L’unica cura è la solidarietà intervista a Jürgen Habermas [di Nicola Truong]
la Repubblica” 12 aprile 2020. Jürgen Habermas, cosa rivela questa crisi sanitaria globale, da un punto di vista etico, filosofico e politico? «Da un punto di vista filosofico, mi colpisce che la pandemia oggi costringa tutti a riflettere su qualcosa che prima era noto ai soli esperti. Oggi, tutti i cittadini stanno imparando come i loro governi debbano prendere decisioni ben sapendo i limiti delle conoscenze degli stessi virologi consultati. Raramente, il terreno per l’azione in condizioni di incertezza è stato illuminato in modo così vivido. Forse questa esperienza insolita lascerà il segno nella coscienza della sfera pubblica». Ma quali sono le sfide etiche? «Vedo soprattutto due possibili casi che violano l’intangibilità della dignità umana, che la Costituzione tedesca garantisce nel preambolo ed enuncia nel secondo articolo con la dichiarazione “Ogni persona ha diritto alla vita e all’integrità fisica”. Il primo riguarda il cosiddetto triage, l’altro la scelta del momento giusto per interrompere il distanziamento sociale. Il pericolo di sovraccaricare i reparti di terapia intensiva degli ospedali, che si è già verificato in Italia ed è temuto nel nostro Paese, ricorda gli scenari della medicina delle catastrofi che solitamente si verificano solo nelle guerre. Se il numero di pazienti ricoverati è superiore a quello delle strutture di cura disponibili nei reparti di terapia intensiva, i medici dovranno inevitabilmente prendere una decisione tragica, perché in ogni caso immorale. Da ciò nasce la tentazione di abdicare al principio della parità di trattamento di ogni cittadino, indipendentemente dallo status, dall’origine, dall’età, eccetera, e nel nostro caso, in particolare, di favorire i giovani rispetto ai più anziani. Ciò potrebbe essere auspicato dagli stessi anziani in un atto moralmente ammirevole di altruismo. Ma quale medico “soppeserebbe” il “valore” di un uomo contro il “valore” di un altro, erigendosi in tal modo a padrone della vita e della morte? Il linguaggio dei “valori” origliato in economia induce alla “quantificazione oggettivante” che è propria della prospettiva dell’osservatore. Ma questa prospettiva non può essere il modo di trattare l’autonomia delle persone: quando mi rivolgo a una seconda persona (tu-voi), l’autodeterminazione dell’altro può essere soltanto o rispettata o negata, vale a dire o riconosciuta o ignorata. L’etica professionale medica, nei confronti di ciò, è in accordo con la Costituzione e segue il principio secondo cui una vita umana non può essere “messa in contrapposizione” con un’altra. Infatti, prescrive che in situazioni che obbligano a prendere delle decisioni tragiche, il medico deve essere guidato esclusivamente dalle disposizioni sanitarie relative alla maggiore prospettiva di successo del trattamento clinico». E l’altro caso? «La decisione sul momento giusto per porre fine allo shut down – una misura moralmente e legalmente richiesta per la protezione della vita – può entrare in conflitto, ad esempio, con i calcoli dei benefici. I politici devono resistere alla “tentazione utilitaristica” di soppesare i danni economici o sociali, da un lato, e le morti evitabili, dall’altro. Si deve accettare il rischio di sovraccaricare il sistema sanitario e, quindi, aumentare il tasso di mortalità per far ripartire prima l’economia e ridurre così anche la miseria sociale causata dalla crisi economica? Su questo punto, la raccomandazione specifica del Consiglio tedesco di etica è rimasta fatalmente ambigua. I diritti fondamentali vietano agli organi statali di prendere qualsiasi decisione che accetti la possibilità di morte di singole persone». Non c’è il pericolo che lo stato di emergenza possa trasformarsi in una regola “democratica”? «Naturalmente, la limitazione di un gran numero di libertà importanti deve rimanere un’eccezione strettamente contenuta. Ma l’eccezione è di per sé, come ho appena cercato di dimostrare, richiesta dal diritto primario alla protezione della vita e