La scomparsa di Alberto Arbasino [di Franco Masala]
Bologna. Teatro Comunale 1967. Carmen di Georges Bizet. Don Josè è Batman; Escamillo è una sorta di SuperMan con tanto di E sulla T-shirt; Micaela indossa un impermeabile, gli occhiali e la borsetta. Ovunque, nei costumi, pois ingranditi a ricordo della “specialità” spagnola. A dissacrare il tutto, con il patrocinio di Roland Barthes, la pittrice Giosetta Fioroni – che utilizzava per i costumi panno, gomma piuma, plastica, metallo – con Alberto Arbasino e Vittorio Gregotti che hanno avuto la ventura di morire a pochi giorni di distanza. È sicuramente il più grande insuccesso del letterato di Voghera (come le sue “casalinghe”) tanto più perché la sua regia fu condotta su cantanti ben lontani dal physique du rôle cui siamo abituati oggi. Oggi, forse, sarebbe normale amministrazione ma allora fu uno scandalo annunciato anche perché, non a caso, Arbasino (1930-2020) faceva parte del Gruppo ’63, neoavanguardia che raccoglieva nomi come quelli di Balestrini, Guglielmi, Sanguineti, Eco, tutto rivolto a mettere in discussione i modelli tradizionali della cultura letteraria di allora. La sua bibliografia è immensa e racchiude testi come L’Anonimo Lombardo (1959), romanzo epistolare con note zeppe di riferimenti all’opera lirica, amore dichiarato fin dagli esordi, o Un Paese senza (1980) che attaccava la pochezza culturale, politica e artistica dell’Italia di quegli anni. E sovviene immediatamente il suo celebre invito a effettuare una “gita a Chiasso” tesa a sprovincializzare molti degli intellettuali nostrani e a rimediare ai ritardi culturali, guardando anche in casa altrui. Maestro nell’uso della parola, eccelleva negli elenchi, nelle compilazioni e divagazioni, che riportava poi tutti all’interno di una prosa brillante, sperimentata sia nei suoi scritti sia nelle pagine de La Repubblica per tanti anni. Estimatore di Carlo Emilio Gadda, gli dedicò molti saggi e il libro L’ingegnere in blu che gli valse il premio Pen-Club nel 2008, anno in cui uscì anche La vita bassa, pamplhet politicamente scorretto che citava la moda sciagurata di mostrare le mutande sotto i jeans come metafora di un degrado che colpiva tutto il Paese nei suoi diversi strati sociali. Insomma, un intellettuale a tutto campo, dotato di una cultura sterminata che spaziava dalla musica all’arte al cinema, utilizzata sempre a proposito, a cominciare dai resoconti di spettacoli divenuti cult memorabili. *Teatro Comunale di Bologna © |