Sa die de sa Sardigna: una indisciplinata creazione di senso [di Giuseppe Melis]
Premessa metodologica. Nelle scienze sociali un punto di fondamentale importanza è rappresentato dagli studi che mettono in relazione un sistema osservante con un sistema osservato. Si tratta di studi che consentono di prendere consapevolezza sulla non oggettività della realtà ma, al contrario, evidenziano come qualsiasi oggetto osservato presenti, assai spesso, caratteristiche che dipendono in gran parte dal sistema osservante [1]. In altre parole il sistema osservante, soprattutto in ambito socio-economico, proietta sul sistema osservato caratteristiche che gli sono proprie e che trovano fondamento in diverse circostanze, quali la sua storia, i suoi valori culturali, politici, sociali, ambientali, ecc.. Scrive in proposito Francesca Pulvirenti [2] che: La relazione dell’osservatore con il sistema osservato, o meglio l’osservatore che costruisce il sistema e la sua relazione con il sistema, rende possibile la costruzione di un’irriducibile molteplicità di punti di vista. Si determina, così, il passaggio da un’epistemologia oggettivistica ad un’epistemologia che, ponendosi come interfaccia tra osservatore e osservato, limita un punto di vista unico e assoluto.”. Questo è normalissimo ed è alla base non solo di tante difformità di visioni ma anche dell’azione progettuale, formativa e normativa posta in essere da soggetti individuali e organizzativi. Per quanto riguarda la diversità di visioni si consideri, per esempio, il caso in cu “tizio dice che ha un bicchiere riempito d’acqua a metà” e, nel contempo, altri due soggetti che ascoltano/osservano “tizio” ritengono, rispettivamente, che ciò che ha detto/mostra tizio corrisponda ad un bicchiere mezzo pieno (ipotesi A) mentre per l’altro il bicchiere è mezzo vuoto (ipotesi B). In altre parole, c’è un dato fattuale, la frase espressa da tizio secondo il quale il bicchiere è riempito d’acqua fino a metà (dato oggettivamente verificabile con una misurazione); poi ci sono due letture di questa situazione, una riguardante l’interpretazione di A e un’altra quella di B. Entrambe queste letture appaiono legittime e sono frutto di quanto indicato in precedenza. Affermare a priori che Caio dice una bugia mentre Sempronio dice la verità, o che il primo ha ragione mentre l’altro ha torto non è possibile o, spesso, non è facile, soprattutto se non sono stati definiti a priori gli ambiti concettuali e i criteri nei quali quella frase doveva essere analizzata. Per quanto riguarda invece l’azione progettuale accade che, partendo dal fatto che Tizio avesse un bicchiere riempito d’acqua fino a metà, io possa, anche a distanza di tempo, proporre, per esempio, la “festa del bicchiere mezzo pieno”. In questo caso siamo alla presenza di un’azione creativa, finalizzata a utilizzare un evento, oggettivamente verificabile, attribuendogli un significato volto ad affermare un concetto, un’azione, ecc. Per dirla con Tagliagambe e Usai: Il mondo che conosciamo non è già dato, ma messo continuamente in atto mediante la nostra storia di accoppiamento strutturale con esso (cit. p. 118). Quest’ultima sul piano tecnico non solo è perfettamente legittima, ma lo è anche sul piano culturale, perché concorre a costruire nuova conoscenza, nuovi significati, crea senso, basandosi sul presupposto di legare un fatto del passato con il presente, per affermare un qualche concetto. Tanto più se il legame poggia su considerazioni storicamente documentabili e affidabili, credibili sia sulla base della letteratura esistente che di un corretto approccio metodologico. Sa Die de sa Sardigna come oggetto di osservazione. Quanto indicato in precedenza può applicarsi a qualsiasi campo del vivere sociale e, situazioni come quella dell’esempio precedente sono riscontrabili quotidianamente: succede quando si legge un giornale, quando si ascolta la tv, un comizio, ecc. Ciò fa si che ogni giorno ci siano visioni differenti di quel che osserviamo e in virtù di queste visioni interpretazioni, convincimenti, ecc.. Ebbene, a qualche giorno di distanza dalla celebrazione della ventisettesima edizione de Sa Die de sa Sardigna, istituita dal Consiglio Regionale