Dall’alluvione nel Polesine al terremoto che devastò L’Aquila. Guardare al passato può aiutarci a superare l’ultimo disastro [di Domenico Quirico]

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La Stampa 30 marzo2020.  Coraggio, eroismo? Non so. Bisogna sorvegliarsi. Parole troppo gonfie e spesso guaste. Forse è più giusto, umile e onorabile chiamarla pazienza, che è una forza ancora più grande, cara e tremenda, misteriosa come lo stesso volto della vita. Ha insegnato agli italiani a non fuggire dopo i disastri, a resistere anche se il pericolo quando viene dalla natura è più feroce di quello che portano gli uomini.

Ha insegnato dopo terremoti, alluvioni, pandemie a restar saldi sull’argine, che un filo sottile divide la disperazione dalla speranza e solo a loro, agli uomini, è dato stringerlo e non lasciarlo fuggire. È la pazienza l’unica ricchezza dei popoli poveri come il nostro, che vanno senza sapere e senza domandare, da sempre, che tanto corrono perché spesso hanno troppo poco da fare prigionieri di piccole occupazioni e di gigantesche disoccupazioni.

Che si aspettano poco o nulla da chi comanda, qualunque sia la sua formula e il suo colore. Perché l’unica cosa che conta, sì, irresistibile e salda, è sempre quella pazienza. La forza morale che ha l’aria di cimentarsi al fracasso delle catastrofi e che c’è se solo si vuole mobilitarla. Forse è vero: i popoli non muoiono. Son trenta giorni che l’onda di piena delle parole, virus contagio quarantena disastro economico annunciato e inevitabile, ci arriva al collo, è stato gridato tutto quello che avesse un senso e un sentimento; ma anche quello che è solo schiamazzo. Si sta appesi alle cifre come le foglie al picciolo.

È il momento allora di ripercorrere dal 1945 a oggi questa storia purtroppo fitta di disastri, che forma un’Italia parallela a quella dei miracoli economici precotti, dei boom sbilenchi, delle pianificazioni fertilizzate da aruspici dell’economia; e all’Italia da rivista del Touring. Parti lontane e abbandonate da di cui solo in questi casi tragici ci giunge il rumore.

L’hanno scritta, questa Storia, i cittadini e non le seccagne delle Gerarchie. Già. L’affidarsi allo Stato non lo trovi quasi mai, semmai la consapevolezza che è una causa perduta e che per la burocrazia e la politica le sciagure sono un immenso, e quasi mai fatale, disturbo. Ribandendo che la vita, qui, è pianta dura, forte, che si abbarbica subito anche alle più tristi rovine. Nel raccontare un’altra epidemia Manzoni l’avrebbe chiamata fiducia in dio. Per noi, rassegnati a una più cauta laicità, solo volontà di resistere credere e sperare, afferrati, con le mani e con i denti, a quel filo.

A ripercorrerli quei disastri, i particolari precisi, nel ricordo, non contano. Ma il colore del tempo, la stagione della storia, quelli sì contano. L’alluvione del Polesine, il 1951, anni decisivi nel senso morale, soprattutto per la generazione dei giovani del dopoguerra, a cui si prospettava il maturare nel mondo nuovo o infrangersi e corrompersi. Bisogna riguardare i cinegiornali, la televisione non c’era. Polesine: una terra contadina, la storia di uno sforzo secolare per domare il fiume, utilizzarlo e difendersene, mille volte rifatta e che ora non esisteva più, tornata laguna, deserto di acque.

Era un’Italia in miseria, quella: alla moltitudine di viluppi di stracci fradici e infangati, a uomini simile a cose, distribuirono per alcuni giorni una razione fatta di tre fichi secchi e due biscotti a persona. A Roma, dirigeva Scelba quello della «celere», si annunciavano 10 mila lire a profugo e comitati in ogni comune formati da sindaco, parroco, maresciallo dei carabinieri e un «probo cittadino» per evitare «illeciti arricchimenti».

Modesta anticipazione di Eurobond e miracolistiche provvidenze. Nel Polesine la gente restava, tenace, sugli argini ancora intatti, uncinava all’onda rovinosa sterpi che saranno, asciutti, fascine buone per il domani. Sapeva che la vita «nel mar delle acque» è sempre sospesa, fatta di difese, canali, scoli. A chi passava per andare verso le terre asciutte porgeva lettere per i parenti su cui al francobollo avevano sostituito la scritta Adria o Occhiobello «zona alluvionata ».

Il 1962: il boom cominciava con le utilitarie e il frigorifero e il Sud che si spostava al Nord, a grappoli, per lavorare. In Irpinia «zona sismica di prima categoria» paesi interi eretti con i sassi del fiume Calore e il fango delle sue sponde si frantumarono alla prima scossa. Ci son tornato da poco. Molti centri crollati sono sempre lì, nelle viuzze in salita i passi rimbombano come sotto le arcate di un cimitero, edifici rosi dai tarli, sembra che basti un soffio di vento per farli crollare. Ma i paesi nuovi li hanno costruiti accanto, e nella pianura ci sono fabbriche, si organizzano festival musicali e di libri.

C’è il pudore contadino, la consapevolezza di una sventura collettiva di fronte a cui la propria storia personale scompare. Il novembre del 1966, altri giorni del fango, un’altra ribellione della natura. A Firenze tutto iniziò al mattino presto, quando le acque dell’Arno scavalcavano i parapetti, scivolarono nelle strade e la pioggia scura, raccontano, sembrava persino rallentare il sorgere del giorno. Crollavano sotto l’urto i parapetti al ponte alle Grazie, l’acqua raggiungeva gli Uffizi, rovesciava auto, fango, tronchi contro i fianchi del Battistero e staccava a furia, le formelle d’oro dalle porte del Ghiberti.

I giornali titolavano di città sepolta e di «tempi che non toneranno più». Come oggi. E invece appena la pioggia si placò sul disastro un esercito di formiche, fiorentini e ragazzi arrivati da ogni luogo, alzarono il chiasso dei soccorsi, frugarono nella melma, purificarono i fondaci, assalirono il lurido pelo di nafta e di sterco che soffocava le bugnature. Senza aspettare, neppure un attimo, aiuti governativi o municipali. Anzi: mossi dalla volontà di sfidare gli spiriti fiacchi della burocrazia. E Seveso nel 1976? Direte che lì la natura non c’entra.

Con la diossina che ti entra i casa, la sconcezza di un dramma che è stavolta colpa degli uomini; ma dove si ritrovano tanti elementi dell’oggi, incertezza della scienza, garbuglio di poteri coinvolti, stasi rinvii, i ghetti delle zone rosse e la gente che non comprava più i mobili perché pensava che dentro ci fosse impastata la diossina. Dall’altra parte quelle facce di brianzoli tutto un lavorare, le creature sanissime di Seveso, su cui annaspa la fierezza degli animi che è molto di più, solidità del fasciame comunitario e vincolo di uomini decisi a liberarsi dalla sventura.

Su tutti, a compendio anche di quelli che vennero prima e dopo, il Vajont, Gibellina, l’Aquila, le Marche, il Piemonte dell’alluvione, il Friuli. La grande avventura dei soccorsi e della solidarietà, ma soprattutto la forza di tirar su da soli le rovine del terremoto, i campanili capovolti. Niente e nessuno è riuscito a distanza di tanti anni e ne son passati più di quaranta, a impallidirla quella forza, come altre volte è avvenuto con storie di tangentismi e ruberie. Restano la fatica la dedizione il coraggio il sudore in quelle regione ridotta a ghiaia, la pazienza si chiama così quando lo è.

 

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