Cosa ci raccontano gli abbattimenti delle statue [di Nicolò Migheli]
L’uccisone di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis ha scatenato negli Usa proteste spesso violente e il moto di indignazione si è propagato in tutto l’Occidente. In molti Stati sono stati deposti i monumenti ai soldati e agli eroi della Confederazione, compreso quello del generale Lee, il comandante sudista durante la guerra civile americana. Il furore iconoclasta ha raggiunto l’Europa dove dei manifestanti hanno divelto dal piedistallo la statua bronzea di Edward Colston, il mercante di schiavi del XVII secolo e gettato in mare. In Belgio per iniziativa del governo hanno trasportato dalle piazze nei musei le statue del re Leopoldo che colonizzò il Congo non come monarca, ma da privato e lo sfruttamento da lui indotto comportò la morte di 100 mila congolesi. Già negli anni scorsi nelle Americhe molte statue di Cristoforo Colombo sono state deposte, perché quel personaggio se per noi europei è lo scopritore di un nuovo mondo, per le popolazioni amerinde è la prima causa della loro apocalisse. In molti si chiedono che senso abbia prendersela con le statue, altri si indignano o considerano l’atto un ennesimo omaggio al politicamente corretto. Altri ancora sostengono che la storia è quella e quelle statue ne fanno parte. Occorre invece riflettere perché ora e solo adesso vi è una spinta spesso violenta ad espellere dagli spazi pubblici monumenti a personaggi diventati controversi; quasi si assistesse a un cambio di regime come alla fine del fascismo o la caduta del comunismo nell’est europeo. Le nostre società, soprattutto quella americana e nord europea, sono diventate multietniche. La presenza di etnie diverse non è solo frutto dell’immigrazione ma in Uk e Belgio è frutto del passato coloniale. Il ricordo di quei personaggi, prima ignorati, sono diventati pietra dello scandalo, non raccontano solo schiavitù antiche ma il fondo razzista che permane nelle nostre società. L’uomo è un animale simbolico, ne ha bisogno. I simboli può amarli, perché magari fanno parte della propria cultura e retaggio storico, o odiarli profondamente perché ai suoi occhi rappresentano le ingiustizie che ha vissuto o vive ancora. L’Europa per quattro secoli ha colonizzato e dominato il mondo. Ha esportato nel bene e nel male valori e guerre, si è appropriata delle risorse altrui. Non si riflette mai abbastanza che il benessere, a cominciare dall’Ottocento, di strati sempre più vasta di popolazione europea, non erano solo dovuti all’innovazione ma anche alle materie prime importate dalle colonie a prezzi irrisori e allo sfruttamento di popoli interi imposto con violenze terribili. Il razzismo è stato l’ideologia perfetta anche quando si edulcorava in paternalismo. Questo secolo segna e segnerà sempre di più il tramonto dell’egemonia dell’Occidente vasto, quello che va da Vladivostok a Los Angeles. Altri popoli, altre economie, vogliono e impongono i loro protagonismi, conquistano spazi una volta impensabili. L’abbattimento di quelle statue racconta di un mondo finito. Siamo alla fine dell’impero e non ce ne rendiamo conto, reagiamo con una frase diventata banale: la storia non si cambia. Invece siamo noi ad essere messi sotto sopra. A noi ci si chiede di cambiare. Questo è una necessità che tocca anche le colonie interne come la Sardegna. La storia dei conquistatori vive nei nomi delle strade, nei monumenti ai Savoia che per decisione di organi dello Sato italiano debbono restare immutati. Si accetta solamente che un corso Umberto cambi la denominazione in Francesco Cossiga ma non Francesco Cillocco, quasi che il martire della Sarda Rivoluzione non possa essere ricordato in una via importante. Una dimostrazione che la toponomastica ha funzione politica e simbolica. So di toccare un nervo sensibile a molti, ma che il razzismo italico abbia fatto le sue prove generali in Sardegna e nel meridione italiano, non siamo solo noi a dirlo ma la scrittrice somala Igialba Scego che ha le sensibilità giuste per cogliere il fenomeno. Che fare di quei monumenti? L’artista britannico Banksy, propone di ripescare dal mare la statua di Edward Colston ed erigere delle statue di bronzo che raffigurino la deposizione riportando Colston sul piedistallo. Un modo per segnare in maniera nuova lo spazio pubblico. La Storia che continua.Un’altra soluzione sarebbe quella che hanno adottato nei Paesi dell’Est. Non solo parchi con le statue gigantesche di epoca comunista. Budapest ha scelto di trasportare la statua di Stalin nel museo della Civiltà Magiara, dove un intero piano è dedicato alla vicenda comunista e alla rivolta del 1956. Forse questa è la scelta migliore, percorsi didattici ove si racconti dei personaggi raffigurati, lasciando libere le piazze ad opere d’arte dove tutti possano riconoscersi. Bisogna essere consapevoli che se una storia condivisa è difficile, lo è ancor di più se si entra nel simbolico. Con esso si toccano fibre profonde e il solo racconto della Storia può non essere sufficiente. Abbiamo bisogno di società coese, includenti. Una sfida non da poco perché i tempi che abbiamo davanti saranno per forza di cose conflittuali. *Budapest. Statua di Stalin nel museo della Civiltà Magiara. Foto dell’autore. |
Anche l’Etiopia ha fatto un percorso didattico museale sulla conquista coloniale italiana e relative nefandezze nell’edificio che fu il palazzo di Hailé Selassiè e che oggi è sede dell’Università di Addis Abeba. Da vedere.