della Sardegna con la legge 44 del 14 settembre 1993, mi è capitato di leggere due visioni di quei fatti: uno, storicamente sostenuto negli anni da un ampio e qualificato gruppo di studiosi di varia estrazione [3] (si veda in proposito il contributo della Fondazione Sardinia [4] e di tanti studiosi e uomini di cultura come Maria Rosa Cardia, Nino Carrus, Luciano Carta[5], Francesco Casula [6], Placido Cherchi, Salvatore Cubeddu che nel 1985 pubblicò per la prima volta l’idea di questa festa [7], Federico Francioni [8], Giovanni Lilliu, Gianni Loy [9], Piero Marras, Francesco (Cicitu) Masala, Nicolò Migheli [10], Maria Antonietta Mongiu che con gli altri qui richiamati fece parte del primo gruppo chiamato da Giovanni Lilliu a promuovere Sa Die specialmente nelle Autonomie scolastiche e, nel 2007 e 2008 , da Assessora regionale della Giunta Soru dedicò Sa Die rispettivamente ad Antonio Gramsci, all’istruzione e alla Lingua sarda, nell’anno dedicato dall’UNESCO alla difesa delle lingue minoritarie [11], Paolo Pillonca, Vindice Ribichesu [12], Nereide Rudas, Pier Sandro Scano, Pinuccio Sciola, Pietrino Soddu, Renato Soru [13], Eliseo Spiga, Giuseppe Usai), che cerca di dare valore all’iniziativa di legge della Regione Autonoma della Sardegna, l’altro di Giampaolo Salice [14], un valente studioso di storia moderna dell’Università di Cagliari, che nel titolare l’introduzione “L’invenzione di una festa”, sviluppa il concetto contrapponendo alla tesi resistenziale dei sardi stanchi della tirannia esercitata dai Savoia, una lettura molto più prosaica, aristocratica e borghese, motivata esclusivamente dalla volontà dei ceti più nobili dell’epoca l’esclusivo intento di recuperare, sempre all’interno del contesto monarchico, quel ruolo di privilegio proprio dei feudatari che i Savoia avevano proceduto ad eliminare, disattendendo persino gli accordi sottoscritti col Trattato di Londra del 1718. Peraltro non è l’unico ad aver criticato questa celebrazione: altri autori, tra giornalisti e intellettuali, hanno per esempio sostenuto che l’evento da cui trae origine la celebrazione non riguarderebbe tutta la Sardegna ma solo la città di Cagliari. In proposito però Federico Francioni [15] afferma: Ciò non trova riscontro alcuno nella realtà storica, nella ricerca e nel dibattito storiografico: al riguardo, vorrei in primo luogo citare i cari e compianti Lorenzo Del Piano, Tito Orrù e Carlino Sole, autori di saggi sul Settecento e l’Ottocento sardo. Grazie anche ai loro testi, sappiamo infatti che il moto da Cagliari si estese ad Alghero e a Sassari, dove il governatore sabaudo Alessandro Merli, che intendeva opporsi manu militari allo sgombero, dovette desistere di fronte al drastico rigetto del suo oltranzismo da parte dei rappresentanti dei Gremi, dei notabili ed anche di alcuni nobili della città. Ora, lungi da me l’intento di avventurarmi in dissertazioni che non appartengono al mio campo di studi (da studioso di management guardo alla storia con curiosità e umile rispetto avvalendomi, con molta circospezione, delle fonti a me disponibili), così come non sono certamente attratto dalla voglia di sterili polemiche, il mio intento, più da osservatore di fatti culturali e politici, è quello di argomentare, con gli strumenti che appartengono alla mia formazione di economista aziendale e manageriale, come l’iniziativa assunta dalla Regione Sardegna nel 1993 sia legittima e valida sul piano della progettazione politico-culturale e della creazione di senso dell’identità e persino utile rispetto alla costruzione di una identità collettiva necessaria in diversi campi, compreso quello economico e sociale. Gli eventi che hanno dato luogo a sa Die secondo lo storico Girolamo Sotgiu. Al fine di non cadere in pericolosi errori di ricostruzione, mi sono avvalso della rappresentazione dei fatti riconducibili a sa Die, presentata dallo studioso Girolamo Sotgiu nel lavoro intitolato L’età dei Savoia. 