New York, metropoli “a distanza ravvicinata”. Addio al sociologo camminatore William Helmreich [di Giulia d’Agnolo Vallan]

sociologo

il manifesto 7 aprile 2020. II «New York è il museo all’aperto più grande del mondo, fatto di gente che arriva da oltre centocinquanta nazioni diverse. Ma la cosa interessante è che quelli che ci abitano hanno la sensazione di vivere in un villaggio e, allo stesso tempo, sono parte di una magnifica grande città». New York è nelle mente di molti in questi giorni.

Pochi lo conoscevano bene come il sociologo William  Helmreich, professore alla City University e autore di una della mappe più affascinanti della città, The New York Nobody Knows (2013), un libro nato da quatto anni dedicati all’esplorazione capillare della metropoli più grande d’America, isolato per isolato (sono centoventimila), per un totale di circa seimila miglia camminate «al mattino, alla sera, durante i week end; sotto la pioggia, nelle neve, d’estate».

Costruito sulla base di incontri casuali e conversazioni improvvisate con persone di ogni estrazione sociale e culturale, lo studio topografico e antropologico di Helmreich è l’esatto opposto del social distancing a cui ci sta costringendo il Covid-19, il virus che lo ha ucciso la settimana scorsa, all’età di settantaquattro anni.

Nato a Zurigo, in una famiglia di ebrei polacchi in fuga dal nazismo, Helmreich «camminava» New York da quando aveva nove anni, e suo padre, curioso della città in cui erano venuti a stabilirsi dalla Svizzera, gliela faceva conoscere salendo sui treni di una linea della metropolitana qualsiasi e poi visitando – fermata per fermata, a partire dal capolinea – i quartieri attraversati da quella linea. Colori neutri (per evitare di attrarre troppo l’attenzione, e non interferire con i codici cromatici delle gang), scarpe Rockport e un sorriso affabile sul volto abbronzato, erano la sua divisa – il carburante la curiosità inesauribile.

Il suo, infatti, non è un ritratto monumentale della città ma una miniatura, intrisa di scoperte: a Bensonhurst, di Steve’s Playground, un garage delle meraviglie pieno di giocattoli, macchinari e souvenir della pop cultura del quartiere negli anni in cui il proprietario era bambino; a Gowanus, la vetrina della drogheria italiana mantenuta «in memoriam» dai discendenti dei fondatori – anche se dietro a quella vetrina, unica in un isolato oggi tutto residenziale, il negozio non c’è più.

Tra i suoi luoghi favoriti c’era il Bronx: era per lui troppo negativamente soggetto aglistereotipi: da anni, ne auspicava una rinascita. Proprio lì, dove, nel Bronx River Park, c’è «la cascata più bella di New York»; dove, nel quartiere di Harding Park, aveva scoperto «un villaggio di pescatori portoricani»; e dove da Crosby Stop Pizza, al capolinea della linea 6 della metropolitana, nel quartiere di Pelham Bay, vendono quella che secondo il sociologo era la pizza migliore di tutta la città.

In un’intervista al settimanale New Yorker, in occasione dell’uscita del libro, Helmreich aveva risposto così al giornalista che gli chiedeva come si comportava quando attraversava quartieri considerati pericolosi: «Se viene verso di me un tipo dall’aspetto minaccioso, non mi preparo al combattimento. Anzi, l’opposto. Lo guardo diritto negli occhi e lo apostrofo con un “salve, come va?”. Al che, in genere ride e risponde: “Ok, nonno”’».

In uno dei questi incontri, Helmreich si è spinto fino a chiedere a un gruppo di Bloods dove potesse acquistare una giacca rossa, sul modello di quella loro. Dopo un po’ di perplessità, il suggerimento è stato di tornare un altro giorno. Parte di questo suo studio antropologico/urbano «a distanza ravvicinata» nasceva anche dal desiderio di sovvertire lo stratificarsi di cliché. «Per molti che non girano New York a piedi e non parlano con le persone, non c’è modo di incontrare la popolazione afroamericana delle classi medie», aveva detto per esempio al New Yorker.

Dei diciotto libri che Helmreich – direttore dell’istituto di sociologia della City University of New York e noto anche per i suoi studi sul giudaismo – ha scritto, The New York Nobody Knows è quello più corposo e forse quello più noto (è stato pubblicato anche in volumi separati, per circoscrizione – Manhattan, Brooklyn, Staten Island, Queens e Bronx).

Tra gli altri suoi lavori, ci sono “Against All Odds: Holocaust Survivors and the Successful Lives They Made in America” (1992), per cui intervistò trecentottanta sopravvissuti all’Olocausto, e uno studio sul black power derivato dalla sua tesi di laurea, The Black Crusaders: A Case Study of a Black Militant Organization (1973).

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