dell’integrità fisica. In Francia e in Germania non c’è motivo di dubitare della fedeltà alla Costituzione da parte dei governanti. Se Viktor Orbán coglie la crisi del Covid 19 come un’opportunità per chiudere definitivamente la bocca all’opposizione, ciò va spiegato con la lunga involuzione autoritaria del regime politico ungherese, che il Consiglio europeo e, soprattutto, i cristiano-democratici europei hanno guardato con indulgenza». “A cosa serve l’Ue se, ai tempi del coronavirus, non dimostra che gli europei stanno insieme e lottano per un futuro comune?”: così avete scritto in un appello collettivo su “Die Zeit” del 2 aprile. «Io e i miei amici abbiamo posto questa domanda al nostro governo: alla Cancelliera e al ministro delle Finanze della Spd. Entrambi mi lasciano sbalordito. Continuano ostinatamente ad attenersi alla loro gestione della crisi a vantaggio della Germania e dei Paesi settentrionali, senza badare alle critiche dei Paesi meridionali. La grande maggioranza dei politici tedeschi teme le reazioni di rabbia dei propri elettori nel caso di una resa. Tanto più che sono stati loro stessi ad alimentare e stuzzicare il nazionalismo economico autoreferenziale e l’autocelebrazione dell’export tedesco come campione del mondo, non senza la compiacenza della stampa, peraltro. Esistono dati empirici comparativi che dimostrano come il nostro governo, con questo nazionalismo sostitutivo, abbia “chiesto troppo poco” alla sua popolazione. Se Macron ha commesso un errore nei suoi rapporti con la Germania è stato quello di sottovalutare, sin dall’inizio, la ristrettezza delle vedute nazionaliste di Angela Merkel, le cui qualità sono altre». La Cina è stata l’epicentro della pandemia e ora sembra che questa epidemia favorisca il suo potere sull’Europa e nel mondo. Si tratta di una svolta geopolitica, vale a dire di un rilancio della sua supremazia politica ed economica? «Questa tendenza è in atto da tempo e sta accelerando una divisione dell’Occidente, iniziata al più tardi con il “presidente di guerra” George W. Bush. Sarebbe quindi ancor più importante se l’Europa vedesse nello shock del coronavirus un’ultima possibilità e si mobilitasse per agire in modo solidale». Come vive questo isolamento? Com’è una vita al chiuso e limitata? «La “frazione parlamentare” degli umanisti – che è comunque “seduta” al proprio computer di casa – ne soffre meno». Questa crisi sanitaria globale rischia di aumentare l’influenza delle forze nazional-populiste che già minacciano l’Europa. Come possiamo resistere a queste forze? «Questa domanda è indipendente dalla situazione attuale di emergenza e deve trovare una risposta diversa in ogni Paese. In Germania, il passato nazista ci ha vaccinato con più forza contro la ricomparsa del pensiero estremista di destra. Per questo partiti e governi poterono permettersi, sotto l’anticomunismo dominante, di chiudere l’occhio verso la destra. Fin dai tempi di Adenauer – e dalla riunificazione con la Germania Est – questo anticomunismo di facciata ha consentito loro di occultare le componenti fatali del loro passato politico. In Francia, invece, l’estremismo di destra era già organizzato da tempo, ma con radici ideologiche diverse dalle nostre: non è etnonazionalista ma statalista. Ora anche una certa sinistra francese, all’origine universalista, sta sprofondando nell’odio per l’Ue». Quale nuova narrazione potrebbero inventarsi gli europei per rinnovare lo slancio verso un’Unione europea non amata e mal coordinata? «Contro il risentimento non valgono argomenti e buone parole. Servirebbe solo la capacità di affrontare e risolvere i problemi da parte del nucleo forte del continente (Germania e Francia). Solo su un “ring” di questo genere diventerebbe realistico lottare per la soppressione di una politica mondiale dominata dal neoliberismo. Oggi vediamo che, quando urge il bisogno, solo lo Stato ci può aiutare». — Intervista rilasciata da Jürgen Habermas a Nicolas Truong per “Le Monde”. Traduzione di Luca Corchia e Leonardo Ceppa
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