1720-1947 [16]. Il primo elemento che colgo in tale lavoro riguarda “le resistenze al nuovo regime” da parte dei Sardi, circostanza che affonda le radici nel fatto che inizialmente: le istruzioni impartite ai viceré al momento di prendere il possesso della carica … fissano soltanto, con minuziosa pedanteria, compiti e incombenze, che fanno del viceré un semplice esecutore di ordini (p. 67). Sotgiu prosegue facendo un confronto con la dominazione spagnola affermando che: con il Piemonte non esisteva alcuna affinità: diverse le istituzioni, la cultura, il costume, il modo di esprimersi e persino il modo di vestire. Tutto ciò, seppure fosse previsto (nel Trattato di Londra) che nulla doveva cambiare rispetto ai diritti esistenti all’epoca catalano-aragonese, con i Savoia si gettano: le basi per la creazione di un potere centralizzato che col volgere degli anni potesse far superare le resistenze che si avvertivano forti e diffuse (p. 67). In questo quadro si arriva alla fine del secolo nel corso del quale si chiede al re di convocare gli Stamenti “per decidere le misure da prendere per respingere l’attacco francese”. Il re, in continuità con quanto accadde fin dalle origini di questo regno, rifiutò tale richiesta e gli Stamenti decisero di riunirsi in autonomia; fu così che si pervenne alla formulazione delle cinque fatidiche richieste, tutt’altro che rivoluzionarie, alle quali il re rispose ancora una volta negativamente, non accogliendo neppure quella di ricevere una delegazione inviata a Torino. Scrive in proposito Sotgiu: la risposta negativa alle cinque domande – così come l’atteggiamento irriguardoso nei confronti dei delegati degli Stamenti – contribuì in modo decisivo a far precipitare la situazione (p. 83). Le interpretazioni di quei fatti. I fatti sommariamente richiamati sopra sono stati oggetto di analisi da parte di storici del tempo e di altri che sono venuti dopo. Sempre Girolamo Sotgiu sui quei fatti di fine Settecento scrive La storiografia italiana non ha dato al moto rivoluzionario degli anni 1793-96 l’attenzione che era stata data ai moti rivoluzionari giacobineggianti che furono il riflesso italiano della rivoluzione francese” … .. e aggiunge ancora questo fatto ha impedito di cogliere gli elementi di maggiore interesse che gli avvenimenti della Sardegna presentavano rispetto, ad esempio, ai movimenti giacobini della Savoia e del Piemonte e a quelli tanto più noti e celebri della rivoluzione napoletana del 1799 (p. 95). Insiste, sottolineando come questa sottovalutazione abbia: impedito di avvertire che non si è trattato di una rivoluzione passiva … ma del risultato di un profondo travaglio interno che .. nel corso di tre anni e mezzo schierò, in alterne vicende, le forze della conservazione e quelle del rinnovamento, con un protagonismo che nasceva dalle condizioni oggettive della realtà isolana. Non pago di queste argomentazioni lo studioso afferma chiaramente che: la sconfitta dell’Angioy fu la sconfitta dei ceti contadini emergenti dal seno stesso della società feudale, sollecitati a ciò dalle masse di contadini ed angariati e guidati dalle forze più avanzate della borghesia della Sardegna (p. 95). A sottolineare questa lettura rivoluzionaria e per nulla appiattita su posizioni aristocratico-borghesi Sotgiu conclude affermando che: Il movimento angioiano era stato il tentativo più organicamente e consapevolmente condotto di dare alla nazione sarda un suo originale e autonomo modi di collocarsi nella realtà europea; la sua sconfitta segnò l’accettazione della subordinazione dell’isola, la fine di ogni aspirazione nazionalista da parte della sua classe dirigente. Sulla stessa linea si colloca la visione di Federico Francioni quando afferma che [17]: il 28 aprile 1794 risulterebbe incomprensibile se non venisse collocato nel quadro del triennio rivoluzionario sardo 1793-96: allora migliaia e migliaia di uomini, donne, giovani, appartenenti al ceto borghese professionale, al mondo artigianale dei Gremi (le antiche corporazioni di arti e mestieri), membri del popolo minuto – dalle città al mondo delle campagne – con parecchi, coraggiosissimi sacerdoti, animarono i moti, anche armati, contro l’assolutismo sabaudo e l’odioso sistema feudale, sostenuto peraltro da teracos locali. Si è trattato del più grande sommovimento sociopolitico che l’isola abbia conosciuto nella sua storia. Francamente, credo siano sufficienti questi pochi passaggi per dimostrare che ciò che accadde