bene solo se circondati da nemici per esempio. A tal punto che quando non ci sono, quando non ci sarebbero, bisogna inventarseli. Proprio come succede in Dalla Terra alla Luna di Jules Verne quando i guerrafondai del Guns Club legati alle industrie belliche, preoccupate dalla pace troppo prolungata, propagandano gli abitanti della luna come ostili e quindi da sconfiggere e sottomettere.

Costruire nemici, farli in carne ed ossa, mostrare come tali, è un sistema assai antico e testato da fiumi d’inchiostro. Meridionali, extracomunitari, gay, donne, buonisti, intellettuali, radicalchic, profughi, ONG, sono l’ultima lista di quelli che hanno definito per noi, cioè al nostro posto, “virus della società”. Il nostro consenso gliel’ha lasciato fare: non il mio, non il tuo, non il suo. Il nostro, perché “nostro” è un termine che non lascia scampo e determina la necessità di convivere. Uno, nessuno, centomila avrebbe detto Pirandello.

Oggi siamo costretti a vivere a un metro di distanza l’uno dall’altro da un virus reale e violento, ma non è una novità, siamo una società separata da tempo, anzi questo virus terribile è l’immagine vera di ciò che siamo diventati: distanti, incapaci di solidarietà.

Oggi che non possiamo avvicinarci a meno di un metro e mezzo, vorremmo abbracciarci tutti; oggi che le scuole sono chiuse decantiamo l’utilità dell’istruzione diffusa (tacciono i laureati all’Università della Vita); oggi che tutti, a costo del collasso del sistema, hanno diritto a cure gratuite, ci rendiamo conto di quanto conti sostenere una sanità pubblica, diffusa (tacciono i sostenitori della Sanità privata); oggi che il morbo impazza tutti siamo lì ad aspettare un antidoto (tacciono i NoVax); oggi che i locali sono serrati ci rendiamo conto di quanto superficiale fosse la nostra socialità: ammassati ma incapaci di guardarci, come in Cecità di José Saramago.; oggi che dovremmo stare a casa, abbiamo paura di noi stessi, del pensiero, dei nostri figli, dei nostri partner, di un libro.

E invece nei libri c’è tutto: persino la fuga da Milano, a migliaia, dei signorotti che aggirando le Grida, raggiungono le seconde case, quelle della villeggiatura, trascinando con se i propri beni, ma anche il pericolo del contagio. Nella nostra isola se ne sono contati undicimila: l’aveva già scritto Manzoni.

E’ un virus terribile quello che ci ha colto in questa stagione, ma è anche un virus che potrebbe liberarci dal tremendo, silente, inumano virus da cui proveniamo. Eravamo i padroni del mondo e oggi siamo gli untori, i nuovi extracomunitari, i nuovi meridionali, i nuovi reietti. Ora, quando tutto sarà finito, non c’è da aspettarsi una conversione di massa, ma bastano pochi a ricordare. Come si racconta in Fharenheit 451.

A differenza di quanto si creda sono sempre pochissimi a prendersi la responsabilità di mantenere accesa la fiammella della memoria, soprattutto quando la Storia e la Natura agiscono con un tale, sottilissimo, sarcasmo.

4 Comments

  1. P.Nicola Simeone

    Quante cose da ripensare, alcune da buttare altre da inventare perché il dopo non sia come prima.
    Perché meglio di prima non ci basta, non può bastarci.

  2. Daniele Tatti

    Un’ottima considerazione della nostra società passata, attuale e futura. Sperando che questa emergenza ci faccia capire che la nostra società nonsi può e non si deve basare sul consumismo e sul risparmio, ma si deve concentrare sulla sostenibilità delle scelte

  3. Barbara

    Da tragedie epocali l’uomo si è sempre risollevato in un modo o nell’altro. Stiamo scrivendo una nuova pagina della storia e questo ci spaventa perché non sappiamo cosa succederà domani. Nulla sarà più come prima, eppure questo non deve spaventarci ma stimolarci ad adattarci e a trovare nuovi spunti e nuove modalità per ricominciare mettendo perché no, in discussione un sistema di vita che forse ci stava portando all’autodistruzione.

