Un eremo per riflettere [di Maria Antonietta Mongiu]
L’Unione Sarda 23 Aprile 2020. La città in pillole. Nel tempo i cui si è costretti ad abitare una casa, diventata eremo (in greco luogo inaccessibile), e vivere da anacoreti (ritirati), per insistere sulla lingua madre dell’occidente, è bene chiedersi se oggi, per vivere vite eremitali in letizia, ci siano le condizioni presupposte dai due termini. Forse, se si è soli e in autarchia logistica e spaziale. Non proprio per spazi affollati e in ristrettezze variamente insopportabili. Mancano, comunque, i fondamenti presupposti: motivazione religiosa; propensione alla vita contemplativa e a svariate rinunce. Le pratiche di vita e insediative di un eremita sono più complicate delle nostre fin troppo drammatizzate. L’eremita vero è altro. E’ un diverso; un irregolare; è persino un anarchico. La sua presenza in tutte le religioni è retrodatabile ai primi culti. A lungo la Sardegna è stata disconosciuta come concentrato di habitat eremitici, specie di quelli rupestri. Una geografia del sacro che non esclude nessun territorio. Luoghi rurali e urbani che, senza perdere le specifiche qualificazioni, condividono caratteri icnografici, costruttivi, decorativi. Cagliari, malgrado le secolari distruzioni, ne conserva ancora un ricco campionario. Testimonianze eminenti a Sant’Avendrace, Stampace, Bonaria, Sant’Elia. Il persistente disconoscimento ha impedito di individuare, in città e nel resto della Sardegna, il fenomeno del riuso, di fase tardo antica e altomedievale, di domus de janas neolitiche; di invasi naturali o artificiali, dedicati a culti misteriosofici o salutiferi, o di tombe di fasi nuragica, punica, e romana. L’aspetto catabatico, intrinseco nell’isola al cristianesimo delle origini, ha avuto esiti inusuali per la mai dismessa memoria di luoghi e di culti che il riuso di preesistenze, nella dimensione del sacro, implica. Soluzioni inusuali di meticciato tra sostrato e nuova religione, spesso fraintese. Per capire quanto radicato, uno sguardo al Registrum epistolarum di Gregorio Magno, il papa che con l’icona salus populi romani, avrebbe nel 590 salvato Roma dalla peste, aiuta a comprendere il disconoscimento che perdura ancora oggi. Nelle diverse lettere ad Ospitone, capo dei Barbaricini, ai possidenti sardi, al vescovo di Cagliari Gianuario, tra la fine del VI e primi del VII secolo, il papa stigmatizza, fraintendendo, il modo con cui i sardi praticano i culti, esito di millenarie stratificazioni. Cerca di convincere le élite a disconoscerli per attribuirsi col nuovo credo un diverso ruolo sociale. Che gli estemporanei eremi di oggi siano l’occasione per cambiare? |