allora non può essere derubricato a tentativo di ripristinare vecchi privilegi feudali. Del resto, Angioy, che pure era di famiglia aristocratica e ricca, dopo essere stato tradito da diversi tra coloro che lo avevano inizialmente sostenuto, subì il sequestro di tutti i suoi averi e finì la sua esistenza in esilio a Parigi dove morì poverissimo. La nascita de Sa Die come espressione dell’indisciplina creativa e non come invenzione folkloristica. Sulla base dei fatti richiamati e delle interpretazioni pressoché unanimi di tanti studiosi e cultori della materia si arriva così ai nostri tempi e alla “invenzione” de Sa Die. Il vocabolario da due definizioni di questo termine: da un lato essa esprime la: Ideazione, tradotta in realtà, di un progetto o di un elemento risolutivo originale nell’ambito di una funzione determinata. Per esempio è una invenzione la bussola, il telescopio; oppure l’oggetto di una nuova funzionale scoperta. C’è quindi un significato positivo. Tuttavia, il dizionario indica anche un altro significato Suggerimento dell’immaginazione, per lo più al livello dell’espediente bizzarro o menzognero. Pende una domanda. Quale significato dare alla invenzione de Sa Die? Può esserci difformità di interpretazione dei fatti presi a supporto dell’istituzione di questa celebrazione? Cioè, possono essere entrambe valide le ipotesi come nel caso del bicchiere riempito a metà? La mia personale opinione è che, dopo aver letto Girolamo Sotgiu e i tanti altri citati in questa riflessione, mi pare che i fatti stiano solo da una parte e che il tentativo di far passare gli eventi della fine del Settecento come una astuta operazione di alcuni privilegiati per recuperare il potere feudale perduto, sia quanto meno ingeneroso, se non addirittura fuorviante. Mi chiedo allora perché? Cosa c’è dietro le critiche all’istituzione de Sa Die e, quindi, alla necessità di leggere in maniera diversa i fatti sopra richiamati? In proposito Francesco Casula ha scritto che “sa Die è una data eversiva, che da fastidio”[18] mentre Federico Francioni [19] sullo stesso tema ha scritto: Il disegno più ostinato, logico e coerente si è sviluppato a partire dalle analisi e dai giudizi denigratori propri, fra gli altri, del Manno (che rimane pur sempre il più eminente storico ottocentesco dell’isola). Con l’obiettivo dichiarato di porre fine alle iniziative del 28 aprile, di smontarle – per indurre le istituzioni a non parteciparvi più – prendeva corpo sulle pagine del quotidiano sassarese “La Nuova Sardegna” una martellante campagna di stampa. E poi conclude: Il tentativo di decostruire – ed anche di affossare – Sa die, con gli strumenti di una critica corrosiva ed anche con la commiserazione, lo sberleffo ed il dileggio, è andato a vuoto. La mia convinzione è che questo richiamo alla sardità ad alcuni generi persino un senso di vergogna, come quando Placido Cherchi [20] riferendosi ai tempi della sua giovinezza narra che: Era ovvio che ci vergognassimo del nostro sardo e che incoraggiassimo le piccole a sbrigarsela con l’italiano. Anzi, nella elementare dialettica operante a livello della nostra coscienza adolescenziale (ma operante di fatto anche nelle orribili semplificazioni che dominavano l’ideologia ufficiosa veicolata dalla gente di cantiere), il sardo passava per essere l’habitus più ovvio dell’arcaico, del sottosviluppo, della rozzezza, mentre l’italiano aveva in sé tutte le connotazioni dello sviluppo, dell’emancipazione, della modernità, ecc.. È di fronte a questo diffuso senso di vergogna verso la nostra sardità, indotto dai Savoia prima e in tempi più recenti anche dalla “democratica” Repubblica con mezzi certamente meno violenti ma altrettanto efficaci, che assume invece valore l’istituzione di una giornata del popolo sardo. Tra i tanti fatti che avvallano la tesi della educazione alla vergogna della sardità si può ricordare, come ci ricorda Francesco Casula [21], quanto scritto da Carlo Baudi di Vesme che nell’opera Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, scritta, su incarico del re Carlo Alberto tra l’ottobre e il novembre 1847 ma completata nel febbraio 1848, scrive che: Una innovazione in materia di incivilimento della