  4. umberto cocco

    da Doppiozero.it:

    Sono pochi quelli bravi

    Che sanno subito reagire al presente

    Avendo cose da dire su questa pandemia

    pochi

    BASICAMENTE UNO PIU DI TUTTI

    Zerocalcare

    Solo lui

    Per lui rispetto e gioia

    Quasi felicità nel marasma di sensazioni sconosciute che mi galleggiano addosso e dentro in questo momento

    La chiara abbondanza di acutezza stratificata causa un piacere specifico, che è stato poco indagato

    Gli altri, ahimè anche i più buoni, per me se evitavano di avere subito qualcosa da dire

    e non dicevano

    Era così tanto meglio

    Io sul presente, niente

    In generale

    L’ho sempre detestato il presente

    Figuriamoci poi questo qui che ci tocca

    Ma anche qualsiasi altro qui

    lo stare qui

    In un qualunque qui

    un qualunque ora, adesso, attimo, momento, istante

    Stare Qui e non altrove

    In questo indirizzo

    Queste coordinate cartesiane che sono questo e nient’altro

    Solo questo…

    Che poca cosa

    Il presente per me acquisisce dignità solo appena diventa passato

    su

    Dammi un passato da reinventare

    Un futuro da immaginare

    Ma il presente si subisce e basta

    Sempre

    bello o brutto che sia

    Il presente ti passivizza

    Ti rende preda

    E da lì, dal luogo della non fantasia

    beh

    Oddio che noia

    Che sonnolenza

    Che abbiocco

    Che maledizione

    Ma quelli che mi urtano di più sono quelli che ci faranno i pezzi

    Le scene, e le scenette

    Magari una trilogia

    Quelli che faranno una riscrittura de La Peste in una settimanella

    (dicendo che l’hanno tradotta dal greco antico di proprio pugno, e già lì… qualche sospetto no?)

    Che pare che Camus, poverello, non l’abbia scritto bene di suo, eh no

    Camus scriveva così così,

    si sa

    per questo TU, chiunque tu sia anonimo copione privo di idee, lo devi rovinare

    Eh?

    Alla fine il perché tu lo faccia, non me lo chiedo, lo so: sei mediocre,

    ma perché te lo producano e te lo facciano fare.?

    …lì…, boh: …o mi do la stessa risposta o non so che dire

    Disprezzo poi profondamente quelli che già adesso, e poi

    stanotte e domattina

    stanno scrivendo il libro

    I libri

    Che usciranno domani, al massimo la settimana prossima

    Sulla cosa questa che sta accadendo e che ci travolge un po’ inebetiti giustamente

    Perché ci stanno, come no, quelli che credono di sapere già, ora, dal presente del presente

    presente che in sé è esorbitante, per questo per me inintelligibile

    cosa dire

    in generale fregnacce

    e da lì, da queste celie, fandonie, cose di poco conto snocciolate al volo

    ecco che altri di quelli così giù che coordinano, budgettano e smanettano a sei mani

    ed ecco che tra venti giorni esce

    La serie.

    O peggio: le serie

    dove faranno vedere prima di tutto la vita nelle “città vuote”

    (se andando a fare la spesa becco uno che filma la mia strada deserta lo picchio)

    E poi peggio,

    molto peggio

    la lallazione del momento:

    l’arte, la poesia, l’amore, il the, la nascita, il coito, o la cacca “al tempo del coronavirus”

    Ora, cercando di rimanere calmi

    Chiunque associ queste due parole in un’opera, anche un’immagine,

    per i prossimi 10 anni

    dovrebbe essere insultato, lui / lei / loro, espulso dalla città e dalla rete e dal reale, e bruciato, l’opera, non lui / lei / loro

    che pena, che nausea tutto questo sciacallaggio

    E chiunque dia un mezzo premio,

    un mezzo sospetto di aiuto alla creazione,

    una mezza pagnottella col salame

    a uno/una che scriva o peggio, molto peggio,

    metta in scena una cosa su questo fatto che ci accade

    suggerisco venga defenestrato

    Può sembrare radicale, ma non lo è

    È giusto.

    Una finestra, in questi casi, può molto.

    E chi può

    Deve aiutare.

    Un po’ radicale, lo ammetto

    Deve essere che sono 10 giorni che nessuno mi citofona.

    Lucia Calamaro 16 marzo, Roma

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