Ma la scuola digitale può davvero sostituire la relazione affettiva e cognitiva dell’aula reale e concreta? REPETITA IUVANT [di Giovanna Magrini e Daniela Marras]
Ben prima che l’acronimo DaD facesse la sua comparsa nella lingua italiana, ben prima che i decreti ministeriali ne facessero menzione, gli insegnanti, in modi differenti, avevano già escogitato strategie didattiche che consentissero di tener viva la relazione pedagogica con i propri alunni; il loro zelo e i loro sforzi non han potuto, tuttavia, rimpiazzare la Scuola vera, luogo concreto in cui avviene l’elaborazione concettuale della realtà e dove, tramite legami affettivi e cognitivi che si vengono a creare, si matura insieme nel rispetto dei ritmi e delle specificità di ciascuno . La variante online della scuola, nonostante l’impegno profuso da chi l’ha sperimentata in toto, ha assunto per lo più le fattezze di video-conferenze popolate da volti sfocati e da discorsi intermittenti che, per giunta, hanno tagliato fuori proprio chi, per svariati motivi, aveva più bisogno di essere incluso; le varie piattaforme fornite dalla rete (e utilizzate su base volontaria dalle istituzioni scolastiche o dai singoli docenti) si sono inoltre dimostrate vulnerabili e non adatte a gestire i dati sensibili di minori e non … E mentre maestri, maestre, professori, professoresse, genitori e associazioni segnalavano queste criticità sin dai primi giorni, c’è stato l’assordante silenzio della politica, dei sindacati e di buona parte della stampa. Poche testate giornalistiche, pochi programmi televisivi ‘di nicchia’ e pochissimi sindacati (quelli con scarso potere contrattuale) hanno, infatti, sollevato il problema dell’emergenza scolastica. È stato invece più semplice imbonire l’opinione pubblica convincendola che la scuola digitale fosse la panacea di tutti i mali o, se non altro, il mane minore: è stato meno dispendioso (o forse no) dare a vedere, a suon di hashtags, che la scuola non si è mai fermata. Più onesto, ma difficile da ammettere, sarebbe stato e sarebbe tutt’ora dire la verità all’Italia: mai si è speso abbastanza per le esigenze strutturali della SCUOLA PUBBLICA; quest’ultima, come la Sanità, non producendo beni di consumo tangibili, ha incessantemente subìto, al contrario, drastiche misure di depotenziamento, il cui risultato è sotto gli occhi di tutti: precarietà dei caseggiati scolastici, precarietà del personale docente ed ATA … precarietà del servizio. In questi giorni, proprio mentre stiamo affidando a voi le nostre riflessioni, alcuni sindacati pare si siano destati dal letargo invernale invitando i loro iscritti e simpatizzanti a scioperare l’8 Giugno, cioè SOLO dopo essersi già seduti al tavolo della contrattazione ancora una volta senza aver consultato gli “operai” dell’istruzione. Forse è troppo auspicare che, preso atto delle crescenti proteste, ultimamente anche di piazza, chiedano finalmente a gran voce quanto da vent’anni serve alla SCUOLA PUBBLICA per essere davvero definita BUONA. Cosa serve? Anche se la risposta è ormai nota non solo agli addetti ai lavori, ma anche ai meno addetti, è sempre vero che repetita iuvant:
Se il sistema educativo nazionale regge ancora, il merito va alla professionalità di un qualificato corpo docente che lavora con abnegazione, non certo a leggi, leggine e decreti vari. Gli insegnanti italiani di ogni ordine e grado invitano, pertanto, quelli che si dilettano a screditare la loro categoria, a visitare più spesso le scuole del territorio per toccare con mano come e in quali condizioni si lavora, si apprende, si cresce lì dentro. Chi volesse approfondire può leggere il testo di una petizione in cui crediamo fortemente e che, dal 27 Aprile ad oggi, ha raccolto circa novecento firme; qui il link: http://chng.it/xXbHMsBs. *Maestre. Torpè. Borore; |