Sardegna e d’istruzione pubblica, che sotto vari aspetti sarebbe importantissima, si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico civile non meno che nelle funzioni ecclesiastiche, tranne le prediche, l’uso dei dialetti sardi, prescrivendo l’esclusivo impiego della lingua italiana…E’ necessario inoltre scemare l’uso del dialetto sardo ed introdurre quello della lingua italiana anche per altri non men forti motivi; ossia per incivilire alquanto quella nazione, sì affinché vi siano più universalmente comprese le istruzioni e gli ordini del Governo…. In sostanza il messaggio era quello del colonizzatore che ci considerava “incivili” anche per la nostra lingua, fortunatamente ancora parlata da tanti di noi, ma non da tutti. Questo messaggio è stato talmente ripetuto e ribadito nel tempo, anche dalla Repubblica, prima di tutto quando all’atto della Costituente si scelse la forma dello Stato unitario, invece di quello federale, che di fatto ha costituito il presupposto per la deliberata cancellazione delle differenze. Tutto il contrario della Svizzera che, invece, all’articolo 1 della sua Costituzione riconosce come fondanti la Confederazione sia il popolo che i territori, i Cantoni permettendo così che si facesse inclusione di tutte le lingue parlate in modo ufficiale [22]. Pensiamo poi come nel tempo il processo di “italianizzazione” dei sardi volto non già ad arricchirli ma ad estirpare le proprie radici si è consolidato con la scuola che vedeva maestri “pestare le mani” di tanti bambini che osavano esprimersi con l’unica lingua imparata a casa, il sardo. Ebbene, l’obbrobrio di quella operazione fu che tanti sardi si convinsero e ancora oggi sono convinti che parlare sardo sia da incivili [23], da grezzi, che per essere al passo col mondo occorre studiare inglese e si debba dimenticare le proprie radici. Eppure tanti studi di neuroscienze dimostrano oggi che Il soggetto che parla più lingue è più sveglio, più duttile mentalmente, prus abistu, di chi ne parla una sola [24]. Scientificamente il sardo è una lingua, perché non dovrebbe avere pari dignità con le altre lingue del mondo, quelle parlate da molti e quelle parlate da pochi? È a partire da questo semplice esempio (ma non è l’unico che dimostra il senso di vergogna delle nostre radici che ci è stato instillato in modo assai più efficace dalla repubblica che non dai Savoia perché non ne avevano gli strumenti) che invece la “invenzione” della Giornata del Popolo Sardo è di una “genialità” assoluta, una vera perla di intelligenza nel panorama di povertà politica dalla quale questa terra non riesce ad emergere. Trovare nella storia un momento rivoluzionario, di affrancamento dalle condizioni di subalternità, che testimonia l’emersione di un sussulto di orgoglio rispetto all’atavica propensione a subire tutto, è l’elemento che dà senso a questa festa. Il periodo della rivoluzione angioiana è stato utilizzato dal legislatore sardo per ricordare a tutti noi e alle generazioni che seguiranno, che la condizione di subalternità non è una condanna perenne, non è un fato dal quale non ci si può affrancare. La decisione del Consiglio regionale della Sardegna del 1993 si può considerare, sul piano filosofico, politico e culturale, un felice e intelligente gesto di indisciplina creativa, un vero gesto di disobbedienza culturale. È Silvano Tagliagambe, del quale mi considero indegno allievo a sua insaputa (ma solo fino a un certo punto, perché in realtà ho seguito tante sue lezioni e ho letto alcuni suoi libri) che utilizza l’espressione “indisciplina creativa”. L’autore, infatti, afferma che in essa si “prende atto del senso della realtà e dei suoi vincoli” e la coniuga “con il senso della possibilità e con la capacità di vedere e pensare il mondo altrimenti”. Nell’indisciplina creativa risiede quindi: la natura progettuale dell’uomo, che non si limita a vivere nell’ambiente in cui è inserito, ma lo sa plasmare e modificare, pur rispettandolo [25]. Richiamando le considerazioni iniziali riguardanti il rapporto tra sistema osservante e osservato, la Pulvirenti [26] viene in soccorso a questa ipotesi quando sottolinea che: il significato delle cose, della realtà, del mondo – nel nostro caso i fatti che hanno originato sa Die – non è, infatti, semplicemente dato, ma è rinvenuto, scoperto, costruito in rapporto al contesto culturale che lo esprime e in cui ha luogo. Il soggetto non è un elemento passivo del sistema vivente ma si pone come unità operativa capace di utilizzare la propria mente per la “riconquista” di una posizione di primo piano nella gestione del sistema di cui egli stesso fa parte. Quando l’assessore regionale della cultura di allora, Efisio Serrenti, sardista, facendo proprie le istanze provenienti da vari ambienti della cultura e della accademia sarda, propose l’istituzione della festa e il Consiglio regionale votò la legge 44, l’intento era chiaro: trovare nella storia della Sardegna e del popolo sardo un momento del quale i Sardi avessero dimostrato la capacità di ribellarsi all’oppressore, di provare a cambiare la storia diventandone protagonisti. Questa legge, per dirla con le parole di Tagliagambe, esprime il “desiderio di cambiamento e di innovazione” di una governance regionale guidata da ideali di riscatto del popolo sardo. Pur con tutti i limiti di quel periodo, ci fu però reazione pressoché unanime di supporto alla legge, anche da parte di quei ceti politico-culturali non sardisti, come è facile verificare leggendo gli autori citati all’inizio di questa riflessione. Non a caso, per esempio, per diversi anni, sotto l’egida della Fondazione Sardinia, più di cento intellettuali (docenti, storici, artisti, giornalisti) si recarono volontariamente in moltissime scuole della Sardegna per far conoscere questa celebrazione, un elemento che si dovrebbe ripristinare non già concedendo una vacanza o mistificando la festa spostando l’attenzione su fatti totalmente estranei a quegli eventi, ma recuperando spazio per insegnare un po’ di storia della Sardegna a tutti gli studenti di ogni ordine e grado, ciò che oggi, purtroppo, rappresenta una vera e propria lacuna del nostro sistema formativo. Sa Die de sa Sardigna è, ancora oggi una grande intuizione, un gesto di indisciplina creativa, finalizzato a fornire una base giuridica per una nuova motivazione culturale di un popolo nei secoli sottomesso. Dovremmo sentire tutti il piacere e il dovere di celebrarla almeno quanto si sente quello di celebrare, per esempio, la festa di liberazione dal nazi-fascismo. Perché recuperare il senso più profondo e non superficiale, banale, folkloristico della nostra sardità [27], pur all’interno di un quadro multi culturale, multi etnico e plurinazionale, è un elemento fondamentale per riuscire a costruire un futuro diverso, anche sul piano socio economico. Non è un caso che il valore di una qualsiasi offerta economica sta non nel suo prezzo ma nel suo carattere distintivo e unico. Chiediamoci cosa abbiamo di più distintivo e unico della nostra sardità, a cominciare dalla nostra lingua, dalla nostra storia e dalla nostra storia dell’arte, dalle nostre tradizioni, dagli usi e costumi, dalla nostra enogastronomia, ecc. Potrei continuare con un elenco assai lungo di elementi di specificità che opportunamente gestiti e organizzati potrebbero generare valore. La nostra capacità di sopravvivenza non risiede nell’omologazione e nell’annegare in altre culture, ripudiando ciò che siamo. Questo lo possiamo e lo dobbiamo fare ora, perché poi sarà troppo tardi e dei Sardi si parlerà, forse, solo nei libri di storia, così come oggi, per esempio, si parla dei Sumeri. Fortza Paris e faeus festa cada annu su 28 de Abrili. Note [1] Tagliagambe S. Usai G. (1994). L’impresa tra ipotesi, miti e realtà. Isedi. Milano. [2] Pulvirenti F. (2011). Il processo formativo come approccio sistemico ai saperi del soggetto. Riflessioni Sistemiche. n. 5 novembre, p. 154. [3] M scuso in anticipo se l’elenco riportato nel testo non dà conto dei tantissimi che hanno contribuito alla costruzione e alla diffusione de Sa Die. Ho dovuto conciliare la necessità di chiudere il pezzo in un tempo ragionevole con la difficoltà di trovare documenti in rete riconducibili alle diverse persone citate. Ringrazio però fin d’ora chi avrà la bontà di segnalarmi documenti e omissioni così da permettermi di colmare il vuoto di conoscenza presente in questo pezzo. [4] Comitato per Sa Die de Sa Sardigna (2020). Est arribande sa Die de sa Sardigna de su 2020: ite faghimos? Sa proposta de su Comitàu. Fondazione Sardinia, http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=17378 [5] Carta L. (2020). Per il 28 aprile. Fondazione Sardinia, http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=17408 [6] Casula F. (2015). Sa die de sa Sardigna dimenticata. Truncare sas cadenas, https://truncare.myblog.it/2015/04/22/sa-die-de-sa-sardigna-dimenticata-francesco-casula/ . [7] Cubeddu S. (1985). Quale sindacato per il futuro della Sardegna? Ichnusa, n. 9. [8] Francioni F. (2020). Sa die de sa Sardigna compie 27 anni: alcune considerazioni di carattere storico-critico. Fondazione Sardinia, http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=17413 [9] Loy G. (2019). Sa Die de sa Sardigna. Una traversata nel deserto. Aladinpensiero, 28 aprile. http://www.aladinpensiero.it/?p=96277. Relazione tenuta in Consiglio regionale in occasione de Sa die de Sa Sardigna il 28 aprile 2019. [10] Migheli N. (2015). La Sarda Rivoluzione? Sciocchezzuole!, Sardegna Soprattutto, http://www.sardegnasoprattutto.com/archives/5771 [11] Si veda in proposito il Decreto con il quale vennero assegnati contributi a favore dei Circoli degli emigrati per l’attuazione di progetti inerenti la produzione di materiali a contenuto fonico nelle diverse varietà della lingua sarda.https://www.regione.sardegna.it/j/v/2588?s=1&v=9&c=1473&c1=369&id=13189 [12] Fu tra i fondatori e primo Presidente della Fondazione Sardinia e tra i più attivi per coinvolgere diverse Associazioni nelle iniziative di divulgazione della Giornata del popolo sardo. http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=10565 [13] Celebre è il discorso in sardo tenuto in Consiglio regionale in occasione de Sa Die del 2008 nel corso del quale, da Presidente della Regione, Soru disse: “Ricordiamo un giorno di ribellione dei sardi con l’intenzione di ricordare che anche oggi dobbiamo ribellarci con l’intelligenza, l’istruzione, la lingua”. Aggiunse poi “Non facciamo queste manifestazioni per sostenere che deve essere un obbligo parlare il sardo sempre e in ogni occasione ma perché abbiamo capito che in passato ci hanno sottratto, o hanno cercato di sottrarci, la nostra lingua e dobbiamo in qualche modo cercare di porre rimedio“. Non era mai capitato, prima di allora, che un Presidente della Regione prendesse la parola in sardo durante una seduta ufficiale del Consiglio regionale. Concluse affermando che “La lingua sarda per noi può avere anche rilievo economico, per il semplice fatto che nel mondo contemporaneo sono le differenze che ci possono aiutare per migliorare. Se oggi in Sardegna nessuno parlasse più sardo, la nostra isola sarebbe più ricca o più povera? Io penso che sarebbe più povera“. http://www.regione.sardegna.it/j/v/13?s=80604&v=2&c=392&t=1&fbclid=IwAR3QlgAvR94xPxIlhBmTGcQ7JF0Qhpbj5Ef-La0quakGqG01Med8tSQp9EM [14] Salice G. (2020). 28 aprile 1794. Sa die de sa Sardigna. Università degli Studi di Cagliari, https://storia.dh.unica.it/2020/04/28/28-aprile-1794-sa-die-de-sa-sardigna/?fbclid=IwAR3kPF5RjTJeE2Dj0GvMEwsKndstLOrSovoL7yn6FRmgTFC6DyV_kJ_heDw [15] Francioni F. (2020). Sa die de sa Sardigna compie 27 anni: alcune considerazioni di carattere storico-critico. Fondazione Sardinia, cit. [16] Sotgiu G. (1982). L’età dei Savoia. 1720-1947, Brigaglia M. (a cura di). La Sardegna. Edizioni della Torre, pp. 65-114. [17] Francioni F. (2020). Sa die de sa Sardigna compie 27 anni: alcune considerazioni di carattere storico-critico. Fondazione Sardinia, cit. [18] Casula F. (2020). Chi ha paura de sa Die?, Pesa Sardigna, http://www.pesasardignablog.info/2020/05/ [19] Francioni F. (2013). Sa Die de sa Sardigna: vent’anni e un primo bilancio. Fondazione Sardinia. http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=5380 [20] Cherchi P. (1999). Due o tre cose, per decidere di essere Sardi, Cubeddu S. (a cura di), L’ora dei Sardi, I seminari della Fondazione, Atti, Edizioni Fondazione Sardinia, p. 246 [21] Casula F. (2016). Prefazione a SARDEGNA, sussidiario di Pantaleo Ledda. Copia anastatica dell’originale dell’Almanacco per ragazzi del 1924. In http://www.aladinpensiero.it/?p=51264. [22] L’articolo 1 della Costituzione elvetica recita testualmente: “Il Popolo svizzero e i Cantoni di Zurigo, Berna, Lucerna, Uri, Svitto, Obvaldo e Nidvaldo, Glarona, Zugo, Friburgo, Soletta, Basilea Città e Basilea Campagna, Sciaffusa, Appenzello Esterno e Appenzello Interno, San Gallo, Grigioni, Argovia, Turgovia, Ticino, Vaud, Vallese, Neuchâtel, Ginevra e Giura costituiscono la Confederazione Svizzera.” http://www.consiglioveneto.it/crvportal/BancheDati/costituzioni/ch/zSvizzera_sin.pdf [23] Io stesso da bambino ho vissuto questa situazione con mamma che mi diceva che non era bello parlare sardo, che quel “dialetto” era da persone poco perbene. Una situazione che ho avuto modo poi di verificare in occasione di tantissime iniziative di presentazione del libro di Francesco Casula su Carlo Felice e i tiranni sabaudi, in cui tanti intervenuti hanno portato la loro esperienza confermando questo atteggiamento dei genitori nei loro confronti. [24] Scrive in proposito Michel Serres che “Le lingue sono un tesoro e veicolano molto più delle sole parole. La loro funzione non si limita al contatto e alla comunicazione. Costituiscono da un lato dei marcatori fondamentali di identità, e sono inoltre strutturanti per le nostre prospettive”. Serres M. (1996), Atlas, Flammarion, Paris. [25] Tagliagambe S. (2017), Nuovi stili di pensiero: la strategia dello sguardo e il problema dei confini. p. 21. http://www.circolobateson.it/archiviobat/2017/Seminario%20Gennaio/STagliagambe_revisione.pdf [26] Pulvirenti F. (2011). Il processo formativo come approccio sistemico ai saperi del soggetto. Riflessioni Sistemiche, cit., p 156. [27] Si veda nello stesso senso Casula F. (2018). Carlo Felice e i tiranni sabaudi, prima edizione, Grafica del Parteolla, Dolianova, il quale scrive: “Il problema che abbiamo oggi davanti, a livello soprattutto culturale, non è tanto quello di ridiscutere la data o, peggio, il valore stesso di una Festa nazionale sarda, bensì di non ridurla a semplice rito, a pura vacanza scolastica o a mero avvenimento folclorico e festaiolo” (p. 45). * Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali Università degli Studi di Cagliari
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Eja, Giuseppe Melis!
Epuru a mimi, candho lígio cosas deosi, mi abbarrat sèmpere su surrúngiu mannu (no naro cosa peus) po totugantu unu bellu foedhare de is Sardos in italianu chi sighint a fàere essire in bregúngia cantos foedhaus sa limba nosta, no importat cun cale cunseguéntzia disastrosa!
No iat a èssere meda prus dignitosu a nàrrere cun umilesa “Noso sigheus a foedhare custu bellu italianu ca seus handicapaos” ca custu at fatu a is Sardos sa civilizatzione de su domíniu italianu, nos at istrupiau e fatu a ingorantes de totu su chi seus, no fatu civiles si no fustis inciviles, e cun passiéntzia recuperare una dignidade e unu fàere, de limba puru, chi eis pérdiu e chi est s’arrispetu chi depeus donniunu po noso etotu?
A mimi mi nci funt fuios custos versos (de diora meda, dexinas de annos como) si su Guvernu de Sardegnasoprattutto no tenet arreghèscia a dhos pònnere:
L’identità
E bicant,
e bicant,
e bícanta!
– Est bonu! – nanta –
E bicant,
e bicant,
a ispítzulus mannus
abbícanta!
– Est bonu!! – nanta,
cuncordus, is crous.
E calant a fundu,
in sa pedhi,
in sa carri,
iscarraxant
is nérbius
e tocant is ossus
e fintzas su miudhu
ndi bogant a foras
e nanta
ca est bonu
s’ispéigu istasiu
aici fadiau
cun sa morti in is ogus
e in dónnia piessignu.
E atrus si ghetant,
a mússius a mússius,
margianis frorius,
arresis, cerpius,
e narant ca est bonu,
ca est bellu
s’ispéigu, morendi,
ca issus
s’ispéigu no funti.
Dhu pascint e acabbant
e parlano,
parlano,
parlano
… Che bello! Che buono!
Ca sa língua
de s’ispéigu no fuedhant,
ca issus
s’ispéigu no funti,
margianis, arresis,
e crous e cerpius,
cun prexu de is meris
chi dh’anti,
po prexu de is meris,
aici istasiu.
Gratzias meda Mariu!
Fustei tenit arrejoni apitzus sa bregungia de allegare e iscriere in sardu. A mimi fait meda piaghere mancai non tengiu connossentzias mannas pro tennere una faeddara longa cun paraulas tecnicas .. ma candu potzu ci provu sena bregungia.